Ah, natura, natura…

Nel crepuscolo della società aperta sono tanti i campanelli d’allarme, gli esempi di un’umanità che invoca la natura per tornare a definire, a disciplinare, a imporre l’ordine dei corpi. Stabilire ciò che è “naturale” e ciò che non lo è torna l’argomentazione ultima per stabilire ciò che va ritenuto accettabile.
Quanti scempi in nome della natura! Quanti ancor oggi sostengono fenomeni sociali in nome di leggi naturali! Nel 1869 il dottor Bushnell, un teologo protestante del Connecticut, scrisse un trattato dal titolo emblematico: «Il voto alla donne: la rivoluzione che va contro natura».
La fallacia naturalistica (definizione di George Edward Moore) è il percorso logico di chi sostiene che qualcosa è buono o giusto perché è naturale ossia, analogamente, che qualcosa è immorale perché non accade in natura (o lui pensa che non accada).
La migliore risposta agli argomenti che si basano su questo paradigma è stata data già più di un secolo e mezzo fa da John Stuart Mill, che nel suo scritto Sulla natura ricordava che: «L’essere conforme alla natura non ha alcuna connessione col giusto o l’ingiusto. Non si può mai introdurre in modo appropriato l’idea della conformità alla natura in alcuna discussione etica».
Creare l’altro/l’altra per natura consente un trattamento di dominio nei confronti di tali gruppi, che contraddice sostanzialmente i diritti della cittadinanza, pur senza intaccarli sul piano formale. In sintesi, ci sarebbero modi precisi, dati e definiti una volta per tutte perché “naturali”, di essere uomini e donne e di rapportarsi; tutto il resto sarebbe corruzione ideologica, perversione morale.
All’interno dello spazio pubblico definito dal linguaggio brutale di quella contrapposizione, alcuni soggetti sviluppano caratteristiche necessarie per rientrare nella categoria degli individui con caratteri “naturali” mentre altri, classificati come irregolari e “diversi”, sono patologizzati, inferiorizzati, marginalizzati, o addirittura esclusi, perseguitati.
Di fronte a queste pretese verità assolute, così congeniali all’ordine costituito, ogni volta che si intravvede un cambiamento si genera una resistenza. Si dice che la diversità è una ricchezza, ma come tale la si considera solo fino a quando non instilla il timore di una possibile, per quanto confusa, minaccia.
Una traiettoria simile vive il termine ‘normalità’. Se vediamo di continuo qualcosa, se fin dalla nascita abbiamo visto solo quella cosa, essa ci pare “normale” (perché è maggioritaria o perché è consueta?).
Che accade a ciò che si definisce ‘anormale’? Si norma.
Tra noi e il piacere che il nostro corpo può darci si ergono limiti, barriere e imperativi. La fisicità umana esce allora dalla biologia per diventare morale, evocare scelte etiche, richiamare giudizi divini.
La società con questa giustificazione proibisce, punisce, indirizza, bracca e incanala istinti e desideri; polarizza, definisce la correttezza dei comportamenti in modi opposti e/o complementari, con i segni da esibire e le immagini da produrre; accentua le differenze; scotomizza le similitudini, fino a creare due diverse subculture e solo quelle, occultandone la natura relativa.
Tutto l’impianto simbolico si fonda sul rigido e imperativo determinismo che impone coerenza tra sesso, genere e orientamento sessuale: ogni indebolirsi – anche supposto – dello schema è temuto come disordine; spaventa e sconvolge perché intacca un’impalcatura potente e antica (‘degenere’ può essere usato in modo ampio ma originariamente significa fuori dalle norme di genere). La perdurante, diffusa confusione tra identità di genere e orientamento sessuale è voluta e spesso incentivata,
in modo da far rientrare ogni essere umano nella gabbia della categorizzazione binaria e delle sue regole. Le dicotomie costruiscono camicie di forza, sfornano esclusioni. L’affermazione di una visione dualistica ha lo stesso scopo degli stereotipi e dei pensieri automatici e li fonda: cerca di rendere ordinata e semplice, quindi prevedibile e controllabile, una realtà complessa.
Scardinare un’intera epistemologia permette di riesaminare criticamente premesse e parametri di una cultura. Si comincia col denaturalizzare lo storico, dubitare dell’ovvio… e si arriva a ridiscutere l’inerzia del senso comune.
Con questa locuzione intendiamo sia un dispositivo concettuale sia un sistema di conoscenze cui gli individui attribuiscono una realtà e in cui investono una certa porzione di fiducia. Esso si basa su convinzioni condivise ma non necessariamente dimostrate; si modella non sui dati ma sulla chiacchiera ordinaria. Frasi ripetute quotidianamente e comportamenti reiterati sistematicamente diventano verità, secondo l’illogica regola del “ciò che è frequente, è vero” (lo dicono tutti/e, lo fanno tutti/e, lo pensano tutti/e, lo credono tutti/e).
Tramite il senso comune non si può apprendere come stanno le cose: si può solo scoprire qual è il loro posto nello schema esistente delle cose. Il problema è che si scambiano i due piani. Le domande che lo mettono in discussione sono “prive di senso”; le persone che se ne discostano sono “dissennate”.
Sono il rifiuto che oppone a esaminare i princìpi su cui è fondato, la sua resistenza ai cambiamenti o alle correzioni, il suo effetto di riconoscimento immediato, che rendono il senso comune apparentemente spontaneo.
Fare e pensare ciò che è abituale ci dà un senso di falsa sicurezza. Non vogliamo storie nuove ma storie che conosciamo, al massimo con piccole variazioni. Siamo come bambine/i che esigono la reiterazione, che è la base della narrazione orale.
L’ignoto e l’inconsueto destabilizzano: per questo ci immunizziamo nei confronti di tutto ciò che può mettere a repentaglio l’insieme di opinioni che si è radicato nel tempo in noi, venendo a costituire la base dell’agire e del pensare quotidiano,
il mondo che ci è familiare.
Perché non si mette un argine al dilagare del senso comune?
I motivi sono multipli e intrecciati. Innanzitutto c’è la questione del potere: uno dei modi per mantenere le persone nell’obbedienza è suscitare la paura dell’ignoto. Accanto a un’inefficiente istruzione scolastica che dovrebbe fornire i metodi di discernimento, le nozioni culturali di base, l’abitudine al senso critico, troviamo poi una regola emozionale per cui la condivisione crea comunanza, partecipazione a un gruppo. Invalidare un luogo comune significherebbe, oltre che dover disporre di notevoli informazioni e capacità argomentative, mettere a rischio il sostegno del gruppo.
Fare scelte condivise e collaudate rende forse la vita più facile, certo non più interessante.

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Articolo di Graziella Priulla

Graziella Priulla, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nella Facoltà di Scienze Politiche di Catania, lavora alla formazione docenti, nello sforzo di introdurre l’identità di genere nelle istituzioni formative. Ha pubblicato numerosi volumi tra cui: C’è differenza. Identità di genere e linguaggi, Parole tossiche, cronache di ordinario sessismo, Viaggio nel paese degli stereotipi.

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