Via Angelo Brunetti n° 35. La casa della pittrice Deiva De Angelis

Nel mondo artistico romano si fece conoscere come Deiva De Angelis, col cognome del marito; ma all’inizio del Novecento, quando dall’Umbria giunse nella capitale con pochi soldi e molti sogni, si presentò come Deiva Terradura, il cognome della madre. In realtà per l’anagrafe era Deiva Maria Cristina Alunni Riposati, ma il doppio cognome paterno lo omise sempre, lasciandolo solo su certificati e documenti.

Corciano (PG). Foto di Paola Spinelli

Un mistero il motivo per cui cercò di evitarlo, ma questo è solo uno dei tanti enigmi che circondano la sua vita privata e artistica, ancora oggi non facilmente ricostruibile a causa di quei tanti cognomi, trascritti a volte in modo impreciso, che hanno disperso le informazioni. Parte di queste ricostruzioni anagrafiche le devo a un pronipote di Deiva, il dottor Oscar Terradura Vagnarelli recentemente scomparso, con cui sono stata in contatto durante le ultime ricerche e al quale vanno i miei ringraziamenti e il rammarico di non poter più chiacchierare con lui della sua anticonformista parente. Deiva è stata una donna fuori dal comune, anticonvenzionale nelle scelte e nei comportamenti, pittrice talentuosa e originale, morta in povertà ancora giovane e presto dimenticata. Che la targa immaginaria di oggi possa sottrarla un po’ all’oblio.

Deiva De Angelis in una foto probabilmente dei primi anni del Novecento

Deiva era figlia di Pasquale Alunno (o Alunni, come spesso riportato nei certificati) Riposati e di Clotilde Terradura, a volte indicata come Maria Domenica, a volte come Maria Clotilde o solo Maria. In Umbria il cognome Alunno (o Alunni), assegnato a Pasquale al momento della nascita nei primi anni Quaranta dell’Ottocento, veniva attribuito frequentemente ai trovatelli e alle trovatelle; in un Libro delle anime del 1845 il piccolo appare registrato nel gruppo familiare di Biagio Riposati col termine “spurio”, a indicare che ancora non era avvenuta l’affiliazione. Alle umili origini di Pasquale, che di mestiere faceva il bracciante, si contrappone la posizione più solida di Clotilde, classe 1853 e secondogenita di una famiglia di mugnai che alla fine del XIX secolo, dalla zona intorno Perugia, si trasferì per lavoro a Gubbio.
Il matrimonio religioso tra i non più giovani Pasquale e Clotilde venne celebrato nel 1883 ma lo Stato italiano non lo ritenne valido, tanto che furono costretti a sposarsi di nuovo, questa volta civilmente, nel febbraio 1887; solo dopo, a marzo, poterono riconoscere come loro figlia legittima la piccola Deiva, nata in piena estate il 16 luglio 1884 probabilmente a Piccione, una frazione di Perugia, nella cui parrocchia fu battezzata e inserita nel Libro delle anime insieme ai genitori.

Chiesa parrocchiale della frazione
di Piccione (PG)

Fino al 1888 il nucleo familiare visse stabilmente lì, poi le loro tracce si perdono per riapparire tre anni dopo, nel 1891, nei registri parrocchiali del quartiere S. Antonio di Perugia. La vita non fu facile, Pasquale faceva lavori umili ‒ il facchino, l’ombrellaio ‒, i guadagni probabilmente modesti dovettero essere pure saltuari se nel 1898, anche se solo per quell’anno, la famiglia venne inserita nei registri di povertà; ma già dal 1899 si perdono nuovamente le notizie di Deiva e della sua famiglia.
Non si sa quando la giovane lasciò l’Umbria alla ricerca di un destino migliore e, soprattutto, deciso da lei; dovrebbe essersi trasferita a Roma all’inizio del Novecento, probabilmente da sola. Si faceva chiamare Deiva Terradura, aveva spirito combattivo ma poche prospettive se non quelle di vendere mazzetti di violette a piazza di Spagna, come facevano molte ragazze di bella presenza sperando di farsi notare da un artista e diventare modelle. Riuscì, non si sa quando, a essere ingaggiata dal pittore William Walcot che cominciò a farla posare nel suo studio di via Margutta.
In un articolo del 1925 Anton Giulio Bragaglia ha ricordato come casuale la scoperta delle doti artistiche di Deiva: «Walcot, che viveva a Roma, si attardava un giorno in pose su pose, non riuscendo a finire un suo quadro, il cui soggetto era proprio Deiva con una sua compagna modella. Difficile da ritrarre era quell’amica! Ma il pittore uscì per un momento e Deiva preso il carbone terminò la figura della compagna. Quando Walcot, tornando, vide, restò come trasognato. Da quel giorno Deiva fu pittrice.»

Deiva De Angelis in una foto probabilmente dei primi anni del Novecento

Secondo quanto scrive Franco Cremonese in un articolo del 1960, William Walcot e Deiva partirono insieme, forse nel 1903, per un viaggio in Europa durante il quale la giovane ebbe modo di visitare importanti musei, osservare da vicino le opere di grandi maestri europei e impossessarsi della forza del colore. Poi fece ritorno a Roma, ma si ignora quando; risulta essere residente in città e non più a Perugia nel 1908, come attesta un certificato anagrafico, ma come vivesse e chi frequentasse resta avvolto nella fitta nebbia. Almeno fino al 1912 quando la sua vita e il suo cognome cambiarono nuovamente: il 24 agosto sposò l’avvocato Alfredo De Angelis, pugliese di origine e di buona famiglia, che negli anni a seguire svolse parte delle sue attività legali presso alcune case cinematografiche romane; testimoni di nozze furono lo scultore Costantino Barbella e il pittore Amedeo Simonetti. Il matrimonio ebbe breve durata: Deiva non era «tipo da farsi imbrigliare», ha raccontato sempre Franco Cremonese decenni dopo, forse si sentiva schiacciata dal legame di coppia e fu lo stesso Alfredo «a ridarle la libertà», anche se legalmente le nozze non vennero annullate. Nella scarsità di notizie una sola cosa è certa: col nome di Deiva De Angelis, e non più Terradura, nel 1913 fece il suo esordio nel mondo artistico romano.

Deiva De Angelis, Toeletta con fiori, 1915, olio su cartone, Roma, collezione privata

Tra marzo e giugno di quell’anno, infatti, si svolse la prima Esposizione Internazionale d’arte della Secessione al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Alla mostra furono esposte opere d’avanguardia, come quelle di Matisse e Van Dongen, e composizioni di Manet, Monet, Renoir, meno recenti ma comunque significative per lo scenario italiano e per chi intendeva opporsi al linguaggio accademico. La vetrina era importante, Deiva presentò il dipinto Studio d’uomo nella sala 9; condividendo l’innovativa concezione artistica della Secessione non fece mancare la sua presenza anche in altre tre successive edizioni. Nello stesso anno un’altra occasione significativa, la partecipazione alla II Esposizione internazionale femminile di Belle Arti, organizzata tra il mese di maggio e luglio a Torino.
Il clima umano e lavorativo che la circondava era vivace e stimolante, tra i molti protagonisti cominciò a frequentare Cipriano Efisio Oppo, un pittore più giovane di lei di cinque anni legato agli ambienti d’avanguardia. Nacque una profonda relazione amorosa e professionale, arte e vita si mescolarono con un’intensità inebriante, Deiva si trasferì con lui in uno degli studi allestiti nel parco di villa Strohl-Fern, luogo di elezione per molti artisti della Secessione romana.

Deiva De Angelis, Villa Strohl-Fern in autunno, 1920, olio su cartone, Roma, collezione privata

Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Oppo partì volontario per il fronte ma rimase ferito durante un’azione militare; dopo una lunga degenza rientrò a Roma, tra la fine del 1916 e l’inizio dell’anno successivo. L’esperienza della guerra l’aveva trasformato: lo slancio ribelle del suo primo linguaggio artistico cominciò piano piano a placarsi, trasformato in un “ritorno all’ordine” e alla tradizione pittorica italiana che Deiva forse non condivise, in cui sicuramente non si riconobbe. Lei produrre era gioire, viveva la pittura come flusso vitale, come trionfo di colore, in una ricerca che ‒ sono parole di Oppo in occasione dell’ultima mostra delle Secessione del 1916 ‒ accomunava il colore alla musica secondo «corrispondenze espressive. […] Fra la natura (non l’astrazione) vista pittoricamente nelle sue essenziali necessità e lo stato d’animo creato dalla tavolozza come dalla tastiera di un piano, con tutti i suoi toni alti e bassi, vivi e cupi, si stabiliscono dei rapporti, delle armonie che spogliate da ogni altra ricerca di solidità costruttiva e di presa di possesso del soggetto, possono essere occasioni di raffinatissime gioie pittoriche. Un tentativo del genere è quello di Deiva De Angelis […] È difficile voler dare con le parole gli effetti degli accostamenti coloristici, dei chiari coi chiari, dei contrapposti che s’avvalorano a vicenda, perché le emozioni sono variabili e continue come d’un mondo che si muove».
Ciò che arrivò a complicare la loro storia d’amore fu forse una gravidanza desiderata da Deiva ma non da Oppo, conclusa presumibilmente con un aborto; a esaurirla del tutto il diverso cammino da lui intrapreso, con gli occhi rivolti alla tradizione classica, proiettato verso un’importante carriera di artista e di critico, pronto per un matrimonio con una giovane donna più rassicurante, non ribelle e indipendente come Deiva.
Il ritorno nell’abitazione in via Angelo Brunetti 35, che suo marito Alfredo le lasciò a disposizione e dove visse anche sua madre, fu la logica conseguenza. Quando l’anziana Clotilde giunse a Roma è un altro degli enigmi non risolti, ma la sua residenza nell’appartamento di via Brunetti è attestata dal certificato di matrimonio di Deiva, che forse la volle accanto a sé avendo risolto i propri problemi più impellenti di sussistenza.

Deiva De Angelis, Cucitrice, 1915 ca., olio su tavola, Roma, collezione privata

L’anziana madre diventò la protagonista di alcuni suoi quadri mentre china lavorava di ago e filo, silenziosa presenza in attesa; una donna semplice, «una vecchierella che aveva in capo il fazzoletto nero e, spaventata dalla grande città, restava sempre in casa» ha scritto Franco Cremonese. Una presenza che significò molto per Deiva, tanto da aver preferito il cognome materno Terradura a quelli paterni e aver scelto di tenerla accanto a sé nonostante la sua vita disordinata, il fare esuberante, l’andare controcorrente. 
La casa di via Brunetti, si legge, era semplice nell’arredo, quasi spoglia: una camera da letto, un tinello dove ogni tanto si radunavano alcuni amici, un’altra stanza da affittare quando i soldi scarseggiavano. Per lavorare Deiva utilizzava il terrazzo che le offriva la visione del cielo, dei tetti e delle cupole, dei panni stesi ad asciugare, dei vasi di fiori; quando non era in casa, il suo studio diventava la campagna romana dove sistemava il cavalletto e dipingeva.

Deiva De Angelis, Paesaggio romano, 1923, olio su tela, Roma, collezione privata

«Amava la vita, amava le brigate, il chiasso, la buona tavola, la vita di notte», ha scritto Anton Giulio Bragaglia; ciò che non amava invece era frequentare i salotti, preferendo i vicoli e le osterie tra piazza di Spagna e piazza del Popolo, allora non ancora fashion e di moda, oppure gli atelier di via Margutta, dove poteva esprimere più schiettamente la sua natura. Non si ritrovava nei parlottii intellettuali e nelle dispute accademiche, pur essendo amica di artiste, artisti e intellettuali, come Roberto Longhi che andò a trovarla per le condoglianze quando morì la madre Clotilde nel febbraio del 1923. Testimonia l’articolo di Cremonese che in quel giorno di dolore Deiva accolse con generosità chi si recava in visita: «Per essi aveva preparato pane prosciutto e vino. Questa è l’usanza dei contadini umbri che, pur nel lutto non vengono meno al dovere dell’ospitalità. Gli amici […] non se ne meravigliarono […]. Non era invece previsto che, tra un bicchiere e l’altro, prorompesse spontanea l’allegria. Era la stessa Deiva, con le sue battute pungenti ed il suo gergo un po’ dialettale a muovere il buon umore. […] I suoi amici, che sapevano quanto avesse profondamente amato la mamma, la compresero. Ella fu sincera in quello sfogo di allegria, come lo era stata poco prima nel dolore. Certo è che nella sua filosofia aveva accolto la morte della madre come un evento ineluttabile, sia pure destinato ad aumentare quella solitudine, specie interiore, che tanto temeva e per la quale spesso soffriva».
La bellezza di Deiva era anticonvenzionale, come il suo carattere e i suoi modi di essere. «Lunghi capelli nerissimi raccolti sulla nuca: volto rotondo e olivastro dagli occhi aggressivi», poteva indossare con la stessa disinvoltura scialli vermigli con pesanti pendenti di corallo alle orecchie e cappellacci da uomo.

Autoritratto, 1920, olio su tela,
Roma, collezione privata

Con uno simile in testa, si immortalò nel celebre Autoritratto del 1920, l’opera più bella secondo Bragaglia che aggiunse: «Un lavoro condotto con disciplinata febbre, con frenato amore, con sicura mano, con maestria di tecnica, a sapore antico; liscio polito finito terso. Questo strano dipinto […] è forse affascinante di più per il mistero della significazione psicologica contenuta nell’ambiguità dello sguardo e della bocca. È malinconico, o è ironico della sua stessa malinconia? Difficile a scoprire. Più facile è gustar l’eleganza del suo colore; tinte basse e aristocratiche, guardinghe, di gusto severo»; un quadro «poderosamente disegnato e perfettamente espressivo, nella chiusa ferma della bocca vasta e volontaria, nella fissità degli occhi ricercanti, che sembran tesi ad una meta ad altri invisibile, la pittrice ha saputo rendere la sua vera anima occulta».

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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.

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