Costituzione letteraria. Art. 3

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

L’art. 3 della nostra Carta costituzionale è un articolo prezioso e fondamentale per la tutela della nostra libertà e dignità di esseri umani. La norma è frutto della terribile esperienza del ventennio fascista e della guerra mondiale, piaghe a causa delle quali sono state crudelmente perseguitate minoranze di persone per la loro diversità a vario titolo (sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali, per l’appunto). È l’articolo che coniuga mirabilmente i principi di uguaglianza formale e sostanziale, e per quest’ultima interpella direttamente la Repubblica, ovvero tutti noi cittadini e cittadine, affinché si garantisca la sua realizzazione attraverso la rimozione degli ostacoli che ne impedirebbero il compimento, consapevoli del fatto che, concretamente, nella società ci sono persone che si trovano ad essere in condizioni meno favorevoli per la realizzazione del loro pieno sviluppo, condizioni che, nel concreto della vita quotidiana, impediscono di esercitare tutte le proprie potenzialità. Per questo – è bene ricordarlo – la madre costituente e partigiana Teresa Mattei ha voluto che fosse aggiunta l’espressione di fatto accanto al verbo limitando, ovvero la rimozione degli ostacoli deve avvenire nel concreto. Scrive Gherardo Colombo: «Il principio della dignità della persona è quello sul quale i Costituenti hanno voluto imperniare tutta la nostra vita. È un principio né arido né astratto. Ci riguarda da vicino: parla di chi siamo e di che cosa possiamo (e abbiamo il compito di) fare. Parla di noi. […] l’articolo 3 stabilisce che le nostre diversità non possono incidere sulle nostre possibilità. Sono queste a essere uguali, e cioè sono escluse le discriminazioni» (da Gherardo Colombo, Anche per giocare servono le regole, Chiarelettere, Milano 2020, p. 20).
Il diritto alla felicità non è esplicitamente presente nella nostra Costituzione, come nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, in cui leggiamo che «tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, tra questi diritti vi sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità». Ma è altrettanto – direi – lapalissiano che tale perseguimento della felicità sia implicito nel comma 2 dell’art. 3, nel momento in cui si sancisce come compito della Repubblica (e, dunque, dovere) quello di rimuovere ostacoli alla realizzazione di una vita piena e felice.

Come vento cucito alla terra di Ilaria Tuti

Per questa terza tappa del nostro viaggio di interconnessione tra il dettato costituzionale e la letteratura, il libro che mi ritorna alla memoria è Come vento cucito alla terra di Ilaria Tuti. Come tutti i libri della scrittrice friulana, questo romanzo è potentissimo e memorabile. Narra la storia vera delle prime chirurghe che, durante la Grande Guerra, aprirono il primo ospedale militare interamente gestito da donne, novità clamorosa in quell’epoca, perché le donne, seppur ammesse a studiare alla facoltà di medicina, non potevano lavorare e operare in ospedale come i colleghi, ma era loro concesso di curare solo donne e bambini in ospedali di carità per la gente povera che non poteva permettersi, altresì, cure migliori: «[…] appartenevano al medesimo mondo di mezzo. Erano creature ibride, che i giornali avevano iniziato a osservare con curiosità mista a preoccupazione e a chiamare, non senza ironia, Lady doctors». Ricordiamo che la Prima guerra mondiale aveva sconvolto l’assetto sociale dell’Europa, in quanto gli uomini erano impegnati al fronte e le donne si ritrovarono, giocoforza, a doversi occupare di mestieri tradizionalmente – e discriminatoriamente – non destinati a loro, come a gestire attività interamente al posto degli uomini (basti richiamare alla memoria, per il nostro paese, l’esempio di Luisa Spagnoli e della sua straordinaria esperienza esistenziale e professionale, o leggere il romanzo di Giuseppina Torregrossa, Al contrario, che narra il ruolo delle contadine in Sicilia mentre i loro uomini sono in guerra, in questo caso la Seconda guerra mondiale).

Flora Murray e Louisa Garrett

Nel romanzo di Tuti compaiono le straordinarie figure reali di Flora Murray e Louisa Garrett, dottoresse impegnate già nel movimento delle suffragiste, che inaugurarono il primo ospedale militare inglese sul fronte occidentale, il WHC, Women’s Hospital Corps, con l’aiuto della Croce Rossa di Parigi. Nella nostra storia romanzata, le due dottoresse si mettono alla ricerca della brava dottoressa Cate Hill, una donna, per metà italiana e per metà inglese, che ha studiato da chirurga e opera come ginecologa nel quartiere malfamato di Whitechapel, a Londra: le offrono di seguirle per lavorare con loro presso l’ospedale. Inizialmente titubante, incoraggiata dagli amici Joseph e Willelmina Moore (una coppia di anziani coniugi che ospita e aiuta lei e la sua bambina Anna), Cate accetta, e questa esperienza le cambierà la vita per sempre.
L’ospedale riscuote enormi successi, le dottoresse sono richiamate a Londra dal governo inglese per fondare, nel 1915, l’ospedale di Endell Street. Situato al numero 36 di Endell Street, l’Ospedale militare era diretto da Flora Murray e Louisa Garrett, con personale tutto al femminile. Il motto di queste donne tenaci e coraggiose fu “Deeds not words”, ovvero “Fatti non parole”, un evidente richiamo allo spirito del Women’s Social and Political Union, il movimento politico di sole donne per il suffragio femminile («Non li sentite i cannoni? Tuonano da anni. Nelle piazze, dalle pagine dei giornali che ci chiamano ‘isteriche’, dagli ospedali psichiatrici in cui continuano a rinchiudere le più indomite delle nostre sorelle. Non le sentite urlare? Sono grida di guerra. Una guerra di diritti. Qualcuna di noi dovrà pur combatterla. Se non noi – oggi, adesso – dovranno farlo le nostre figlie domani»). Dal 1915 al 1919 (anno in cui smise di funzionare), a Endell Street sono stati curati e accuditi circa 26.000 pazienti. I soldati feriti in esso ricoverati trovarono un’occasione di rinascita non soltanto fisica, ma anche psicologica. La potenza suggestiva della narrativa di Ilaria Tuti si riverbera proprio nelle più intense pagine del romanzo che raccontano come questi militari, maschi e intrisi di ogni tipo di pregiudizio di genere, entrano in contatto con le dottoresse e le infermiere di Endell Street.

Come è tipico dello stile di Tuti, il filo della storia di Cate Hill si dipana inizialmente in parallelo con quello della vicenda di Alexander Allan Seymour, capitano dell’esercito britannico, che combatte sul fronte con i suoi uomini, per poi giungere a incrociare le loro direttrici. Alexander, infatti, viene ricoverato con i suoi soldati a Endell Street, dopo essere stato salvato da Cate che lo aveva liberato dal peso di un muro sotto il quale era rimasto incastrato, rischiando di morire. A questo punto della narrazione, si fronteggiano due mondi, due generazioni, quella delle donne e degli uomini di quell’epoca che combattono due guerre parallele: le donne in ospedale contro la morte, per salvare più vite possibili, e gli uomini al fronte, nell’esperienza traumatica e sconvolgente della Grande guerra, che la penna della scrittrice di Gemona del Friuli riesce a raccontare con – è proprio il caso di dirlo – chirurgica dovizia di particolari e forte impatto emotivo (come già era accaduto per il romanzo Fiore di roccia), scuotendo le coscienze e interrogandole sull’insensatezza della guerra (a proposito della battaglia della Marna: «Erano riusciti a mantenere la posizione non solo per le ventiquattro ore richieste, ma dodici in più. Lo sforzo era costato una follia di sangue fraterno, si marciava sui cadaveri. […] Non c’era stato nulla di prodigioso nella respinta che aveva sottratto Parigi agli artigli dell’aquila imperiale. Non era stato un miracolo, ma una carneficina a salvare l’ultimo baluardo della libertà in quella terra. Tra la vittoria e la sconfitta si erano frapposte decine di migliaia di vittime»).

Nel rileggere il dettato dell’art. 3, il ricordo vivo di questo bellissimo romanzo mi è riaffiorato per due motivi, legati ai due commi dell’articolo. La storia raccontata in questo libro affronta il tema dell’emancipazione femminile a partire proprio dalle discriminazioni che le donne da sempre subiscono nella storia dell’umanità. Queste chirurghe in gamba devono scontrarsi faticosamente con i pregiudizi e le diffidenze di una società maschilista che non concepisce di vedere esercitato dalle donne un mestiere che non si “addiceva” loro: «La professione medica rendeva il cuore duro, e quello di una donna non poteva permettersi di esserlo. Che ne sarebbe stato degli uomini, se ciò fosse accaduto? Alle prese con donne volitive e meno inclini all’ubbidienza, per loro e per la società che avevano plasmato sarebbe stata una disfatta»; «Come fanno gli uomini … a tollerare di essere curati da voi donne»; «Donne che volevano ciò che era una prerogativa maschile. Anzi, lo pretendevano […]. Fame di sapere, fame di carriera, di posti di lavoro e professioni che erano, e dovevano a ogni costo restare, appannaggio maschile». Nella narrazione emerge tutta la fatica e la sofferenza che le donne hanno dovuto (e devono) affrontare sulla strada lunga e tortuosa della parità di genere: «Perché quando è un uomo a fare qualcosa di ardito e disperato viene considerato un eroe, e quando invece una donna compie la stessa impresa la si definisce pazza?».

Nel romanzo non si tocca solo il tema delle discriminazioni ai danni delle donne, ma anche quello dei pregiudizi e degli stereotipi di genere che – soprattutto in ambito militare – sono radicalizzati in ogni epoca storica e società patriarcale. Durante la degenza dei soldati a Endell Street, Flora Murray si rende conto che non basta curare solo le ferite del corpo. Questi militari hanno subito anche il disfacimento della psiche, che si manifesta con lo stress post-traumatico ed episodi di delirium tremens: «La guerra non uccideva solo nei campi di battaglia e nelle sale operatorie. Continuava ad annientare nella mente». Per questo occorre impegnare le giornate di degenza dei pazienti – la maggior parte di loro ormai disabili – con attività che potrebbero alleviare la loro mente e la loro anima provate dal dolore assordante della guerra. Il personaggio di Ernest Thesiger, attore teatrale ed ex combattente, amico personale della regina consorte, moglie di Giorgio V, ovvero nonno di Elisabetta II, propone di insegnare ai soldati l’arte del ricamo. Chiaramente l’impatto che l’idea ha in un mondo a trazione virile è come una detonazione che deflagra violentemente («sembra che considerino il ricamo un’attività castrante»): come si può accettare che uomini eroi della patria, della guerra, si mettano a praticare il ricamo, mestiere esclusivamente appannaggio femminile? Eppure, vinte le resistenze sia interne all’ospedale che esterne nella società, quell’attività si rivelerà, insieme alla lettura, una cura valida ed efficace per i reduci dall’inferno delle trincee: «Se la guerra li aveva rigettati come scarti, le donne di Endell Street li avrebbero rimandati al mondo come uomini migliori di quanto avevano varcato i cancelli dell’ospedale». Non solo. Nel personaggio del giovane soldato Andrew, la scrittrice condanna anche l’omofobia: Andrew, infatti, «mostrava tratti tacciati come effeminati, se ne erano accorti tutti, da subito, ma nessuno aveva mai osato dire nulla. Lo avevano protetto, senza bisogno di un comando, di una discussione». Tranne suo padre, che lo massacra di botte con un frustino affinché la smetta di ricamare e non diventi un invertito.
Il 6 luglio 1919 a Londra, nella Saint Paul Cathedral, verrà esposta per la prima volta una pala d’altare ricamata da soldati provenienti da vari ospedali inglesi, tuttora esposta.

La Cattedrale di Saint Paul, Londra, paliotto creato da più di cento soldati feriti

Il secondo motivo che mi ha spinto a ripercorre la storia di questo romanzo è legato al secondo comma dell’art. 3, che sancisce il principio di uguaglianza sostanziale. Cate e tutte le chirurghe che operano a Endell Street, ma anche Alexander con i suoi soldati, nel corso del romanzo mettono in pratica quel concreto impegno verso i loro simili per cercare di rimuovere gli ostacoli che non permettono la realizzazione piena dello sviluppo della persona umana. Cate lo fa con il suo lavoro («Anche la sutura, come il ricamo, è un atto d’amore… Unisce e risana»), Alexander distruggendo anche l’ultimo baluardo dei suoi pregiudizi e sostenendo i suoi compagni, in particolare difendendo il giovanissimo Andrew dalla cieca violenza del padre, che non accetta l’identità di suo figlio.
Ma, nel ripensare al romanzo di Ilaria Tuti, in questi giorni di angoscia per i conflitti in corso che sacrificano ancora, sull’altare dell’egoismo umano, le vite degli innocenti, non ho potuto non pensare che la guerra stessa è l’ostacolo per eccellenza al pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale, non solo nel nostro Paese, ma in tutto il mondo. I soldati descritti da Tuti richiamano tutti i militari descritti nelle opere del Novecento, che hanno come elemento comune l’insensatezza di una tragedia come la guerra: così era, in fondo, per ciascuno di loro, «inchiodati a una croce che non avevano scelto di portare». Riecheggiano nella mente le parole di Erique Maria Remarque: «Soltanto l’ospedale mostra che cos’è la guerra. Io sono giovane, ho vent’anni, ma della vita non conosco altro che la disperazione, la morte, il terrore e la insensata superficialità unita a un abisso di sofferenze. Io vedo dei popoli spinti l’uno contro l’altro, e che senza una parola, inconsciamente, stupidamente, in una incolpevole obbedienza si uccidono a vicenda» (da Niente di nuovo sul fronte occidentale). Gino Strada diceva: «Un movimento di massa, che negli anni, nei decenni e nei secoli ha raccolto il consenso di centinaia di migliaia di cittadini, ha cambiato la percezione della schiavitù: oggi l’idea di esseri umani incatenati e ridotti in schiavitù ci repelle. Quell’utopia è divenuta realtà. Un mondo senza guerra è un’altra utopia che non possiamo attendere oltre a vedere trasformata in realtà. Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell’umanità» (discorso in occasione del Premio “Right Livelihood Award”, Stoccolma, 30 novembre 2015). Predicare e praticare il pacifismo è, dunque, un contributo concreto alla rimozione degli ostacoli che impediscono la piena realizzazione degli esseri umani, in quanto persone dotate di pari dignità e uguaglianza e, dunque, destinate alla felicità.

Pillola di bellezza ri-costituente

Il nuovo CdA dell’Aifa

Nei giorni scorsi, tra i tanti problemi e urgenze nelle quali il mondo contemporaneo sta inesorabilmente naufragando, nella nostra società ‘italica’ sono rimbalzate all’attenzione dell’opinione pubblica in particolare due foto dall’iconografia potentissima. La prima ritrae il nuovo CdA dell’Aifa: «È composto da soli uomini il nuovo Consiglio di amministrazione dell’Aifa, l’Agenzia italiana del Farmaco, ovvero l’organo, controllato dal Ministero della Salute, che è l’autorità competente per l’attività regolativa dei farmaci. Il nuovo presidente, Robert Giovanni Nisticò, ha preso il posto di Giorgio Palù, ora in dirittura per essere candidato alle elezioni europee nelle liste di Forza Italia. Una foto, pubblicata sul sito dell’Aifa e sui social, ritrae l’insediamento del nuovo Consiglio e quello che salta subito all’occhio è che ritrae una stanza dove sono presenti solo uomini: 10 membri (compreso il presidente e i due direttori, scientifico e amministrativo) e neanche una donna. Come, purtroppo, il precedente Cda» (da “Corriere 27esimaOra” del 18/04/2024: https://27esimaora.corriere.it/24_aprile_18/aifa-insediato-nuovo-cda-vertice-formato-soli-uomini-116fc05a-fd8a-11ee-a07c-0b5793220589.shtml).

Frame dal programma televisivo “Porta a Porta”

La seconda immagine è un fotogramma della puntata del talk show “Porta a Porta”, condotto da bruno Vespa, del 18 aprile c.a.: «Nella puntata di giovedì sera di Porta a Porta, principale talk show politico serale di Rai 1, per circa dieci minuti sei ospiti uomini e il conduttore Bruno Vespa hanno parlato di aborto e delle recenti discussioni intorno a un contestato emendamento al disegno di legge sul PNRR, presentato da Fratelli d’Italia. La puntata era su diversi temi, ma il fatto che in studio non fosse stata coinvolta nessuna donna come ospite per intervenire su un tema che riguarda la salute riproduttiva femminile e la libertà di scelta delle donne è stato notato e criticato ampiamente sui social network» (da “Il Post” del 19/04/2024: https://www.ilpost.it/flashes/aborto-porta-a-porta-uomini/).

Mosaico per La Stampa

Negli ultimi sei mesi, l’unica immagine che sono riuscita a trovare in cui compaiono tante donne tutte insieme è un mosaico che ritrae la ‘specialità’ in cui sembrano distinguersi le donne ‘italiche’: morire di femminicidio. È un mosaico comparso su “La Stampa” del 25/11/2023 (https://www.lastampa.it/cronaca/2023/11/25/news/ritratti-femminicidio-giulia-cecchettin-250-donne-copertina-lastampa-13887028/).

L’art. 3 ha ancora un lungo cammino da percorrere prima di vedere pienamente attuato il suo bellissimo e necessario dettato.

Alexander aveva smesso da un pezzo di preoccuparsi di quello che pensavano gli altri. Ma era un uomo, gli era concesso. Lei, invece, strappava a morsi ogni conquista.

(Ilaria Tuti)

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Articolo di Valeria Pilone

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Già collaboratrice della cattedra di Letteratura italiana e lettrice madrelingua per gli e le studenti Erasmus presso l’università di Foggia, è docente di Lettere al liceo Benini di Melegnano. È appassionata lettrice e studiosa di Dante e del Novecento e nella sua scuola si dedica all’approfondimento della parità di genere, dell’antimafia e della Costituzione

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