A rischio di estinzione. Terza parte

Riprendiamo il report di Amnesty International A rischio d’estinzione. Omobitransfobia e leggi anti-Lgbtqia+ in Africa , approfondendo questa volta le delicate situazioni del Mozambico, della Namibia e della Tanzania.

Il Mozambico sta cercando di disegnare un futuro più inclusivo, ma per la comunità Lgbtqia+ ogni passo avanti è ancora segnato da tanti, troppi ostacoli. La revisione costituzionale del 2004 e l’abolizione, nel 2015, di leggi anacronistiche come quella contro i “vizi contro natura” hanno rappresentato conquiste estremamente rilevanti, piccoli fari lungo la strada verso il rispetto dei diritti umani. Ma sotto la superficie di questi progressi, resta una quotidianità fatta di invisibilità e dolore: le persone trans, in particolare, sono abbandonate da un sistema che non le riconosce, escluse dal lavoro e spesso spinte alla sopravvivenza attraverso il sex work. Il codice del lavoro vieta la discriminazione per orientamento sessuale, ma ignora l’identità di genere: un vuoto normativo che diventa un baratro. Difatti mancano strumenti per il riconoscimento legale del genere, e le terapie ormonali o gli interventi di affermazione sono sogni lontani, quasi irraggiungibili. In questo scenario, l’attivismo Lgbtqia+ cerca di resistere con coraggio, ma si scontra ogni giorno con barriere burocratiche e culturali. Lambda, la principale organizzazione della comunità, lotta dal 2008 per un riconoscimento ufficiale che ancora le viene negato, nonostante una sentenza del 2017 ne abbia affermato il diritto. La società mozambicana non è apertamente ostile, ma impone una forma di invisibilità che pesa come un silenzio assordante. «Essere gay non è un crimine in Mozambico, ma non lo è nemmeno l’omofobia», denuncia un attivista di Maputo. Il governo resta in bilico, incapace di assumersi la responsabilità di proteggere davvero chi è più esposto; le istituzioni religiose, poi, rafforzano l’esclusione, dipingendo l’identità queer come incompatibile con la fede, lasciando molte persone sospese in un doloroso conflitto interiore. Anche sul piano politico, le recenti elezioni — seppur non rivolte direttamente alla comunità Lgbtqia+ — fanno temere derive omofobe usate come arma per raccogliere consenso, gettando ombre su un clima sociale già fragile. In questo contesto, l’autonomia economica diventa una chiave di liberazione: senza un lavoro, senza risorse, non c’è possibilità di autodeterminarsi. Il cambiamento è lento, ma inarrestabile.

Passiamo ora alla Namibia, dove nel maggio 2023 la Corte Suprema ha scritto una pagina piena di speranza, capovolgendo una sua precedente decisione e affermando che negare il riconoscimento dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all’estero è una violazione alla parità e alla dignità. Quello conosciuto come caso Digashu ha aperto uno spiraglio sul riconoscimento delle unioni fra persone dello stesso sesso ed è stato accolto con un cauto ma vibrante ottimismo. Questa battaglia non è stata solo legale o politica: è stata profondamente umana. Uno dei ricorrenti, nel 2023, con voce ferma e occhi segnati dall’esperienza, ha detto: «Ne è valsa la pena, sì. Ma c’è stato un prezzo? Sì». E in quelle parole c’è tutta la forza e la fatica di chi lotta per essere riconosciuto. A novembre 2023, la Corte è tornata al centro della scena con un altro momento decisivo: il caso di Friedel Dausab, attivista gay che ha avuto il coraggio di sfidare la criminalizzazione della sodomia. La sua attività ha diviso la nazione ma ha aperto un varco tra chi guarda avanti con speranza e chi resta ancorato alla paura. Ora il destino della proposta di legge è sospeso, nelle mani del procuratore generale, chiamato a confrontarsi con la Costituzione e con la coscienza di un Paese intero. Ma sarà il presidente a scrivere l’ultima parola: un sì o un no che riguarda un vuoto legislativo, ma anche il destino di un popolo che chiede ascolto. Il verdetto finale parlerà di più del solo diritto all’unione: sarà lo specchio del futuro che la Namibia vuole costruire, e del valore che davvero intende dare alla dignità, all’amore e all’umanità di tutte le sue persone.

In Tanzania, l’omosessualità è già punita con pene che arrivano fino a trent’anni di carcere — tra le più dure al mondo. Ma ciò che sta accadendo oggi è ancora più straziante: politici e leader religiosi stanno alimentando un’ondata d’odio, chiedendo leggi ancora più feroci, arrivando persino a evocare la pena di morte. La repressione ha assunto contorni cupi e spaventosi. In città come Arusha, esplodono manifestazioni cariche di odio e aggressioni contro persone Lgbtqia+, mentre il governo mette al bando libri che parlano di diversità e sessualità, nel tentativo disperato di spegnere ogni scintilla di comprensione. Nel marzo 2023, alcuni leader religiosi hanno addirittura organizzato un workshop pubblico per pianificare “strategie” contro la comunità queer, mentre influenti politici proponevano misure disumane come la castrazione degli uomini gay. Tra le pratiche più crudeli in uso c’è il test anale forzato: una vera e propria tortura, riconosciuta come tale dalla Carta Africana dei Diritti Umani. Questi test, del tutto privi di fondamento scientifico, lasciano segni profondi: corpi violati, menti traumatizzate, dignità calpestata. Gli attivisti raccontano un’escalation preoccupante, con nuovi casi segnalati quasi ogni settimana. È una ferita che lacera il tessuto stesso dell’umanità.

Il 2023 ha segnato un punto di non ritorno. Se un tempo le leggi anti-queer restavano spesso sulla carta, ora sono usate come armi di persecuzione. Ad aprile, il tribunale di Kilwa ha condannato Muharami Hassan Nayonga a trent’anni di carcere per “reati contro natura” — una sentenza che pesa come un verdetto sull’anima stessa del Paese. In risposta, attivisti e organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International, hanno levato la voce, denunciando una deriva che calpesta ogni principio di umanità. «Il crescente sentimento omofobico riflette una crisi profonda dei diritti umani», ha dichiarato un attivista tanzaniano, appellandosi alla presidente Samia Suluhu affinché scelga di stare dalla parte della giustizia e dell’uguaglianza. In una terra dove essere sé stessi può costare la libertà — o persino la vita — la lotta per i diritti è una sfida politica, una battaglia per la dignità, per la possibilità di amare e vivere senza paura, per il diritto sacro e insopprimibile di esistere.

Questi Paesi si trovano a un bivio drammatico, segnati da una crescente polarizzazione sui diritti delle persone Lgbtqia+. In Tanzania, la repressione si fa ogni giorno più brutale: leggi sempre più crudeli, pene inasprite e pratiche disumane come i test anali forzati stanno trasformando la vita delle persone queer in un incubo fatto di paura e silenzi imposti. In Mozambico, la depenalizzazione dell’omosessualità nel 2015 ha acceso una speranza, ma quella speranza fatica a tradursi in realtà: la discriminazione sociale è ancora radicata e chi appartiene alla comunità Lgbtqia+ continua a lottare per visibilità, dignità, lavoro, sicurezza. In Namibia, la tensione tra conservatorismo e diritti civili si gioca in tribunale e nei cuori delle persone. La storica sentenza che riconosce le unioni omosessuali contratte all’estero è una conquista, ma il pericolo di un passo indietro è reale, minacciato da retoriche d’odio e da politiche che possono cancellare ciò che è stato duramente guadagnato.

Queste tre storie ci parlano di un continente in movimento, ma anche profondamente spaccato. Da una parte il coraggio, la resilienza, la battaglia quotidiana per il diritto di esistere. Dall’altra, l’ombra della violenza istituzionalizzata, dell’intolleranza che si fa legge, del silenzio imposto. Il futuro resta incerto, ma non privo di speranza. Dipenderà dalla forza di chi alza la voce, dalla solidarietà internazionale, dall’impegno delle organizzazioni e delle persone che non smettono di credere in un mondo più giusto. Perché in fondo, dietro ogni legge, ogni protesta, ogni corte, ci sono vite vere che chiedono solo una cosa: poter essere sé stesse, libere e al sicuro.

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Articolo di Nicole Maria Rana

Nata in Puglia nel 2001, studente alla facoltà di Lettere e Filosofia all’Università La Sapienza di Roma. Appassionata di arte e cinema, le piace scoprire nuovi territori e viaggiare, fotografando ciò che la circonda. Crede sia importante far sentire la propria voce e lottare per ciò che si ha a cuore.

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