Eumenidi – benevole o benefiche – è il titolo che i grammatici di Alessandria scelsero per la terza e ultima tragedia della trilogia di Eschilo nota col nome di Orestea (o Orestiade, secondo Pasolini, che ne fece una traduzione molto particolare).
La prima è intitolata Agamennone, ma vera protagonista ne è Clitennestra, la donna dal cuore e dai pensieri di maschio; la seconda, Coefore, prende il nome dal coro composto dalle schiave troiane che accompagnano Elettra a deporre offerte sulla tomba del padre ucciso dalla madre.
Leggendole tutt’e tre, una dopo l’altra, risulta evidente che il tema centrale dell’intera trilogia è quello del potere – kratos – di chi abbia il diritto di esercitarlo, di quali ne siano i limiti e gli obblighi.
L’anno in cui fu rappresentata e ottenne la vittoria, il 458 a. C., si colloca in un momento cruciale della vita politica di Atene: Efialte, uno dei campioni della democrazia, colui che aveva cercato di limitare il potere delle famiglie aristocratiche privando di molte competenze l’Areopago, un tribunale di origine antichissima, che non aveva solo funzioni giudiziarie, era caduto vittima di un attentato; ma al suo posto era sorto l’astro di Pericle che di fatto dominò la politica ateniese per un ventennio. Tuttavia le tensioni fra le diverse fazioni restavano forti ed era necessario un progetto di riconciliazione che, pur ribadendo il nuovo ordine, assicurasse dignità e rispetto a chi si vedeva privato di privilegi e prerogative di cui aveva goduto per secoli, generazione dopo generazione.

Di questo discute l’Orestea, piegando allo scopo le vicende mitiche degli Atridi, ben note al pubblico ateniese, e introducendo nella trama delle Eumenidi varianti narrative di grande impatto emotivo.
Nella prima tragedia il re, detentore legittimo del potere, è attirato in trappola e ucciso da una donna, che insieme al suo amante ne occupa il trono; nella seconda il figlio di quel re, suo legittimo erede, per ordine e con la collaborazione degli dei olimpici, opera per ristabilire l’ordine sconvolto. Ma ciò avviene a un prezzo molto alto: l’assassinio della madre, assassinio che esige a sua volta vendetta.
Oreste, sebbene abbia agito secondo giustizia, è contaminato dal sangue che ha versato e non può sedere sul trono di Argo, come gli spetterebbe. I riti che ha compiuto a Delfi, presso l’oracolo del dio Apollo, che pure, da un punto di vista rituale, lo hanno purificato, non sono sufficienti.
Il senso della tragedia sta proprio qui, in una situazione senza via di uscita che vede contrapposta a Dike, il principio (o la dea) della giustizia, un’altra Dike. Per porre fine alla lunga scia di sangue che comporta la vendetta, riconosciuta legittima, quando a farsi carico della riparazione dei torti è la famiglia, istituzione “naturale” basata proprio sul sangue, è necessario che intervenga la giustizia storicizzata – Themis – amministrata in nome e nell’interesse della polis e attraverso le sue leggi da un tribunale composto da cittadini scelti, non direttamente coinvolti nella vicenda. La sentenza che essi emetteranno avrà il potere di riammettere Oreste all’interno della comunità cui appartiene, nonostante l’atto tremendo (deinón) da lui compiuto.
È quello che accade nelle Eumenidi, dove Eschilo, con un’invenzione originale, rappresenta l’istituzione del tribunale dell’Areopago da parte di Atena, la dea protettrice della città di Atene, e, come in un moderno thriller giudiziario, ci fa assistere al primo processo che davanti a esso si celebra.
Vediamone brevemente la trama.
Nella scena iniziale la Pizia, sacerdotessa di Apollo, appare sconvolta dalla presenza nel tempio dell’oracolo delfico di un gruppo di esseri mostruosi: sono le Erinni, antiche dee figlie della Notte, che, evocate dall’ombra di Clitennestra, bramosa di vendetta, emergono dal mondo sotterraneo e inseguono Oreste per terra e per mare. Non troveranno pace finché non riusciranno a berne il sangue di cui è debitore, in cambio di quello versato con l’assassinio della madre. Ma Apollo consiglia al giovane e tormentato eroe di rifugiarsi presso la statua della dea Atena e si assume tutta la responsabilità del suo atto: «Sono stato io a convincerti a uccidere il corpo materno» Eschilo, Eumenidi, 84. La parola madre viene accuratamente evitata e sostituita da perifrasi o metafore; anche Oreste dirà di aver ucciso «colei che mi ha partorito». Ivi, 463. E quando le Erinni, cui ha chiesto perché si accaniscano contro di lui, mentre non hanno perseguitato Clitennestra, rispondono: «Non era del suo stesso sangue l’uomo che uccise», egli ribatte: «E io sono forse del sangue di mia madre?». Le Erinni incalzano: «Ti ha nutrito dentro il suo grembo, assassino! Rinneghi la cosa che più ti appartiene, il sangue di tua madre?» e lui chiede ad Apollo di intervenire: «Ora testimonia tu: dì, Apollo, se l’ho uccisa secondo giustizia. I fatti non li nego. Ma se quel sangue l’ho versato giustamente, dipende dal tuo giudizio». Ivi, 602-613, passim.

Il dio del sole, esponente di quella nuova generazione di dei che abitano dimore celesti e che, insieme al padre Zeus, hanno spodestato le antiche divinità legate alla madre terra – discendenti da genealogie tutte femminili – ingaggia con le Erinni un serrato scontro verbale e le attacca accusandole di godere di ogni occasione di violenza e di spargimento di sangue. Poi afferma che tra la morte di Agamennone e quella di Clitennestra c’è una bella differenza: «Non è la stessa cosa la morte di un nobile eroe, un re che porta lo scettro datogli da Zeus; e il colmo è che muoia per mano di una donna: non è la stessa cosa che essere sorpreso dalla morte in battaglia […] tornava dalla guerra e ripensava alle tante imprese che aveva compiuto. Lei lo accolse, felice a parole, lui si preparò a fare il bagno nella vasca; ma ecco che un drappo gli cade addosso, lo cattura in una trappola inestricabile… l’eroe è colpito, avvolto in quel peplo, tessuto per l’agguato. Di un eroe vi ho narrato la morte, un eroe venerato da tutti, il capo dell’armata navale. Di una donna vi ho narrato il delitto, perché la crudeltà di quel misfatto colpisca come un morso il cuore dei giudici». Ivi, 625-638.
Infine mette sul piatto l’argomento decisivo, facendo sua una teoria che circolava in quegli anni ad Atene: «Sì, è chiamata madre, ma non è lei che genera il figlio. Lei è la nutrice dell’embrione appena seminato in lei. Quello che procrea è il maschio che la prende. Lei è come un ospite che, per il suo ospite, custodisce e si prende cura del rampollo, sempre che gli dei non lo distruggano. E la prova è questa che ora dirò: si può essere padre senza che ci sia una madre. Proprio qui c’è come testimone la figlia di Zeus Olimpio… che non è stata nutrita nel buio di un ventre, ma come un germoglio è sbocciata da sola, la dea. Senza un padre, invece, nessuna donna può procreare» Ivi, 658-668.
La tesi esposta da Apollo era nota agli spettatori dell’epoca: ne era sostenitore il filosofo Anassagora, uomo molto vicino a Pericle, che poi sarà accusato e condannato per empietà – forse proprio per colpire quello che era diventato di fatto il signore di Atene. Nel secolo successivo la stessa teoria sarà ripresa in maniera articolata, e “scientificamente” dimostrata nella Generazione degli animali, da Aristotele, il filosofo che tanta influenza avrà nella cultura occidentale. All’epoca della rappresentazione dell’Orestea l’ipotesi dell’irrilevanza del contributo materno nella generazione aveva una forte rilevanza politica: in discussione c’era l’esclusione dai diritti politici, e quindi dalla gestione del potere, di una parte consistente della cittadinanza, in relazione al fatto che si discendesse da genitori ambedue portatori del diritto di cittadinanza o no. Come si ricorderà, la donna non aveva diritti di cittadina, ma, se figlia legittima e moglie di un cittadino, poteva trasmettere tali diritti ai figli nati dal matrimonio. La restrizione, che divenne operativa nel 451 a. C. era stata voluta da Pericle, il campione della democrazia, che intendeva così contrastare la consuetudine delle famiglie aristocratiche di stabilire alleanze con quelle di altre città tramite matrimoni incrociati.

Dopo aver ascoltato i contendenti, Atena prima di invitare i giudici a esprimersi, proclama solennemente la fondazione di un nuovo tribunale che giudicherà i delitti di sangue e prenderà il nome dal “colle di Ares”, l’Areopago.
Augurando alla città di Atene che il rispetto, e la paura che si accompagna al rispetto, tratterrà i cittadini dal commettere crimini e raccomanda: «Né anarchia né dispotismo: questa è la norma che invito a osservare. Immune da corruzione, rispettato, inflessibile, sentinella sempre vigile su questa terra anche per chi dorme: così questo tribunale io fondo e costituisco» Ivi, 704-706.
E dopo aver stabilito che, in caso di parità di voti, l’imputato sarà assolto – in dubio pro reo, è principio ancor oggi universalmente riconosciuto – conclude: «Un voto a favore di Oreste io aggiungo. Io non ho madre che mi abbia generato e sempre sto dalla parte del maschio – tranne che non voglio sposarmi. Con tutta l’anima perciò io sono tutta, tutta intera di mio padre. Perciò non posso appoggiare una donna che ha ucciso il suo sposo, colui che difende la casa» Ivi, 735-739.
Il voto di Atena risulta determinante per la salvezza di Oreste. Ma la dea offre una compensazione alle Erinni sconfitte, estreme rappresentanti di un mondo che va scomparendo: purché accettino di trasformarsi in dee benefiche – Eumenidi – portatrici di vita e di fertilità, esse saranno oggetto di nuovi onori e a loro sarà dedicato uno dei templi più importanti della città.
Sembra proprio di dover concludere che la prima democrazia, modello di tutti i regimi democratici moderni, si fondi sulla cancellazione del ruolo delle donne nel mettere al mondo il mondo.
In copertina: kylix (coppa larga e bassa usata solitamente per bere il vino) a figure nere risalente intorno al 555-550 a.C. attribuita al pittore Phrynos, ritrovata nella zona intorno a Viterbo e conservata al British Museum.
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Articolo di Gabriella de Angelis

Docente di latino e greco nei licei e nei corsi dell’Università delle donne Virginia Woolf, si è dedicata alla rilettura dei testi delle letterature classiche in ottica di genere. All’Università di Aix-Marseille ha tenuto corsi su scrittrici italiane escluse dal canone. Fa parte del Laboratorio Sguardi sulle differenze della Sapienza. Nel Circolo LUA di Roma intitolato a Clara Sereni, organizza laboratori di scrittura autobiografica.
