Sabato 8 giugno si è tenuto a Roma il Romapride 2019 un’edizione particolarmente ricca di ricorrenze e anniversari, infatti si festeggiava il venticinquesimo dal primo Roma-Pride e soprattutto il cinquantesimo anniversario dei moti di Stonewall che tra la notte del 27 e 28 giugno del 1969 a New York videro la nascita del movimento di liberazione gay in tutto il mondo, e proprio per questo giugno è il mese dei Pride.
“Nostra la storia, nostre le lotte” questo lo slogan degli organizzatori del Pride che sono riusciti a coinvolgere quasi 700.000 persone, 200.000 persone in più dell’anno scorso, che hanno sfilato, cantato e ballato, da Piazza della Repubblica fino a Piazza Venezia, passando per Termini, La Basilica di Santa Maria Maggiore e il Colosseo (lottando con la burocrazia comunale per poter passare da lì). Davvero un ottimo risultato.
I numeri, le date, le ricorrenze sono importanti perché ci collocano nel reale, rendono oggettivo un evento, ma non raccontano tutto, non ci aiutano a diramare la nebbia che avvolge il Pride chiamato impropriamente gaypride, la cui concretezza umana ed emotiva si perde, filtrata com’è da lenti ideologiche e propagandistiche che vedono in esso l’emblema della degenerazione della morale sessuale, l’apologia di una fantomatica “teoria gender”, qualcosa di pericoloso e deviato al peggio e al meglio qualcosa di troppo chiassoso e soprattutto poco sobrio… insomma una carnevalata.
Per raccontare che cos’è davvero il Pride porterò un punto di vista assolutamente parziale, e quindi per paradosso assolutamente veritiero, la mia esperienza soggettiva, il racconto del mio primo Pride.
Io faccio parte di un’associazione sportiva gay-friendly chiamata Outsport a cui è affiliata una squadra di calcetto Lupi Roma che include chiunque a prescindere dal proprio genere e orientamento sessuale, ed è proprio con i miei compagni e compagne di squadra che ho partecipato, sventolando le bandiere di Outsport, della nostra squadra e quella arcobaleno. Siamo andati lì come calciatori con la nostra divisa granata e le decorazioni che ognuno di noi più preferiva per l’occasione. Insieme al Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli ad altre associazioni sportive inclusive come Libera Rugby, Roman Volley, il Gruppo Pesce Roma, Gace Tennis e Queer Tango Roma eravamo in testa al corteo, purtroppo lontani dalla parte più affollata e festante in coda ai carri, ma orgogliosi di guidare in un certo senso il corteo.
Che cosa ho visto al Pride?
Di tutto. Prima dicevo che è improprio chiamare il Pride, gaypride, in quanto i gay ovviamente ci sono, ma sono lì accanto alle lesbiche, ai/alle bisessuali, ai/alle transessuali, agli/alle asessuali, agli/alle intersessuali e a tantissime e tantissimi eterosessuali. La festa di tutte e tutti, la celebrazione della diversità, dell’uguaglianza nelle differenze. Questo è il Pride.
Il Pride non è sobrio per definizione, ammesso che si capisca bene cosa sia questa sobrietà? Se un valore di moderazione, o il desiderio della maggioranza di imporre alle minoranze un freno a chi minaccia la supposta staticità e fissità del proprio modello culturale e sessuale di riferimento. Una moderazione che vale per gli altri non per sé stessi quando si manifesta per altre cause, una vera e propria ipocrisia.
In realtà non saprei dire se il Pride è davvero così contrario alla “sobrietà” o meno. Ho visto di tutto: dalle persone seminude, agghindate, travestite, dalle Drag-Queen alle vecchiette pronte per la messa domenicale (una di loro ballava più di tutte), da chi vestiva con la divisa di calcetto e i tacchi a spillo (un nostro caro compagno di squadra), a tante famigliole con mamma, papà e prole, sì proprio le “famiglie tradizionali” a festeggiare insieme agli altri tipi di famiglia.
Camminando sotto il cocente sole di giugno insieme ad altre 700.000 persone ho capito che il Pride unisce tante volontà individuali, ognuna con i propri sogni e progetti specifici, col proprio vissuto unico e mai incasellabile in uno stereotipo, verso un obiettivo comune emergente chiaro e nitido: la liberazione sessuale, la decostruzione, la presa in giro e la ricostruzione personale vera e sentita dei modelli di maschio e femmina precostituiti, la liberazione dei ruoli di genere, la liberazione dalle catene ideologiche e per lo più patriarcali che ci ingabbiano.
Quello che ho visto dietro i numeri e le vie, i vestiti, le bandiere e le canzoni, sono tantissime persone, ognuna diversa dall’altra ognuna col proprio volto, libro aperto di storie e narrazioni a non finire, insieme lì, per lottare non solo per l’acquisizione di qualche diritto specifico in più ma per proteggere la libertà di tutte e tutti di poter essere sempre semplicemente sé stessi.
Questo è quello che ho vissuto e visto al mio primo Pride.
Foto e articolo di Antonio Clemente
Docente di Italiano, storia e geografia, appassionato di Linguistica e Didattica, laureato magistrale in Letteratura italiana, Filologia moderna e Linguistica. Ho una seconda Laurea magistrale in Scienze dell’informazione, della Comunicazione e dell’Editoria. Cofondatore di Vitaminevaganti e Responsabile del progetto editoriale di Vitamineperleggere.