Tre settimane a Genova

Elena e Marco aspettavano il loro primo figlio e, come molti genitori alla prima esperienza, avevano vissuto l’inizio della gravidanza tra entusiasmo, stupore e piccoli timori. Ogni ecografia era una finestra nuova sul mistero che cresceva e ogni movimento del bambino una carezza invisibile.
Ma verso la fine del settimo mese, qualcosa cambiò. Durante l’ecografia di routine il ginecologo rimase in silenzio più del solito, muoveva la sonda lentamente, tornava indietro, misurava e rimisurava, poi si schiarì la voce.
«Il bambino è più piccolo di quanto ci aspettassimo, la crescita è rallentata. E c’è qualcosa che non mi convince nei reni, forse una dilatazione importante. Dovremo fare altri esami, sicuramente anche uno studio genetico».
In pochi secondi la gioia si congelò e i giorni seguenti furono un susseguirsi di visite, controlli, specialisti. Alcuni parlavano di insufficienza renale congenita, altri di un possibile difetto cromosomico ma nessuno dava certezze, solo ipotesi, percentuali, scenari da digerire con lo stomaco in gola.
«Forse non respirerà da solo».
«Forse dovrà essere operato subito dopo la nascita».
«Forse non vivrà abbastanza».
Elena smise di parlare del futuro, Marco iniziò a fare finta di essere forte. Passavano le giornate nella sala d’attesa del reparto di screening prenatale con altre coppie che sembravano ignare del dolore che portavano dentro. Il pancione era diventato un campo di battaglia, pieno d’amore ma anche attraversato dalla paura.

Elena e Marco furono indirizzati dal ginecologo del consultorio all’ospedale Gaslini di Genova, dove medici esperti e abituati a gestire situazioni complesse e delicate avrebbero fatto nascere il bimbo al più presto per garantirgli tempestivamente le cure migliori.
«Probabilmente nascerà prima del termine. E avrà bisogno di cure. Ma potrà farcela» disse loro il medico dell’accettazione.
Non era una certezza. Ma era abbastanza per continuare a sperare.
E così, in una bellissima giornata di metà gennaio, Leo venne alla luce con un parto cesareo d’urgenza e trasferito immediatamente in una incubatrice del Centro neonati a rischio, lasciando a Elena giusto il tempo di respirare l’odore di quella creatura che, nonostante tutto, aveva scelto di nascere con coraggio e caparbietà. Il mare calmo che circondava l’ospedale brillava di riflessi argentei e il destino le sembrò improvvisamente meno cattivo.
Quando non erano col naso incollato al vetro del reparto in adorazione del loro piccolo, che avevano affettuosamente soprannominato Gamberetto, Elena e Marco si concedevano del tempo per loro passeggiando mano nella mano lungo i viali dell’ospedale.

Il Gaslini, visto da fuori, sembrava una cittadella. Palazzine basse, giardini curati, passaggi interni che univano reparti con nomi silenziosamente solenni e al tempo stesso terribili: Centro neonati a rischio, Terapia intensiva pediatrica, Patologia neonatale, Oncologia. Ogni edificio sembrava custodire un mondo separato, ognuno con la propria lotta, le proprie speranze. Elena all’inizio non sapeva nemmeno orientarsi, poi un giorno un volontario le mostrò come arrivare al Centro neonati a rischio e le spiegò che lì, tra monitor e incubatrici, combattevano i bambini nati in anticipo come Leo. I corridoi profumavano di disinfettante e pazienza, i muri erano affrescati con disegni di fiori, stelle e animali, come se bastasse il colore a proteggerli e a infondere loro serenità.
Ogni giorno, alle 14, i genitori si riunivano fuori dalla stanza dei colloqui e, stretti nei loro cappotti, attendevano notizie con gli occhi che non cercavano contatto con quelli degli altri e solo chi ne aveva ricevute di buone si azzardava a sorridere.
Il medico che era stato incaricato di monitorare quotidianamente le condizioni di Leo e di riferirle ai suoi genitori era il dottor Rinaldi, un omone dagli occhi buoni che celava dietro degli occhiali dalle lenti spesse e dalla montatura di tartaruga un po’ démodé.
«Oggi Leo ha respirato per un’ora senza supporto. È un piccolo passo, ma significativo» disse il medico proprio il giorno in cui Leo festeggiava le due settimane di vita.
«E le infezioni?» domandò Marco.
«I valori sono stabili, per ora è tutto sotto controllo» replicò il medico.

Ma non tutti i giorni portavano buone notizie. Un pomeriggio, mentre Elena era in cucina nella casa di accoglienza che ospitava le mamme dei piccoli pazienti del Gaslini, sentì un urlo improvviso da una stanza, poi solo pianto. Era una madre che aveva perso il suo piccolo. Il giorno dopo, quella stanza era vuota ma nessuna chiese, nessuna spiegò, anche se tutte sapevano.
«La chiamiamo la legge non scritta del corridoio» le disse Laura, la mamma dei gemelli nati prematuri come Leo.
«Quale?» chiese Elena.
«Non si fanno domande, non si chiede mai: ‘E il tuo bambino?’ Se qualcuna vuole, parla, altrimenti si rispetta il suo silenzio».

Anche nei giorni di pioggia Elena, per raggiungere il Gaslini, doveva attraversare il torrente Sturla, che correva impetuoso non lontano dall’ospedale, con il vento che le strappava l’ombrello dalle mani e la pioggia che sembrava entrarle nelle ossa. Un giorno scivolò su una grata bagnata e, sebbene il dolore alla caviglia l’accompagnasse per giorni, non mancava mai all’appuntamento quotidiano della consegna del biberon che conteneva il poco latte che riusciva a tirarsi con il tiralatte affittato nella farmacia di via dei Mille.
«Lo beve tutto?» chiese una volta a un’infermiera.
«Ogni goccia. E si vede che è il latte della mamma, perché oggi ha preso venti grammi!»
In quel reparto, venti grammi erano un vero miracolo.

Quando finalmente poté stringere il suo bambino tra le braccia, dopo giorni interminabili passati nell’incubatrice, Elena iniziò a cantare, e lo fece con voce bassa, quasi sussurrata. Intorno a loro il reparto era silenzioso, interrotto solo dai suoni discreti dei monitor e dai passi leggeri del personale sanitario, ma in quel momento, per lei e per il suo bambino, il mondo si era ristretto a un tenero abbraccio musicale. Le canzoni erano quelle che aveva tenuto nel cuore durante i giorni d’attesa, quando non poteva ancora tenerlo in braccio, e ora finalmente le parole fluivano piene di tenerezza, intrecciando una storia di amore che nessuna incubatrice era riuscita a spezzare. Il piccolo sembrava rasserenarsi al suono di quella voce tanto familiare, smetteva di agitarsi e rallentava il respiro come se riconoscesse finalmente il luogo più sicuro al mondo e in quei gesti semplici, in quelle note tremanti, cresceva un legame profondo, nato tra le paure e nutrito da ogni sguardo, ogni carezza, ogni parola sussurrata, da un amore che non aveva avuto bisogno di parole per esistere e che ora aveva trovato finalmente la sua voce.

Un giorno, quando il cuore era troppo pieno e la mente troppo vuota, Elena si rifugiò nella cappella interna del Gaslini. Era maestosa, in cima a una ripida scalinata e il silenzio era diverso da quello dei reparti ma non ne aveva paura, anzi la rasserenava, anche se si accorse che non riusciva più a pregare.
«Posso?» chiese una voce maschile che si sedette dietro di lei, quasi l’avesse letta nel pensiero. «Non serve pregare con le parole, basta stare qui e abbandonarsi al silenzio o alle lacrime, che qualcuno Lassù non lascerà cadere nel vuoto». Era il dottor Rinaldi.
Elena annuì e le lacrime che avevano resistito per giorni ora le rigavano il viso, copiose e inarrestabili.

Il tempo passava a scatti, i giorni si allungavano come elastici e le notti erano fatte di sveglie per tirare il latte e controllare i messaggi di Marco che, nel fine settimana, la raggiungeva a Genova.
Poi, finalmente, arrivò il giorno del tanto sospirato annuncio.
«Leo è pronto per essere dimesso» disse sorridendo il dottor Rinaldi. «Naturalmente dovrà continuare le terapie, probabilmente sarà necessario anche un piccolo intervento, ma il peggio è passato. Questa è la lettera di dimissioni da dare al vostro pediatra, in bocca al lupo e un bacino al leone!».
Elena non riuscì a rispondere subito, guardò Marco e gli strinse la mano. Quando lasciarono Genova, con Leo avvolto in una morbida copertina azzurra, si fermarono ancora una volta a guardare il mare dal belvedere di Boccadasse.
«Torniamo, un giorno?» disse Elena.
«Torniamo» rispose Marco, «ci torniamo con Leo a mangiare il gelato e a guardare il mare, stavolta senza paura».
E mentre la macchina li riportava verso casa, con il piccolo che dormiva nel suo ovetto, Elena pensò a tutte le madri che aveva conosciuto, a quelle che erano riuscite a portare a casa i propri figli e a quelle che invece avevano portato via solo il proprio, atroce dolore. E sussurrò, dentro di sé, un grazie. A Genova, a quell’ospedale dove aveva sorriso e pianto, sperato e disperato, alla forza che non sapeva di avere.

Qualche mese dopo tornarono al Gaslini per uno dei controlli di routine. Leo stava meglio, era cresciuto, aveva messo su le sue prime pieghe morbide da neonato e riusciva già a tenere lo sguardo fisso su Elena quando lei gli parlava piano. Appena entrati nel reparto Elena chiese notizie del medico che ogni giorno, per tre settimane, li aveva accolti con calma e parole giuste, infondendo loro speranza e serenità anche quando le cose non sembravano andare per il verso giusto.
«Ci scusi, c’è il dottor Rinaldi oggi? Vorremmo salutarlo e fargli vedere quanto è cresciuto il nostro Gamberetto».
L’infermiera si bloccò per un attimo, poi abbassò lo sguardo.
«Non c’è più, signora. È mancato pochi giorni fa, improvvisamente».
Elena restò immobile. Sentì un vuoto dentro, simile a quello dei primi giorni, ma diverso.
«Non lo dimenticheremo mai», disse piano Marco.
«Nessuno di noi lo dimenticherà», replicò l’infermiera. «Era una di quelle persone che hanno fatto del loro lavoro una missione, un faro nella notte buia della disperazione».
Quella sera, tornando verso casa, Elena chiese a Marco di fermarsi ancora un momento sul lungomare di Nervi. Il cielo era limpido e il mare più calmo, proprio come il giorno in cui Leo si affacciò al mondo per la prima volta. Chiuse gli occhi, respirò profondamente quell’aria che sapeva di tempesta ormai passata e si convinse che gli angeli sono davvero bellissimi quando indossano un camice bianco e degli occhiali un po’ démodé.

***

Articolo di Serena Del Vecchio

Laureata in Giurisprudenza e specializzata nel sostegno didattico a studenti con disabilità della scuola secondaria di secondo grado, è stata a lungo docente di diritto ed economia e da più di dieci anni svolge con passione la professione di insegnante di sostegno. Sposata e madre di tre figli (tutti maschi!), ama cantare, leggere e andare al cinema, dividendosi fra Roma, dov’è nata, e la Valle d’Aosta, dove vive e lavora.

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