C’eravamo lasciate/i, nella recensione di Limes di febbraio, parlando di un certo Robert Ardrey e della sua descrizione del popolo italiano. In quell’occasione, nonostante alcuni spunti del Direttore sull’Italia, ci eravamo soffermate/i sul conflitto in Ucraina e su quello che sembra vietato chiamare genocidio in Palestina, analizzati dal punto di vista dell’Italia nella Guerra Grande. In questo volume si focalizza lo sguardo, a completamento di quel primo numero, sul nostro Paese con analisi e proposte per tutti i palati e tutti i gusti.
Cominciamo dall’editoriale, Vedere in prosa, espressione dai richiami vagamente proustiani con cui ci si vuol riferire a un atteggiamento indispensabile in tempo di guerra: osservare “dalla giusta distanza”, mantenendo distacco e sobrietà, per non farsi manipolare dalla propaganda nazionale o atlantista dei conflitti. Questo se vogliamo capire davvero che cosa sta succedendo e non cadere nella trappola di prendere per vero quanto ci viene raccontato. E in effetti un po’ tutti gli articoli della rivista di marzo ci forniscono informazioni e dati che difficilmente sono riportati dai media mainstream, mai come in questi tempi “allineati” al potere.
Il Direttore riparte da Aldrey e dal suo ragionar per stereotipi (abitudine più diffusa di quanto si creda), secondo cui l’umanità si dividerebbe in due tipi ideali: «italiani, stadio supremo delle collettività ad antagonismo interno, nucleo produttore di geni; e non italiani, nazioni che poggiano sulla pace domestica per esprimere potenza verso l’esterno». Il Belpaese, cantato da Dante e Petrarca e oggetto di un «libro di lettura per il popolo» del 1876 a cura dell’Abate Antonio Stoppani, fu immortalato, insieme al suo ritratto, sull’etichetta del cacio fresco dal signor Galbani nel 1906, con l’intento di contrastare la fama dei formaggi francesi. Un’operazione che oggi si chiamerebbe di tutela del Made in Italy. Tuttavia il pericolo odierno è che la nostra Nazione nell’epoca in cui i suoi due “Grandi Protettori”, Stati Uniti per quanto riguarda la sicurezza e Germania, per quanto riguarda la garanzia del nostro debito pubblico, navigano in acque tumultuose, si trasformi in “oggetto”.

A causa di una deculturazione diffusa, posta in atto da almeno 30 anni, l’Italia, ricca di storia come pochi soggetti al mondo, non ha più memoria del suo passato. L’abbandono dello studio della Geografia e un insegnamento inadeguato, anche a livello universitario, della storia hanno fatto dimenticare che il nostro passato è un alternarsi di vittorie e sconfitte, e non necessariamente un declino costante, come si vuole raccontare. Ovunque Roma è ricordata come Impero, tranne che dal popolo italiano, rammenta Caracciolo, secondo cui il venir meno del fascino degli studi classici umanistici ha prodotto danni gravissimi. A tale proposito mi piace riportare un passaggio del ragionamento dello studioso di geopolitica, che ho interpretato come il dovuto e giusto riconoscimento ai /alle docenti incontrate lungo il mio cammino di liceale: erano ben diversi dalla maggioranza di quelli/e incrociati nella mia carriera di docente, soprattutto nell’ultimo decennio quando la scuola si è aperta a persone riciclate come insegnanti, improvvisati docenti a più di 50 anni: «L’alta qualità media degli studi classici negli omonimi licei era dovuta a insegnanti che in molti altri paesi sarebbero stati ammessi al rango universitario, ma che qui respiravano l’aria di quella storia come realtà vivente». Oggi, prosegue Caracciolo, qualsiasi testo greco o latino è a portata di traduttore automatico e il diritto allo studio dei e delle giovani studenti pare esaurirsi nella pretesa di non essere stressati con argomenti difficili, per di più considerati inutili dall’idea che con la cultura non si mangia. Dobbiamo invece ripartire da qui, dalla riscoperta delle nostre radici per sostenere questa difficile policrisi e puntare a diventare soggetto e non oggetto in questa complessa fase storica e geopolitica.

Il volume di marzo prova quindi, in tutti i suoi approfondimenti, ad affrontare temi delicati e dirimenti riportando, accanto a una disamina seria dei problemi che riguardano l’Italia, anche una pars construens, con una serie di proposte. Un testo che la classe al potere e il ceto politico avrebbero l’obbligo di leggere.
Tra i tanti saggi della prima parte, Come cambia il nostro fattore umano, è molto divertente Tina o Tara? di Romano Federico Zumbini che gioca sull’acronimo T.I.N.A. di thatcheriana memoria, il famoso There is no alternative allo status quo. Sui temi del vincolo esterno e del debito pubblico, a me particolarmente cari, è come sempre interessante il contributo di Giuseppe De Ruvo, Il vincolo esterno (non) è un destino. Nella «transizione egemonica» l’Italia è sola, ma questa solitudine potrebbe essere per noi un’opportunità. Citando Shakespeare, Machiavelli, Il partigiano Johnny, De Gasperi, si suggerisce una soluzione interessante nel merito, (ma non nel metodo), che quasi quasi sottoscriveremmo e voteremmo alle elezioni. Se ne consiglia vivamente la lettura, soprattutto nella parte in cui con coraggio si critica la deleteria costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, voluta dai Governi Berlusconi e Monti. L’euro è la moneta del nostro declino. Possiamo uscirne? è un approfondimento che andrebbe letto nelle classi, per suscitare dibattito e che ha un triplice scopo: spiegare i difetti strutturali dell’euro e le sue conseguenze sul nostro paese; comprendere il ruolo che ebbe la moneta unica nella crisi istituzionale italiana nel momento della sua introduzione; esaminare possibili alternative. Portare alcune delle argomentazioni contenute all’interno dell’articolo nel dibattito pubblico potrebbe essere utile, ma abbiamo classi politiche dormienti e giornalisti impauriti anche alla sola idea di cimentarsi nella critica del totem dell’euro.
Arriviamo alla deculturazione di cui parla il Direttore nel suo editoriale.
Con La crisi delle Università è il suicidio dello Stato la giovane studiosa Agnese Rossi, partendo dalle preziose riflessioni fatte da Bourdieu nel suo Homo academicus, riporta alcuni dati che meritano di essere conosciuti. «In Italia gli iscritti a un corso universitario sono oggi circa 1 milione e 949 mila, oltre il 10% in più rispetto al 2011. La crescita va soprattutto a vantaggio delle università telematiche, i cui studenti si sono moltiplicati nel giro di un decennio […] Benché in termini assoluti la popolazione tra i 25 e i 34 anni in possesso di un titolo di istruzione terziaria sia in aumento […] l’Italia rimane il penultimo paese dell’Unione Europea per numero di laureati, seguito solo dalla Romania e ampiamente scavalcato da paesi come Francia (50,3%), Spagna (48,7%), Germania (35,9%). A spiegare questa congiuntura concorre uno dei tassi più alti di dispersione accademica fra i paesi Ocse: al termine della durata normale del corso di studi di riferimento, in Italia quasi un iscritto su tre (30,8%) ha abbandonato l’università […]. Basso numero di laureati, fuga all’estero per lavorare o studiare, alti tassi di dispersione accademica, disparità territoriale e sfiducia giovanile nei confronti dell’università sono fenomeni ormai cronici, imputabili a una combinazione di anni di politiche poco lungimiranti e di fattori strutturali. O meglio, al maldestro innesto delle prime sui secondi…»
Qual è il ruolo delle Università in una società? Lo scoprirete nel prosieguo del saggio di Rossi, un’utile guida per una Ministra o un Ministro che osasse sganciarsi dalla politica miope dei governi di diverso colore degli ultimi 30 anni. Lettura vivamente raccomandata.
Le varie cause della crisi demografica che attanaglia l’Italia sono scandagliate nel bel saggio, ricco di grafici, di Massimiliano Valerii, Direttore generale del Censis, Vivere senza domani. A noi qui piace ricordare la proposta, seria e fondata su conoscenze e dati: puntare su donne, giovani e migranti. Sulla situazione delle donne nel mercato del lavoro, tema a noi di vitaminevaganti particolarmente caro, riportiamo alcune percentuali: il tasso di attività femminile in Italia è fermo al 56,4%, lontanissimo dall’81,3% delle svedesi, dal 75,4% delle tedesche, dal 70,7% delle francesi. Siamo all’ultimo posto in Europa, preceduti anche da Romania e Grecia. Al Sud le donne che lavorano sono solo un terzo del totale (il 34,4% nel 2022), meno di quanto mediamente il paese intero registrava cinquant’anni fa. Inoltre il 31,8% delle italiane che lavorano ha un impiego part—time, con retribuzioni ridotte che finiranno per influire sulla situazione della loro vecchiaia.


A Luca di Sciullo, Presidente del Centro studi e Ricerca Idos, è affidato il tema delle migrazioni, proposto finalmente con un quadro realistico, completamente differente dalla propaganda a caccia dei voti della società del rancore e della paura. Un testo che andrebbe letto e approfondito in tutte le scuole questo Manifesto della immigrazione possibile, che fa intravedere nel riconoscimento come persona dello/a straniera e nella cittadinanza riconosciuta e non concessa ai/alle migranti una via per superare la crisi demografica italiana. Ma non solo. Le riflessioni contenute in questo articolo sono fondamentali anche perché proposte da una persona competente, che da sempre si occupa a livello scientifico di questi temi e che ho avuto il piacere di incontrare a Palermo, durante un bellissimo Convegno in cui per la prima volta ho sentito parlare di “cittadinizzazione” (https://vitaminevaganti.com/2022/01/15/la-conferenza-finale-del-progetto-migration-mainstreaming-seconda-giornata/), termine che tutti/e gli italiani/e meriterebbero di conoscere e che dovrebbe entrare a pieno titolo nei Manuali scolastici.
«In Italia ci sono 10 milioni e 200 mila individui tra i 18 e i 34 anni, un valore diminuito di oltre il 23% negli ultimi vent’anni. Si tratta di 100 giovani ogni 187 anziani. Inoltre, incidono in modo esiguo sul Belpaese: 1,7 milioni di coloro che hanno tra i 15 e i 34 anni non studia né lavora. Per descriverli, i media nazionali usano aggettivi come “ansiosi”, “fragili”, “isolati”, “svogliati”, inglesismi come “millennials” e “Neet”: Not in Education, Employment or Training, oppure frasi che suonano più o meno così: “se ne vanno all’estero”, “nessuno fa i lavori umili di una volta”, “vivono su Internet” […] Limes constata come in Italia non sia ancora possibile pensare che dove non arriva la famiglia possa arrivare la scuola. La scuola italiana non sembra avere né proporre alcun metodo. Mentre il mondo cambia, essa è rimasta ferma e sembra aver perso la sua anima. Non riflette sull’evoluzione del mondo giovanile, sui nuovi linguaggi, su come i paradigmi culturali contemporanei vadano convertiti dentro le aule. Al contrario, vanta un feticismo per i numeri che si concretizza nell’ossessione dei voti e dei giorni mancanti a “finire il programma”. La possibilità di formare persone — e non solo studenti capaci — è assai remota». Aggiungo, sulla base della mia esperienza quarantennale di docente, che poche eccezioni fanno molto di più di quanto è suggerito in questo articolo, ma purtroppo gli/le insegnanti motivate, ultraformate e consapevoli di tutte le età stanno diventando mosche bianche. Forse perché, per molti/e, il mestiere educativo è un ripiego, scrive l’autore mentre, suggerisco io umilmente, dovrebbe essere una scelta, sulla cui motivazione essere periodicamente valutate/i. In questi anni la derisione da parte di colleghi disincantati e cinici ha spesso colpito chi parlava della bellezza della nostra Costituzione come punto di riferimento per tutte e tutti e fondamento di quel patriottismo costituzionale indicato da Dossetti di fronte ai primi attacchi dei barbari al nostro Patto fondativo.
Delitto imperdonabile se commesso da chi dovrebbe alimentare la passione della conoscenza, e incoraggiare le giovani generazioni a realizzare i propri sogni in una fase delicatissima della crescita e incentivare lo sviluppo del pensiero critico. Su come rianimare questi/e giovani si rinvia all’approfondimento del ricercatore Guglielmo Gallone.

La posizione dell’Italia e dell’Ue sulla guerra in Ucraina sta cambiando. A tale riguardo mi piace segnalare in appendice dell’editoriale di questo numero due articoli dell’analista militare Mussetti: il primo verte sull’Ucraina, sulle sue difficoltà ad avere uomini addestrati, a reperire munizioni (veniamo a sapere che la Corea del Sud da sola fornisce più armi di tutte le Cancellerie dell’Ue), a effettuare una controffensiva che non arriva mai; il secondo è una scansione ai raggi X del recente accordo tra Kiev e Governo italiano, narrato come storico, pur non vincolante, dalla propaganda di guerra, di fatto una semplice dichiarazione d’intenti, nemmeno passata al vaglio del Parlamento, «niente più di un tweet con hashtag #SlavaUkraina (gloria all’Ucraina). Cioè nulla.» A proposito di “visione in prosa”.

Chiudo questa prima parte segnalando Autonomia differenziata o della fine dello Stato, uno dei saggi più articolati e seri che mi sia capitato di leggere in questo periodo. Si riferisce a una delle riforme che l’attuale Presidente del Consiglio ha dichiarato di voler realizzare in questa legislatura, pur avendone presentata una di segno opposto solo nel 2014. Basti qui riportarne una parte delle conclusioni: «Il paradosso della cosiddetta autonomia differenziata risiede soprattutto nel fatto che essa è attuata in una congiuntura geopolitica caratterizzata dal ritorno in grande stile dello Stato. È dunque sintomo di una profonda incoscienza strategica del nostro Paese e della sua classe dirigente, ancora ferma a una mentalità feudale.»
(continua)
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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.
