Tra la seconda metà del Settecento e la prima metà dell’Ottocento letterati, artisti, giovani della società aristocratica e colta europea usavano intraprendere un lungo viaggio nell’Europa continentale destinato a perfezionare il loro sapere. La durata non era definita e la meta privilegiata era l’Italia, dove natura, storia e arte aveva toccato le espressioni più alte. Il Grand Tour (il termine fu utilizzato per la prima volta nel 1697, nel volume di Lassel, An Italian Voyage) fu considerato come momento essenziale di un percorso formativo, espressione di un preciso status sociale. Sono noti tanti nomi di viaggiatori, innanzitutto inglesi, poiché portavano una tradizione pittorica legata al paesaggio già consolidata, come Turner; folto anche il numero di artisti tedeschi, tutti pervasi da sentimenti romantici, come Goethe o Reinhart, o i danesi che formarono una sorta di circolo artistico attorno al celebre scultore Thorvaldsen. L’Italia attirò anche i migliori talenti del Romanticismo russo, e i francesi, legati all’Accademia di Villa Medici a Roma.
Il Grand Tour è per convenzione una prerogativa maschile, un’esperienza che serviva a formare i giovani della nobiltà europea. Ma le donne? Furono soltanto mogli, figlie, accompagnatrici, per le quali il viaggio in Italia rappresentava l’unica possibile occasione per evadere dai confini domestici, a volte anche da un marito che altri avevano scelto per loro?
Di queste donne viaggiatrici ci hanno raccontato recentemente Attilio Brilli e Simonetta Negri in un libro uscito nel 2020, Le viaggiatrici del Grand Tour. Storie, amori, avventure. Meno conosciute, destino toccato inesorabilmente a tutto il contributo femminile nella storia, seppero lasciare invece memoria delle sollecitazioni ricevute dai loro viaggi in dipinti, disegni di paesaggi, ritratti di persone incontrate, diari ricchi di emozioni, suggerimenti, spesso anche consigli pratici. Certamente erano donne emancipate, colte, ricche, sorprendentemente moderne, donne pensanti, orgogliose della loro indipendenza, animate dall’amore per i viaggi, e da un desiderio di libertà e di conoscenza; con uno sguardo sensibilissimo e una maggiore capacità di ascolto seppero cogliere un volto dei paesi visitati e della gente incontrata meno noto, più umano, che i viaggiatori maschi avevano ignorato, e dar voce a emozioni che solo un’anima femminile poteva esprimere. Di fronte agli spettacoli della natura, ad esempio, Anna Jameson spesso dichiara di sentirsi mancare, quasi di svenire e romanticamente afferma che la bellezza risiede nel nostro stesso animo e siamo noi col nostro entusiasmo che diamo luce a ciò che vediamo. E le rovine antiche, che per viaggiatori come Goethe avevano una connotazione eroica, alle viaggiatrici comunicavano invece un senso di declino, di caducità. Esprimevano giudizi anche sui sistemi politici dei vari stati in cui viaggiavano, hanno raccontato i costumi e le condizioni sociali delle popolazioni, più attente al prossimo, a ogni forma di diversità, senza l’arroganza di chi crede unici i propri valori. Sempre proiettate verso le loro mete, procedevano determinate in un’epoca in cui viaggiare, e soprattutto per una donna, non era né comodo né sicuro.
Per alcune protagoniste il Grand Tour non fu soltanto un viaggio di piacere. È il caso di Élisabeth Vigée Le Brun (1755-1842), famosa ritrattista della regina Maria Antonietta, che arrivò in Italia esule, in fuga dalla rivoluzione, e trasformò l’esilio in un’occasione per visitare città e musei e affinare così la propria formazione. Al culmine della sua carriera, dopo essersi affermata come ritrattista di corte, la rivoluzione la costrinse a fuggire dalla Francia: nell’ottobre 1789 emigrò in Italia insieme alla sua giovane figlia Julie.

Élisabeth Vigée Le Brun
Così scrive nei suoi Souvenirs:
«Avevo deciso di lasciare la Francia. Per alcuni anni avevo amato il desiderio di andare a Roma. Il gran numero di ritratti che avevo ingaggiato per dipingere, tuttavia, mi aveva impedito di mettere in esecuzione il mio piano. Ma ora non potrei più dipingere; il mio spirito spezzato, contuso da tanti orrori, si chiudeva interamente alla mia arte. Inoltre, terribili calunnie si riversavano sui miei amici, i miei conoscenti e me stessa, anche se, lo sa il Cielo, non avevo mai ferito un’anima vivente… Avevo lasciato la Francia alle spalle, quella Francia che comunque era la terra della mia nascita… la vista delle montagne, tuttavia, mi ha distratto da tutti i miei tristi pensieri. Non avevo mai visto montagne alte prima; quelle dei Savoia sembravano toccare il cielo. La mia prima sensazione fu quella della paura, ma inconsciamente mi abituai allo spettacolo e finii ammirandolo… Non appena sono arrivata a Roma ho realizzato un mio ritratto per la galleria di Firenze. Mi sono dipinta con la tavolozza in mano davanti a una tela su cui stavo tracciando una figura della Regina con un pastello bianco

Élisabeth Vigée Le Brun
Dopo di ciò dipinsi Miss Pitt, che aveva sedici anni ed era molto carina. La rappresentavo come Hebe, su alcune nuvole, tenendo in mano un calice da cui stava per bere un’aquila.

Élisabeth Vigée Le Brun
Il piacere di vivere a Roma era l’unica cosa che mi consolava di aver lasciato il mio paese, la mia famiglia e tanti amici che amavo… Può sembrare difficile da credere, ma è vero che si potrebbe passare l’intera vita nei palazzi e nelle chiese. Nelle chiese si trovano grandi tesori di pittura e monumenti straordinari … A Roma, dove tutto è grandioso, le grandi dimore non hanno lampade miserabili davanti a loro, ma ogni palazzo è dotato di enormi candelabri … Le passeggiate all’interno delle mura sono una gioia, perché non si è mai stanchi di rivisitare il Colosseo, il Campidoglio, il Pantheon, la piazza di San Pietro con i suoi colonnati, il superbo obelisco e le sue incantevoli fontane, attraverso le quali i raggi del sole tirano spesso bellissimi arcobaleni. La piazza è meravigliosamente impressionante al tramonto e al chiaro di luna … Non riesco a descrivere l’impressione che ho ricevuto entrando a Napoli. Quel sole cocente, quel tratto di mare, quelle isole viste in lontananza, quel Vesuvio con una grande colonna di fumo che sale da esso, e la stessa popolazione così animata e così rumorosa, che differiscono così tanto da quella romana che si potrebbe supporre che fossero a migliaia di chilometri di distanza… Le escursioni che ho fatto a Napoli non mi hanno impedito di compiere una grande quantità di lavoro. Ho persino intrapreso così tanti ritratti che il mio primo soggiorno in quella città è durato fino a sei mesi. Ero arrivata con l’intenzione di passare solo sei settimane. L’ambasciatore francese, il barone di Talleyrand, venne una mattina a informarmi che la regina di Napoli voleva che facessi i ritratti delle sue due figlie più grandi, e cominciai subito con loro…

Élisabeth Vigée Le Brun

Élisabeth Vigée Le Brun
La regina di Napoli, senza essere bella come sua sorella minore, la regina di Francia, mi ha ricordato fortemente di lei. La sua faccia era consumata, ma si giudicava prontamente che era stata bella; le sue mani e le sue braccia erano particolarmente perfette per forma e colore. Questa principessa, di cui tanto male è stato scritto e parlato, aveva una natura affettuosa e semplici modi a casa. La sua magnanimità era veramente regale.
Uno dei miei più grandi piaceri è stato quello di fare passeggiate sull’incantevole pendio di Posillipo. Di sera camminavo in riva al mare; Spesso prendevo mia figlia, e rimanevamo sedute lì insieme fino al sorgere della luna, godendomi l’aria salubre e la splendida vista».
Vigée Le Brun rimase lontana dalla Francia per dodici anni, durante i quali cercò commissioni in tutta Europa, lavorando in Italia, Austria, Russia e Germania, godendo ovunque della protezione di illustri membri dell’aristocrazia, e in ultimo soggiornò in Inghilterra. Favorita dal suo rapporto con Maria Antonietta, fu accolta calorosamente nelle corti reali, dove ricevette numerose commissioni. In quanto ritrattista, in Italia si interessò principalmente agli autoritratti dei pittori visti agli Uffizi e ai ritratti della veneziana Rosalba Carriera. Sempre originale nei suoi giudizi, osò definire “scandalosa” la famosa “Santa Teresa in estasi” del Bernini. Durante questo periodo, le sue opere si avvicinarono molto al Neoclassicismo, baronesse, principesse e imperatrici erano raffigurate attraverso i loro equivalenti mitologici.

Le Brun tornò a vivere a Parigi nel 1802, ma continuò a recarsi nelle corti di tutta Europa, in particolare a Londra e in Svizzera, e godette di un successo continuo.

Élisabeth Vigée-Lebrun
Tra il 1835 e il 1837 pubblicò i suoi Souvenirs de Mme Louise-Élisabeth Vigée-Lebrun, cronache della vita dell’élite europea e della società artistica del tempo, dove tra l’altro racconta di aver eseguito circa duecento paesaggi durante i suoi viaggi in Gran Bretagna e in Svizzera. Oggi si conoscono poche di queste vedute svizzere, che rappresentano per lo più il massiccio del Monte Bianco, e diversi laghi svizzeri.


Questa Veduta alpina è uno dei più grandi dei suoi paesaggi superstiti, sicuramente eseguita sul posto, e riflette la grande padronanza dell’autrice nel rappresentare ampi panorami. I colori dominanti sono il blu e il verde con accenni di marrone per indicare le foreste. Tocchi di rosa e bianco descrivono il cielo e un fiume lontano, esaltando la sensazione di serenità e calma che pervade questo paesaggio.
Tra le artiste viaggiatrici più note del tempo, donna emancipata e moderna, è anche la svizzera Angelica Kauffmann (1741-1807). In un ambiente artistico dominato dagli uomini Angelica fu protagonista, anche grazie al sostegno del padre, anche lui pittore, che, riconosciute le capacità della figlia e resosi conto dell’impossibilità di farla studiare in un’accademia, ne promosse la formazione, accompagnandola nei viaggi, soprattutto in Italia, perché vedesse le opere dei grandi maestri. Angelica tra il 1754 e il 1757 compì il suo primo viaggio di formazione nell’Italia settentrionale, con l’obiettivo di studiare le opere dei grandi maestri italiani.

Nel 1760/1761 tornò a Milano, fu a Parma, a Modena, a Bologna, dove poté studiare le opere dei grandi pittori della scuola bolognese; nel 1762 era a Firenze, dove le fu consentito di lavorare alla copia dei capolavori conservati agli Uffizi in una stanza riservata, e ottenne il diploma presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Qualche anno dopo visitò Roma e Napoli, dove poté studiare a Capodimonte le collezioni dei Borbone, ereditate dalla famiglia Farnese. Frequentò i viaggiatori inglesi del Grand Tour e ne dipinse i ritratti; quello del famoso attore shakespeariano D. Garrick, che ritrae l’attore mentre si volta sulla sedia posta con la spalliera verso l’osservatore, fu inviato dalla pittrice a Londra, dove suscitò grande ammirazione.

Angelica Kauffmann
Durante un soggiorno a Venezia conobbe e diventò amica di Lady Wentworth, moglie dell’ambasciatore inglese John Murray. Su loro invito, nel 1766 intraprese un viaggio verso Londra passando per Parigi. A Londra, già conosciuta di fama per il ritratto di Garrick, strinse amicizia con Mary Moser, unica donna tra i trentasei artisti ad aver fondato la Royal Academy of Arts. Poco più che ventenne aprì il suo studio a Londra, che diventò luogo di ritrovo dell’élite del tempo, e diventò famosa come ritrattista: tutta l’alta società dell’epoca voleva farsi ritrarre da lei, ricchi esponenti della società, nobili, banchieri, e membri delle maggiori corti italiane e straniere. Del 1767 è il ritratto di Joshua Reynolds, dove il pittore è rappresentato seduto a un tavolo, tra libri e un busto di Michelangelo.

La sua bravura e il suo successo non le risparmiarono però invidie e gelosie e ben presto fu oggetto di maldicenze. Nel 1781 sposò il pittore veneziano Antonio Zucchi, amico del padre da lungo tempo, che da quel momento si dedicò alla gestione dell’attività artistica della moglie.
Lasciata l’Inghilterra, la coppia tornò a Roma, dove si stabilì in una casa in via Sistina presso Trinità dei Monti, trascorrendo a Napoli i mesi necessari alla sua ristrutturazione. Nella città partenopea, nonostante l’insistenza della regina, la Kauffmann non si trattenne oltre, e, per mantenere la sua indipendenza rifiutò l’invito a divenire pittrice di corte: il Ritratto della famiglia reale fu infatti terminato a Roma.

Il suo studio romano fu frequentato dai maggiori pittori neoclassici, Winckelmann, Mengs, Batoni, Hamilton e Piranesi, che strinsero con la pittrice rapporti di amicizia e di stima. Due anni più tardi, fu ammessa all’Accademia di san Luca. Winckelmann in una lettera che mandò a un amico così la descrive: «La giovinetta di cui parlo è nata a Coira, ma fu condotta per tempo in Italia da suo padre, che è pure pittore; parla assai bene l’italiano e il tedesco … Parla inoltre correntemente il francese e l’inglese … Si può chiamare bella e gareggia nel canto con le nostre migliori virtuose. Il suo nome è Angelica Kauffmann».

Angelica Kauffmann
Accanto alla produzione ritrattistica, la Kauffmann sperimentava anche la pittura di storia, scelta inusuale per una pittrice.


Roma era in quel tempo sede di una vera e propria colonia di stranieri, soprattutto britannici, che desideravano farsi ritrarre in modo da poter ricordare i bei momenti trascorsi nella città eterna.

Thomas Jenkin, Angelica Kauffmann
Nella sua casa, situata sopra la scalinata di piazza di Spagna, iniziarono a riunirsi tutti gli artisti e i letterati del tempo, tra i quali Goethe, che così commentava: «Guardar quadri con lei è assai piacevole; tanto educato è il suo occhio ed estese le sue cognizioni di tecnica pittorica».
Ancora Goethe nel Viaggio in Italia descrive così Angelica: «Non è felice, come dovrebbe essere con un talento così grande e una ricchezza che cresce ogni giorno. È stanca di dipingere per denaro, tuttavia il suo anziano marito pensa che non sia affatto male incassare tanti soldi in cambio di lavori così facili, come spesso succede. A lei invece piacerebbe adoperare il suo sguardo e la sua mano per la propria soddisfazione con più tempo, cura e studio, cosa che avrebbe la possibilità di fare. Non hanno figli, non riescono a spendere le loro rendite, e, in più, con poca fatica lei riesce a guadagnare ogni giorno abbastanza. … Ha un talento incredibile, davvero immenso per una donna».
La fama di Angelica come ritrattista crebbe sempre di più tanto che i giovani artisti la consideravano come una loro maestra e protettrice. Morì a Roma e fu Antonio Canova ad allestire la sua sepoltura in Sant’Andrea delle Fratte.
In copertina: foto dal film Camera con vista.
***
Articolo di Livia Capasso

Laureata in Lettere moderne a indirizzo storico-artistico, ha insegnato Storia dell’arte nei licei fino al pensionamento. Accostatasi a tematiche femministe, è tra le fondatrici dell’associazione Toponomastica femminile.
