La tesi nel cassetto. Maternità e sessualità in Freud

Chissà quante di noi hanno nella loro libreria o nel cassetto una interessante tesi di laurea, realizzata con impegno e fatica, originale e ben curata, scritta per dare, come dice Umberto Eco nel suo Come si fa una tesi di laurea «il senso positivo e progressivo dello studio, non inteso come raccolta di nozioni, ma come elaborazione critica di una esperienza, come acquisizione di una capacità (buona per la vita futura) a individuare i problemi, ad affrontarli con metodo, ad esporli secondo certe tecniche di comunicazione».
Perché lasciare tali patrimoni di conoscenza e creatività a marcire nella cantina di una università? Certo, già a partire dai decenni scorsi, le conoscenze giuste e la possibilità di continuare a lavorarci ancora per alcuni anni (avendo appunto il tempo e la disponibilità economica per farlo, ciò che io non ho avuto) hanno portato alla pubblicazione di tesi, che sono poi talvolta diventate opere prime di una felice carriera intellettuale. Oggi, inoltre, con le infinite opportunità che la rete mondiale offre, tante tesi di laurea sono pubblicate sul web e offerte alla libera fruizione di studenti e pubblico interessato.
In questa prospettiva, allora ho pensato: anche Vitamine vaganti può dare l’opportunità di diffondere il proprio prodotto, di far conoscere il proprio punto di vista, a chi ha lavorato intensamente alla propria tesi di laurea, e che non è stata pubblicata a suo tempo e non è ancora apparsa nel web, ma è stata l’inizio di un interesse – nel mio caso, per esempio, sulla relazione tra maschile e femminile e sulla differenza di genere — portato avanti per tutto il cammino futuro.
Questa proposta, se apprezzata da lettrici e lettori, potrebbe diventare una rubrica che, una volta al mese, presenti una tesi di laurea, illustrata attraverso l’introduzione o in un abstract che ne faccia cogliere il senso e gli interessi coinvolti, e sia leggibile poi per intero, se l’argomento appassiona, in allegato. Chi desidera far “vagare” la propria tesi di laurea (o di perfezionamento o master) e arricchire chi voglia conoscere meglio quello specifico argomento, può inviarne richiesta a toponomasticafemminilelodi@gmail.com, mettendo come oggetto: “Tesi nel cassetto_cognome” (inserendo ovviamente nell’oggetto il proprio cognome) e facendone una piccola presentazione iniziale.
Nel mio caso, la tesi che ho deciso di far conoscere è Maternità e sessualità in Freud: relatore principale Fulvio Papi, docente di filosofia teoretica a Pavia, che – gossip di allora, correva l’anno 1981 –in un incontro di facoltà ammise di “vergognarsi” a presentarne l’argomento, ridacchiando e lasciando la parola alla correlatrice, Silvia Vegetti Finzi. La tesi fu definita, nella seduta di laurea, un settimo grado a Freud! Lo accusavo (ma lo aveva riconosciuto lui stesso nell’introduzione a La sessualità femminile, pochi anni prima di morire) di non aver mai preso in considerazione la psicologia, il vissuto, la condizione femminile nella sua specificità…di aver voluto attuare solo un approccio di tipo psicoanalitico al maschile e al femminile come modalità psichiche dell’essere, definendo attivo il maschile e passivo il femminile; di aver affrontato lo sviluppo sessuale del bambino (kind in tedesco, genere neutro!) come se ciò valesse pari pari anche per la bambina, capovolgendo i fattori simmetricamente: nel Complesso di Edipo, basterebbe mettere il padre al posto della madre e i giochi sono fatti. Inutile, litigò con Jung, introdurre un Complesso di Elettra! E invece, confessò Freud nel 1931 (morirà nel ’39) la sessualità femminile restava un “continente nero” ancora tutto da esplorare. La sessualità femminile era stata, fase dopo fase, raffrontata a quella maschile, e studiata e analizzata solo nella sua analogia e simmetria con essa, come suo “negativo”, senza che se ne cogliesse, quindi, una sua positiva specificità.
Nella tesi, analizzando i diversi testi freudiani, ci si pongono alcune domande di fondo: perché la maternità non viene studiata come fase sessuale e non rientrano nella teoria fenomeni sessuali quali il concepimento, la gravidanza, il parto e altri, con l’importante conseguenza che non vengono ricercate le elaborazioni inconsce femminili nei loro confronti? Si legge nell’introduzione: «La sessualità, anche femminile, viene analizzata fino al momento in cui si instaura una vita sessuale “normale”, in cui il maschio assume il ruolo attivo di detentore del pene e fecondatore e la femmina il ruolo passivo di ricettacolo del pene e del seme. La maternità, trascurata teoricamente, come sessualità femminile, assume i suoi significati dalla figura della madre, socialmente attiva verso il suo bambino. Quando nella teoria compare la madre, attiva, scompare la donna, che per essere donna e diventare madre aveva dovuto far sua una sessualità passiva».
«L’aver tralasciato nella teoria i vari momenti sessuali legati alla procreazione, l’esser passati cioè dal coito a un bambino già nato, sorvolando completamente sulle esperienze femminili inerenti la maternità, porta a un vuoto significativo riguardante una buona fetta di immaginario femminile».
«Forse, se la teoria freudiana non avesse seguito un modello di sviluppo maschile, se fosse giunta a prendere in considerazione anche il corpo della donna e le sue possibilità, il suo immaginario femminile e le sue fantasie, le conseguenze sarebbero state rilevanti soprattutto a livello della teoria delle caratteristiche psichiche dei due sessi, dove l’attività non sarebbe più stata denominata “maschile” anche se presente in una donna e la passività “femminile” anche se presente in un uomo. Cambiando prospettiva, si potrebbe riconoscere l’attività non solo nell’elemento maschile perché detentore del pene, ma anche nell’elemento femminile, perché detentore del potere creativo fondamentale. Tuttavia è stato quest’ultimo a non essere mai stato riconosciuto come un potere nella cultura, forse proprio perché temuto dall’uomo che è sempre riuscito a relegarlo in altre sfere (o divine o animali, a seconda delle concezioni), e a tenerlo sotto controllo nella società umana».
Freud, per tanti altri aspetti un innovatore (come si va anche ricercando nella tesi, rispetto alla sessualità infantile; all’inconscio; all’interpretazione scientifica dei sogni…), in questo è stato figlio dei suoi tempi? Di tutta una tradizione filosofica, plurimillenaria, androcentrica e patriarcale? (Per Freud patriarcale lo era per definizione: basti leggere il suo scritto più antropologico: Totem e tabù). Una risposta significativa si trova nelle elaborazioni di Jean-Joseph Goux, che risale agli inizi storici della filosofia greca, alla «primaria scissione del simbolico che contrappone ciò che è forma (o idea, valore, senso) a ciò che è materia, cioè “l’altro variabile e indeterminato della forma o del valore”».
Andare oltre vuol dire, seguendo Silvia Vegetti Finzi, riconoscere che «il corpo della donna possiede, analogamente a quello maschile, un suo fantasma originario di unità, al quale, solo successivamente (con un processo tutto da ricostruire) si sostituisce il fallo. Come l’uomo evoca, nel significante fallico, ciò che potrebbe positivizzarlo, annullando ogni mancanza, così la bambina presentifica un’imago di pienezza che si esprime nella forma del corpo pregno».
La via più utile, anche per raggiungere una migliore comprensione della psicologia della donna, ci è sembrata quella di individuare, all’interno del discorso freudiano, quegli elementi che sono chiaramente la prosecuzione di una linea ideologica millenaria nei confronti della donna e che più si prestano a un travisamento ideologico. Questi elementi hanno voluto essere ricercati, all’interno della costruzione freudiana, per studiarne le cause, tenendo presente, però, che non necessariamente invalidano il tutto. Infatti «Juliet Mitchell, appartenente al Women’s Liberation Workshop londinese, in uno studio volto a richiamare l’interesse e l’attenzione sulle opere freudiane, criticate negativamente, ma soprattutto, secondo lei, non ben studiate e capite da molti autori impegnati nella questione della femminilità, afferma che le teorie di Freud riguardanti la sessualità, se giustamente comprese e collocate nell’ambito di tutta la dottrina psicoanalitica, rivelano lo scopo non di favorire o di aiutare il permanere di una società patriarcale, ma di analizzare i complessi meccanismi psicologici che operano fra gli individui e negli individui all’interno di essa. Per cui riallacciarsi alle analisi freudiane è essenziale, secondo Mitchell, per apprendere in che modo si forma l’oppressione della donna in questo tipo di società; e poi, in un secondo tempo, dopo averla ben colta nei suoi aspetti inconsci che ne perpetuano inconsciamente il modello, generazione dopo generazione, anche combatterla, se possibile. Temi quali l’invidia del pene, o la teoria del super-io, o i continui riferimenti al padre, non dipendono, dunque, da sciovinismo maschile o da limitatezza intellettuale da parte di Freud, ma sono i giusti punti focali di comprensione e spiegazione della cultura patriarcale, e di ogni cultura, visto che per Freud l’inizio della civiltà umana coincide con il sorgere del patriarcato, inteso come legge del padre».
«Per Mitchell il compito è quello di rovesciare il patriarcato, dimostrare caduca la natura “immortale” della cultura patriarcale; ma per compiere questo è essenziale rivalutare la componente femminile della personalità, sottrarla al linguaggio-potere maschile che la definisce e la struttura secondo una sua concezione, per i propri bisogni; abbattere i miti maschili che negano alla sessualità femminile l’ingresso nella cultura e la relegano nel regno animale, per paura della potenza creatrice ad essa connessa».
E in conclusione: «Perché non far derivare il fallocentr1smo della cultura, da sempre dominio maschile, da una primordiale invidia, con conseguente paura e desiderio di rimozione, nei confronti degli attributi materni e femminili, in particolare verso la potenza creatrice della donna? Certo, per compiere questo rovesciamento di prospettiva, occorre sottrarsi all’ottica fallocentrica, scoglio che Freud non superò».
La tesi ottenne la lode e ne fui felice, perché era stata un azzardo, non era una trattazione “tradizionale”, ma una tematica lontana dalle vie più sicure degli argomenti accademici già tracciati con abbondanza di libri e pubblicazioni. Come non aveva interessato Freud, così non interessava molto al mondo universitario un tema come la maternità, nell’ambito della Filosofia teoretica! Che rimanesse relegato nella biologia, nella medicina, nella psicologia della diade, al massimo nelle scienze sociali…ma in filosofia! Scandalo e imbarazzo. E invece a me interessava proprio questo: non vedermi come madre che finalmente completa il suo essere e realizza la sua finalità di procreatrice e compie al meglio il suo destino, ciò per cui è stata creata (come tutta l’educazione fino ad allora ricevuta mi insinuava), ma come donna pienamente realizzata come essere umano da sempre, che ha già inscritta in sé la maternità come parte inscindibile del suo essere, a cui la maternità attuata né toglie né aggiunge nulla di essenziale, è principalmente un’esperienza in più: grande, fondamentale, basilare…che non deve però diventare né pretesto per ingabbiarla in un destino biologico già tracciato (Simone De Beauvoir: donne si diventa) né privilegio idealizzato per sancire su di lei il dominio maschile (Michela Murgia: e la Chiesa inventò la donna).

La tesi è integralmente consultabile nel sito di Toponomastica femminile, al seguente link: https://toponomasticafemminile.com/sito/images/eventi/tesivaganti/pdf/61_Baldo.pdf

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Articolo di Danila Baldo

DANILA BALDO.400x400 NON TROVATA-1Docente di filosofia e scienze umane, coordina il gruppo diade e tiene corsi di aggiornamento per docenti. È referente provinciale per Lodi dell’associazione Toponomastica femminile; collabora con l’UST e il Comune di Lodi sui temi delle politiche di genere, con IFE-Iniziativa Femminista Europea e con Se non ora quando? È stata Consigliera di Parità provinciale dal 2001 al 2009.

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