Greta Garbo, o il fascino dell’indefinibile

Greta Lovisa Gustafsson (Stoccolma, 18 settembre 1905 – New York, 15 aprile 1990), nata in una famiglia povera, alla morte del padre, a soli 14 anni, lasciò gli studi per lavorare in un grande magazzino, dove, notata per la sua bellezza, comparve presto in almeno due pubblicità, poi fu scelta per piccole parti cinematografiche, quindi vinse una borsa di studio presso l’Accademia di Svezia e iniziò a studiare recitazione teatrale.

Dopo vari film con registi svedesi, fra i quali il primo con un ruolo di rilievo fu  quello tratto dalla Saga di  Gösta  Berling, capolavoro della letteratura svedese, I cavalieri di Ekebù, fu notata a Berlino da Luis B. Mayer, che la volle nella Mgm. Trasferitasi a Hollywood (aveva già cambiato all’anagrafe svedese il nome di nascita) esordì nel 1926 in Torrent, con cui colse un successo che crebbe con altri film in cui recitava sempre ruoli di donna fatale, che tuttavia l’attrice non tollerava. Il suo esordio nel sonoro avvenne nel 1930, con Anna Christie di Clarence Brown. La Mgm per anni aveva frenato la richiesta dell’attrice di recitare col recente sistema, temendo che l’accento svedese di lei sarebbe spiaciuto al pubblico. Ma i timori della casa cinematografica si rivelarono infondati: Garbo fu persino candidata all’Oscar come migliore attrice, e pur se non vinse, la sua carriera conobbe la svolta decisiva, con una successione di film che ogni volta ampliavano e approfondivano l’ammirazione del pubblico e le lodi della critica: Mata HariGrand HotelLa regina Cristina, Maria Walewska, Come tu mi vuoiAnna Karenina, in cui interpretava personaggi intensi, misteriosi, drammatici.

Ma Garbo aspirava a nuove modalità espressive attraverso la commedia cinematografica, che negli Usa già stava dando in quegli anni prove straordinarie. E finalmente, nel 1939, arrivò il momento in cui la divina “fata severa”, come la chiamò Fellini, nel film brillante Ninotchka, per la prima volta rideva, a lungo e a gola spiegata, in un contesto non elegante, né aristocratico, ma in un ambiente, popolare  e contemporaneo. Garbo ride, e di di gusto, in una modesta osteria frequentata da operai e ride con loro del suo elegante corteggiatore, che, prima imbarazzato, finisce poi per ridere di sé, conquistando, con l’autoironia, colei che fino ad allora non aveva conquistato con le raffinatezze.

Tuttavia, il genere brillante, che pareva dover essere un nuovo filone d’oro per la carriera della diva, pose le basi della sua uscita di scena. In Non tradirmi con me, del 1941, per la regia di George Cukor, Garbo interpreta due personaggi: una moglie tradita e la sua disinibita gemella, da lei inventata per attrarre di nuovo a sé il marito. Il film fu un fiasco, addirittura accusato di immoralità dall’arcivescovo di New York. La Divina non seppe accettare l’insuccesso e non lo metabolizzò mai, abbandonando definitivamente il cinema a 36 anni, malgrado per decenni si susseguissero le proposte di grandi registi per nuovi ruoli. Nel 1955, vinto l’Oscar alla carriera, neppure si presentò a ritirarlo.

Ma per il resto della sua lunga vita, trascorsa a New York, Garbo, non sappiamo con quale livello di consapevolezza, continuò a perpetuare il proprio mito, nascondendosi ai fotografi, negando qualsiasi intervista, ammantando di segretezza le proprie relazioni d’amicizia e d’amore, con uomini e con almeno una donna, restando così nell’immaginario della cultura occidentale come oggetto di un desiderio ambivalente, per la sua bellezza perfetta e androgina, sottolineata da un look elegantissimo e mascolino, ma in stoffe fluide e morbidissime, sullo schermo, ribadito fuori dalle scene fin dalla prima giovinezza (il look Garbo, appunto, che fece moda negli anni Trenta e Quaranta) e poi, con più durezza e trasandatezza, dopo il ritiro. Essere tanto più attraente, quanto meno esibito e offerto, come il tipo quasi sempre ripetuto del suo personaggio: sguardo profondo e lontano, volto attraversato da espressioni molteplici e sfuggenti, rapidissime; trattenuto nelle parole, non prevedibile nello slanciarsi e nel ritrarsi. Il mistero, come la durata del fascino che Garbo continua ad esercitare, stanno forse proprio nell’impossibilità di separare la donna che era stata dai personaggi che aveva interpretato: una confusione, meglio, una fusione che sembrò vivere lei stessa tra finzione e realtà.

Dopo la morte, Greta Garbo attuò la sua ultima fuga, disponendo per testamento di essere trasferita nell’isola natale, dove riposa, lontanissima da un mondo al quale sentì forse di non appartenere mai.

 

Articolo di Alba Coppola

Alba Coppola.FOTODocente di materie letterarie negli Istituti di istruzione secondaria di II grado. Italianista, ha lavorato per sette anni presso l’Università di Salerno per le cattedre di Letteratura Italiana e di Storia della Grammatica e della Lingua. Ha pubblicato su riviste specializzate, atti di convegni, quotidiani e riviste generaliste. Si è accostata da alcuni anni agli studi di genere con particolare riguardo alla toponomastica.

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