Doppio anniversario per questa meravigliosa narratrice neozelandese: la ricordiamo il 14 ottobre per la nascita a Wellington nel 1888, ma pure nel centenario della prematura morte, avvenuta in Francia, a Fontainebleau, il 9 gennaio 1923. Dolorosa quanto mai la sua scomparsa, non solo perché il mondo delle lettere si trovava d’un tratto privo di una creatura geniale, di una stella luminosa, di una “figlia del sole” (come ambiva a essere) che, in altre circostanze, forse avrebbe avuto una esistenza meno tormentata dalla malattia, ma anche perché la scrittrice si fece coinvolgere ingenuamente in una spirale di cure inadeguate. Era infatti in Europa speranzosa di guarire dalla tubercolosi che la affliggeva da tempo, ma né in Italia né in Francia aveva trovato una tregua dai malanni. In una clinica più o meno rinomata presso Parigi di fatto fu lasciata morire per una emorragia polmonare senza alcuna assistenza sanitaria a soli 34 anni.

Cugina della nota scrittrice Elizabeth von Arnim (1866-1941), trascorse la giovinezza negli agi di una famiglia benestante, circondata dall’affetto della nonna, dei genitori, della zia, dell’amato fratello che morirà nella Grande guerra, delle sorelle; frequentarono insieme il college per ragazze della capitale, poi entrarono alla Fitzherbert Terrace School dove conobbero Maata Mahupuku (1890-1952), una ricca proprietaria terriera di etnia maori che divenne molto amica di Katherine, una sorta di musa, e probabilmente qualcosa di più. Fra 1898 e 1899, ancora bambina, pubblicò i primi racconti sulla rivista della scuola, firmati eliminando il secondo cognome: Beauchamp, di chiara origine francese, e sostituendo a Kathleen il nome Katherine. Per consolidare il legame culturale con la Gran Bretagna, nel 1902 (o 1903 secondo altre fonti) si recò a Londra per frequentare il prestigioso Queen’s College e studiare assiduamente il violoncello, pratica in cui pareva ben dotata e divenne assai abile. Negli anni successivi viaggiò in Europa, soprattutto fra Belgio e Germania. Rientrò in patria per circa due anni, dal 1906 al 1908, dove rinsaldò la bella amicizia con Ida Baker, a cui rimase legata tutta la vita. In questo biennio si immerse nel cuore selvaggio della sua terra, nella regione detta Urewera, da cui trasse in seguito notevoli ispirazioni, come racconta nei suoi taccuini. Un viaggio faticoso e avventuroso, in località impervie ma affascinanti, abitate dai discendenti del popolo Maori; sorgenti, cascate, vulcani, arcobaleni: è l’Eden che la emoziona e l’appaga pienamente. Ma in Nuova Zelanda non tornerà più. Ancora una volta attratta dall’Europa, sbarcò nel Vecchio Continente e iniziò a scrivere brevi racconti (meglio definiti come novelle). Qui ebbe una nuova relazione femminile, un aborto e un rapido matrimonio di facciata, rimasto non consumato, con il maestro di canto George Bowden, si trasferì poi in Baviera e presto riprese la sua esistenza errabonda, senza requie; da quel soggiorno nacque la raccolta In a German Pension, che sarà pubblicata nel 1911, ma verrà giudicata “immatura” dall’autrice. La madre a questo punto, scontenta delle sue intemperanze e delle sue scelte, la diseredò.

Beatrice Hastings
Fu tuttavia un periodo fruttuoso per la sua formazione perché si avvicinò ai simbolisti francesi, a Wilde, a Keats e ai classici russi, rimanendo folgorata da Čechov, e a Londra fece amicizia con il gruppo di intellettuali riuniti intorno a Virginia Woolf (il famoso circolo di Bloomsbury). Ancora incerta sul nome da utilizzare per firmare le sue opere (Katie, Kass, Tig, Wig, Mouse…), grazie alla pubblicazione delle novelle composte in Germania, si avvicinò alla rivista letteraria Rhythm dove conobbe il critico e giornalista John Middleton Murry. Finita la Grande guerra ebbe una nuova relazione femminile, questa volta con la nota giornalista Beatrice Hastings (1879-1943), immortalata da Modigliani in bellissimi ritratti (Vv n.51). Dopo un felice e produttivo soggiorno a Villa Pauline, in Costa Azzurra, nel 1918 Katherine si sposò con Murry, diventato la sua àncora di salvezza, e pubblicò Prelude, con la casa editrice Hogarth Press, fondata da Leonard e Virginia Woolf.

Era stato un momento assai creativo, durante il quale compose alcune delle sue opere migliori, in cui emerge il suo amore per la vita, profondamente connessa com’era con la bellezza e il dolore del mondo, con la disperazione e la speranza. Il dolore e l’esilio furono, d’altra parte, la sua condizione esistenziale, il marito così ne scrisse nel lungo ritratto che le ha dedicato nel libro Katherine Mansfield and Other Literary Portraits: «Viveva in esilio dal paese natale e questo è un fatto materiale. Ricreò il paese natale e questo è un fatto spirituale. Il paese che lei ha ricreato non è però la Nuova Zelanda, ma un paese universale, la terra dell’innocenza, quella cui tutti gli spiriti aspirano. Cercava una casa: ma quello che non trovò in Nuova Zelanda non riuscì a trovarlo in nessun altro paese al mondo o forse lo ha trovato in tutti. Per lei casa significava la sicurezza dell’amore di “essere in una qualche via per la pace, colma di felicità”».

Katherine Mansfield (olio, 1918)
Si stava intanto manifestando la malattia fatale, e dopo la diagnosi infausta passò un periodo in Cornovaglia, ospite della pittrice Anne Estelle Rice, che le fece un intenso ritratto, con un vivace abito rosso, quindi iniziò a trascorrere i periodi invernali in località dal clima mite, sulla costa francese e in Riviera, ma non trovava giovamento. In compenso lavorava alacremente nell’ambito giornalistico, grazie a vari incarichi procurati dal marito, divenuto nel frattempo collaboratore dell’importante rivista culturale Athenaeum. Scriveva molto e nacquero in questa fase, fra le tante, le novelle Felicità, Istantanee, La giornata di Reginald Peacock, Veleno, Je Ne Parle Pas Français. Le due raccolte pubblicate nel 1920 (Bliss) e nel ’22 (The Garden Party) ne rivelarono le doti e cominciarono a farla conoscere a una più ampia cerchia, inserendola a pieno titolo fra gli elementi di spicco della corrente detta “Modernismo”.

Di nuovo in Costa Azzurra e poi in Svizzera, dove sperava di avere pace per la sua fragile condizione, aggravata da dolori articolari; quindi il ricovero presso Parigi, in una cameretta piccola e fredda, per cui cercava un po’ di ristoro nella stalla dove almeno alitavano tiepido vapore le mucche. Carta, cenere, legna sono le ultime parole che scrive sul diario: il ciclo della carta che si compie, in un cerchio perfetto per chi non può far altro che usare la penna e comporre. Al funerale erano presenti solo l’amica Ida, il marito, le sorelle e Orage, il primo editore. L’epitaffio sulla sua tomba è una citazione dall’Enrico IV di Shakespeare: «Ma io vi dico, mio sciocco signore, che da questa ortica, da questo rischio, cogliamo il fiore della sicurezza».

La sua breve esistenza terrena si era conclusa, lasciando tuttavia una grande mole di inediti che poi il marito si curò di pubblicare. Ulteriori scritti sono comparsi in anni recenti dagli archivi del King’s College di Londra e inseriti in edizioni complessive della sua opera omnia (in Italia tradotta nel 2013), mentre si devono a Claire Tomalin, nel 1987, e a Kathleen Jones, nel 2010, due importanti biografie. Mansfield è una maestra assoluta di un preciso genere letterario: la novella, termine in uso almeno dai tempi del Boccaccio, ma che si continua a utilizzare con la produzione di Verga e Pirandello. La novella, rispetto al racconto, è più breve, ha una trama più lineare e meno personaggi, è incentrata su un’unica vicenda e solitamente ha pochi salti spazio-temporali, rimanendo ambientata in un luogo preciso e ristretto, persino una sola stanza o un giardino, in un limitato arco di tempo. Il fatto che la scrittrice abbia tanto amato Čechov (1860-1904) non stupisce, visto che la sua composizione di novelle è così rilevante e ampia da affiancare degnamente le opere teatrali, altrettanto immortali. Certo però che i loro mondi e la loro prospettiva sono assai diversi: uomo, medico, russo, vissuto in pieno XIX secolo lui, donna, neozeladese ma trapiantata nell’Europa occidentale, a cavallo del Novecento lei. Se un tratto in comune hanno, tuttavia, è la sensibilità, la capacità di cogliere un minimo dettaglio, quel dire e non dire in trame in cui sembra non accada quasi niente, quell’alludere a qualcosa che è già avvenuto o avviene “dietro le quinte” (il rumore dei ciliegi abbattuti che segna la fine di una famiglia e di un’epoca…). Hanno il dono entrambi di evocare e di far riflettere, senza lezioni moralistiche e senza parole superflue, mettendo spesso al centro taciuti conflitti familiari e differenze sociali. E tutt’e due ― per un curioso caso del destino ― morirono di tisi, ancora giovani; del resto era una malattia molto comune e la classica fine di tante eroine della letteratura romantica: da Mimì a Violetta Valery. Ma di cosa parlano queste storie? Troviamo una cantante in trepidante attesa di scrittura, oppure una giovane donna che ― dopo una sera a teatro ― immagina di essere una fanciulla perduta per amore, o Miss Brill che si vede come la protagonista di uno spettacolo mentre siede su una panchina, o ancora colei che si immedesima con un canarino in gabbia, forse metafora della condizione dell’autrice, decisa a dispiegare il suo canto, nonostante la salute precaria paragonabile a una prigione. Donne di varia età e condizione sociale in cui spesso traspare la voce della scrittrice che si lamentava: «Non ho detto neppure la minima parte di ciò che volevo dire, ho potuto soltanto accennarlo. È difficile da spiegare. A voi non dà mai una simile sensazione il mondo?». Ascoltava e guardava, entrava nelle vite altrui e le faceva proprie, con una scrittura puntuale, perfetta. In The Garden Party tutto sembra invitare all’ottimismo: un bel giardino, una festa per persone ricche, ospiti eleganti, ma una notizia tragica guasta l’atmosfera: non siamo in un racconto a lieto fine, qui la dura realtà irrompe senza scampo, lavorando sulla psicologia dei personaggi, specie Lara, e spezzando l’incanto. In Una tazza di tè emergono molti sentimenti e tematiche, fra cui la gelosia, la differenza di classe, il desiderio di possesso, la mutevolezza: quando la ricca e viziata Rosemary vuole fare la generosa, viene poi vinta da tutt’altro atteggiamento e cambia rapidamente idea, temendo la rivalità della graziosa ragazza povera che le ha solo chiesto una tazza di tè. La cameriera della padrona mette a nudo i pensieri che si affollano nella mente di una cameriera a servizio di una nobile, nel momento in cui, dopo aver bussato alla porta della sua stanza, attende di entrare. In un attimo una vita intera scorre, come il filo di un gomitolo che si dipana. Infine la donna si risveglia e torna alla realtà, rimproverandosi il fastidioso vizio di “pensare”. Un gruppetto di persone, affrontando Il viaggio per Bruges, prima in treno verso Dover e poi in nave verso la costa, è costretto alla reciproca vicinanza, in una sorta di balletto fra attrazione e rifiuto.

Si potrebbe continuare a lungo nella disamina dei testi, in questo raffinato gioco delle parti che faceva invidia alla stessa Woolf, ma non possiamo non citare almeno un altro gioiello fra i gioielli: La casa delle bambole, breve novella di apertura della raccolta postuma The Dove’s Nest and Other Stories. Anche qui una trama esile e un ambiente circoscritto: tre sorelline benestanti invitano le compagne di classe a giocare con la loro nuova casa delle bambole, deliziosamente realizzata e rifinita in ogni dettaglio; contiene persino una lampada. Le uniche escluse sono Lil ed Else, modeste figlie della lavandaia, che tuttavia possono avvicinarsi a quella meraviglia, prima di essere bruscamente scacciate. Il finale è crudele e, pur senza parole, la differenza sociale diviene palese: è bastato un semplice giocattolo a creare una barriera insormontabile e a rivelare il cinismo delle persone ricche. In questi tratti si rivela la genialità, la maestria di Katherine Mansfield. Oltre alle celebri short stories, sono stati tradotti e pubblicati anche in Italia il diario, l’epistolario, il quaderno d’appunti, i poemetti di Mansfield e vari esponenti della critica letteraria ne hanno scritto, cominciando da Grazia Livi, Nadia Fusini e Pietro Citati; Sara de Simone ha approfondito il legame d’amicizia con Virginia Woolf, nel volume Nessuna come lei; Mario Pincherle, studioso appassionato di misteri, invece ha indagato sulla sua fine nell’opera Una strana morte. Nel 1973 la Bbc realizzò un film su di lei, con Vanessa Redgrave, nel 2011 le è stato dedicato Bliss, un biografico per la tv, sceneggiato e diretto da Fiona Samuel, mentre un recente corto dal titolo The Wind Blows’ si può vedere su You Tube. Nel corso di questo anno si sono susseguiti ricordi e celebrazioni in molti luoghi che le sono stati cari. Dal momento che la scrittrice passò l’inverno 1919-20 nella Riviera ligure, a Ospedaletti è stata organizzata una conferenza il 3 giugno; a Napoli, presso il Ridotto del teatro Mercadante il regista Luca Bargagna ha messo in scena Pictures, adattamento tratto dalle novelle curato da Silvia Ajelli, che ne è stata anche interprete. E ora non resta che immergersi nella lettura, lasciandosi conquistare dalla “figlia del sole”.
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Articolo di Laura Candiani

Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume Le Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.
