Femminismo/femminismi. Intervista a Danila Baldo

Danila Baldo, laureata in filosofia teoretica e perfezionata in epistemologia, già docente di filosofia e scienze umane, e consigliera provinciale di parità, tiene corsi di formazione, in particolare sui temi delle politiche di genere. Giornalista pubblicista, è vicepresidente dell’associazione Toponomastica femminile e caporedattrice della rivista online Vitamine vaganti. Danila è, anche e soprattutto, l’amica e la compagna di impegno civile di metà della mia vita. Questa serie di interviste sul tema Femminismo/femminismi non può, dunque, che partire da lei.


Femminismo/femminismi: è possibile l’unità nella pluralità?
Sono d’accordissimo con il declinare il vocabolo al plurale, ovvero con la dizione ‘femminismi’. Al singolare, il femminismo costituisce una modalità di visione del mondo, che – al contrario del maschilismo – non tende a far prevalere un sesso su un altro, ma alla parità. L’evoluzione dal singolare al plurale è importante, perché possono esserci tanti punti di vista diversi, tante differenze in un alveo comune: una visione del mondo plurale non è necessariamente contrapposta, ma è una ricchezza. Ciò vale sia per femminismo/femminismi, sia per la questione (che, secondo me, è collegata) della cosiddetta Festa della Donna, espressione nata quando le donne uscivano poco di casa e l’8 marzo era un’occasione, per esempio, per condividere una cena con le amiche. Ora invece, giustamente, si parla di Giornata internazionale delle donne, con un significato diverso, perché l’8 marzo deve ricordare i diritti delle donne, e non parliamo più di ‘Donna’ al singolare (con la maiuscola), ma di ‘donne’, perché le donne sono tante, diverse, non c’è un’entità unica.
Sottolineare punti di partenza o di vista diversi non deve essere inteso come svalorizzare il femminismo come teoria di fondo, come inesistente: l’unità è quella degli intenti, i diversi punti di vista non devono appiattirsi sul pensiero unico, che è proprio quello che non vogliamo. Il pensiero unico ha portato alla definizione di ‘Uomo’ (con la maiuscola) – spesso però utilizzato in modo inclusivo anche senza maiuscola – un falso neutro che pretende di comprendere uomo e donna, una declinazione al maschile che purtroppo si trova anche nell’articolo 2 della Costituzione repubblicana (redatta quando non c’era nella lingua la sensibilità che c’è ora) e che non può essere modificata: La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo: occorre l’articolo 3 per sottolineare “senza distinzione di sesso”.

Luisa Muraro in una fotografia scattata presumibilmente
nei primi anni Duemila (Armando Rotoletti)

Mettendo insieme questi discorsi paralleli, sono d’accordo con il declinare al plurale, dunque con ‘femminismi’. D’altra parte, la mia formazione risale al ‘pensiero della differenza’: ricordo gli incontri da studente universitaria alla Libreria delle donne di Milano, in particolare, e con grande piacere, quello con Luisa Muraro che, in quell’occasione, accompagnava Luce Irigaray; il rapporto con Silvia Vegetti Finzi, con la quale mi sono laureata nel 1981 con una tesi su Freud (definita “un settimo grado” al filosofo: si può leggere qui https://vitaminevaganti.com/2020/04/18/la-tesi-nel-cassetto-maternita-e-sessualita-in-freud/). In tedesco, infatti, termine Kinder è neutro, e per quasi tutta la sua vita Freud fu convinto di parlare sia per il bambino che per la bambina, soltanto nel 1931 scrisse Sessualità femminile, un saggio nel quale la donna è definita “un continente nero” ancora tutto da scoprire; il fondatore della psicoanalisi si rese allora conto di aver analizzato solo lo sviluppo sessuale infantile del maschio, mentre lo sviluppo sessuale delle bambine è completamente diverso.

Silvia Vegetti Finzi in un fermo immagine dell’intervista rilasciata a Luca Mazzucchelli
nel settembre 2015

Per rispondere, poi, alla parte della domanda su unità/pluralità, l’unità deve essere possibile ai fini di un obiettivo comune, l’obiettivo della visibilità delle donne in ogni ambito: l’invisibilizzazione delle donne è una violenza culturale (ed è per questo che mi sono innamorata di Toponomastica femminile sin dalla sua nascita, quando fu fondata come associazione da Maria Pia Ercolini, constatando nella toponomastica delle città italiane la stragrande preponderanza di nomi maschili, come se non vi fossero donne benemerite nella società, perché considerate dedite al proseguimento della specie dal punto di vista biologico e non al miglioramento sociale). Allo stesso modo non mi è mai piaciuto il termine ‘persona’, che designa l’essere umano nella sua indifferenziazione (ed è un termine che deriva dalla lingua latina, nella quale significava ‘maschera’), che nasconde la differenza o la fa emergere in modo artificioso. Il linguaggio è un evidenziatore: basti pensare che in italiano è consolidato l’uso dei vocaboli ‘infermiera’ e ‘cameriera’, quando gli epiceni ‘infermiere’ e ‘cameriere’ non richiederebbero la declinazione al femminile, ma si tratta di parole che rinviano ai concetti (femminilizzati) di cura e servizio; al contrario, però, non è accettato l’uso, per esempio, di ‘ingegnera’…


Negli anni Novanta è parso che l’essere femministe fosse diventato un disvalore. Perché?
A questa domanda ha risposto bene Monica Lanfranco nel suo libro Letteralmente femminista. Perché è ancora necessario il movimento delle donne, del 2009. Monica Lanfranco è una delle donne che per me sono state un faro, con Silvia Vegetti Finzi, Luisa Muraro, Lidia Menapace, le filosofe di Diotima… Lanfranco sostiene che negli anni Novanta le giovani hanno ritenuto che i diritti conquistati negli anni Settanta (la riforma del diritto di famiglia è del 1975), fossero ormai consolidati, hanno perso il senso della conquista, se li sono goduti; seguendo il riflusso degli anni Ottanta, nell’ambito di questa tendenza, hanno ritenuto che ormai le pari opportunità fossero date, che le ‘vecchie’ che ancora sbraitavano lo facessero quando non c’era più la necessità di farlo. Le giovani di quegli anni erano figlie di un tempo in cui i diritti apparivano sicuri, erano condizionate a non vedere ciò che inferiorizza le donne, certo non solo nella toponomastica, ma per esempio anche nei libri di testo. Riguardo alla filosofia, che ho insegnato per anni, nei manuali erano menzionate due o tre filosofe, e con la collega Maria Grazia Borla ci facevamo da noi libri di testo paralleli, nei quali trovavano spazio Maria Zambrano, Simone de Beauvoir, Ágnes Heller, pensatrici che hanno dato molto al discorso culturale ma non presenti a livello divulgativo (lo è, al massimo, Hannah Arendt). Dove ha sbagliato la mia generazione? È importante che ci siano tante voci che si uniscono.

Monica Lanfranco in una fotografia scattata a Genova nell’ottobre 2023, in occasione della presentazione del suo libro Mio figlio è femminista. Crescere uomini disertori del patriarcato (archivio Monica Lanfranco)

Si afferma ora il cosiddetto ‘femminismo neoliberale’, che si traduce in un trionfo dell’individualismo, nell’affermazione di diritti e opportunità per sé sola, non per tutte… Che ne pensi?
Il concetto di ‘classe’ è importante da prendere in considerazione: a fronte di donne che appartengono a classi sociali benestanti e privilegiate, ce ne sono altre che hanno minore cultura e alfabetizzazione, minore possibilità di viaggiare e di istruirsi. L’assunto del femminismo neoliberale è che se alcune ce l’hanno fatta, ce la possono fare tutte: non è così. Ai miei tempi, da Sant’Angelo Lodigiano (in cui sono nata e in cui abito) due sole adolescenti in tutto il paese si sono trovate a Lodi a frequentare la quarta ginnasio, il primo anno del liceo classico, la scuola dell’élite: una ero io. La normalità era che le donne della piccola e media borghesia non proseguissero gli studi (qui un piccolo racconto della mia infanzia: https://vitaminevaganti.com/2024/03/09/stla-fe-studia-da-fa-chla-gha-da-spusas/). Per riuscire occorrono aspettative e studi adeguati, famiglie disposte a investire sulle figlie femmine. È una questione dinastica, e lo è anche in politica: le donne che riescono sono figlie di, madri di, mogli di, ed è in questo entourage che hanno potuto acquisire lavori di eccellenza. Il fatto che chi è arrivata dica “Come ce l’ho fatta io, ce la possono fare tutte” non è vero. La donna che vuole emergere di norma non è valorizzata, è un soggetto eccentrico che danneggia la società. Le donne che si affermano sono capaci, intraprendenti, in gran parte meritevoli, ma è l’ambito sociale di appartenenza che ha aperto loro la via. Spesso, poi, quelle che arrivano si fanno chiamare al maschile: questo significa che il “potere” nella mentalità comune è maschile. Un’avvocata non si declina al femminile sul proprio biglietto da visita, sceglie invece la dizione maschile ‘avvocato’ consapevole che i clienti, se la percepisse come donna, difficilmente le darebbe lavoro. Nell’inconscio la donna rimane “mobile qual piuma al vento” del Rigoletto, ossia instabile, inaffidabile. Non è un caso che la presidente del consiglio abbia scelto di essere chiamata “il premier”, perché il maschile è lo specchio del potere. E questo è terribile, perché riguarda l’ambito del simbolico, ed è ciò che ci condiziona nelle scelte, senza che ce ne rendiamo conto. Per non parlare delle pubblicità sessiste e dell’oscuramento delle presenze femminili negli eventi culturali

A partire dagli anni Dieci del Duemila si assiste a un ritorno del femminismo tra le giovani donne (vedi Non Una Di Meno). Quali le ragioni?
Secondo me questo ritorno è molto legato al tema della violenza contro le donne, corrisponde al periodo in cui entra in auge il termine ‘femminicidio’, utilizzato nel 2004 dall’antropologa messicana Marcela Lagarde con lo scopo di attirare l’attenzione politica sulla drammatica situazione vissuta dalle donne in Messico, in particolare nella zona di Ciudad Juárez, poi nel 2007 in una Risoluzione del Parlamento europeo sugli assassinii di donne in Messico e America Centrale, ripreso nel 2011 dalla Convenzione di Istanbul, sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.
I femminicidi ci sono sempre stati, come la violenza contro le donne in quanto donne, spesso donne di famiglia, donne legate affettivamente, la loro impossibilità a dire di no, perché considerate proprietà; alcuni uomini considerano inaccettabile il fatto che le donne si vogliano sottrarre al loro amore (e del resto i postriboli rispondevano alla stessa logica, erano luoghi ove gli uomini potevano dare sfogo ai propri istinti). Il movimento di Non Una Di Meno, partito dall’Argentina, ha espresso una nuova consapevolezza legata al tema della violenza contro le donne: una violenza non solo fisica, ma anche psicologica, economica, culturale. Le giovani donne si sono rese conto di come tanti aspetti dell’essere ‘il secondo sesso’ le portassero a essere vittime della violenza maschile.

È possibile, a tuo parere, accomunare donne (e persone non binarie) di diverse comunità, culture, classi sociali sulla base di una piattaforma comune? Per intenderci, dall’Iran all’Afghanistan, dagli Stati Uniti all’Italia?

Elena Gianini Belotti in una fotografia di autore non noto
scattata presumibilmente negli ultimi anni del Novecento

Mi ha sempre dato un fastidio terribile l’espressione “donne, vecchi e bambini” (penso anche al libro di Elena Gianini Belotti Prima le donne e i bambini, del 1998, di critica al cosiddetto concetto di cavalleria…). Esprime una falsa concezione di protezione nei confronti delle donne, quasi le donne fossero una minoranza che ha bisogno di aiuto: come afferma Monica Lanfranco, che a sua volta cita Robin Morgan: «Non si tratta di una minoranza oppressa che si organizza su questioni valide ma pur sempre minori. Si tratta della metà del genere umano che afferma che ogni problema la riguarda, e chiede di prendere parola su tutto. Il femminismo è questo».
Siamo passate dal parlare di femminismo al parlare di femminismi, ma non si tratta, appunto, di minoranze che hanno bisogno di protezione, è un discorso di diritti e di riconoscimento, che vale per le donne, per tutte le donne. Luce Irigaray sosteneva la necessità di partire dal due e di nominare le donne; d’accordo se ci sono gruppi che usano lo schwa perché non si riconoscono né nel maschile né nel femminile, ma per parte mia vorrei far emergere le differenze nel loro bene (esistono, comunque) e nel loro male (se non sono riconosciute, non è possibile far valere i propri diritti), ma se ci si confonde con il tutto avrà sempre più forza ciò che ha più potere, e questo è il maschile.
La prima ondata del femminismo fu quella emancipazionista delle suffragette; la seconda quella degli anni Settanta; la terza quella del pensiero della differenza, che rivendicava non tanto l’uguaglianza, ma una soggettività diversa. Siamo arrivate al momento in cui per legge vi sono pari opportunità, alcune acquisite tardi, ma comunque ci sono; non c’è però l’applicazione delle pari opportunità (ormai un’espressione superata), ora occorrono politiche di genere.
L’intersezionalità consente di concretizzare le differenze; le politiche di genere devono mettere in pratica ciò che la legge ha consolidato.

Luce Irigaray in una fotografia di autore non noto
scattata presumibilmente negli ultimi anni del Novecento

Femminismo/femminismi: mi chiedo se sia opportuno (e strategico) privilegiare ciò che divide e distingue (che pure non nego e a cui riconosco legittimità) rispetto a ciò che unisce e accomuna. Che ne pensi?
È importante sottolineare le differenze, che sono reali, ma non evidenziarle allo scopo di “rimanere nel proprio orticello” e con la triste conseguenza di non lavorare insieme; occorre invece privilegiare i valori, cercare i punti comuni per lavorare insieme. Fare rete è fondamentale: questo è quello che i femminismi dovrebbero imparare a fare: condividere per darsi forza a vicenda.

Quali sono state le ragioni profonde e quale l’occasione spinta che ti hanno portato al femminismo?
Risponderò con il titolo del libro che non scriverò mai e che non ho nel cassetto: A cinque anni ero già femminista, ma non lo sapevo ancora. Quando mia madre era incinta di mio fratello, vedevo il mondo della mia famiglia felice del fatto che finalmente sarebbe nato il maschio. Il detto è “Auguri e figli maschi”.Il film Speriamo che sia femmina di Mario Monicelli è venuto molto più tardi, nel 1986, e ha segnato un cambiamento di prospettiva. Quando poi sono arrivata all’università a Pavia, a metà degli anni Settanta, ho letto Il secondo sesso di Simone de Beauvoir «Ahhh!!! Ecco perché…», mi sono detta.

Simone de Beauvoir in una fotografia scattata nel 1957 (Irving Penn)

Io non ho mai voluto rinnegare che fossi una donna che voleva avere una famiglia, avrei potuto avere una carriera nella ditta mio padre, ma avevo capito che volevo volgermi a un ambito che valorizzasse il mio pensiero, dunque ho scelto filosofia e, come ho ricordato, mi sono laureata con una tesi su Freud, che, pregno della cultura greca e aristotelica, considera la donna un uomo mancato, inaffidabile perché preda delle passioni, incompleta se non diventa madre, soggetta, nella sua ‘originale’ teoria, all’invidia del pene, che supererà soltanto partorendo un figlio maschio.

Quale istanza vorresti fosse prioritaria nel femminismo, nei femminismi?
Che le donne siano soggetti, libere, indipendenti, valide per sé stesse. Fino a non molti anni fa, le donne sposate dovevano acquisire il cognome del marito perdendo il proprio: una discriminazione forte. Così come quella che sia il padre e non la madre a dare il cognome a figli e figlie.

Come vedi il futuro per i diritti delle donne e delle persone non binarie?
Lo vedo come una strada in salita, negli ultimi tempi le regressioni sono state tante, penso agli attacchi alla Legge 194. Andando avanti di questo passo, è stato calcolato che raggiungeremo la parità di genere tra circa duecento anni. Tanta sensibilità sta cambiando, ma il potere è ancora saldamente maschile.

In copertina: Danila Baldo durante l’intervista rilasciata da remoto a Laura Coci il 25 marzo 2024.
La galleria fotografica di donne qui presentata costituisce una ideale linea matrilineare o, come si diceva negli anni Settanta, “di sorellanza”.

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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.

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