Narrazioni. La verità, poi, a cosa serve?

Roberta d’Albenzio ha frequentato l’ultima classe del Liceo Artistico San Leucio di Caserta. Ha partecipato alla sezione Narrazioni del Concorso Sulle vie della parità elaborando il racconto seguente, che ha ottenuto il Secondo Premio per le classi quinte, tra quelli giunti dal Centro-Sud. L’ha inviato la prof.ssa Nadia Verdile, referente del lavoro svolto nella classe VA. Senza titolo (quello indicato è nostro, e riprende le prime parole che seguono l’incipit ideato da Antonio G. Bortoluzzi), è però ampio e solidamente strutturato, con un protagonista ben caratterizzato.

Incipit n. 3, La verità poi, a cosa serve?

Alla fine mi è toccato guardarmi allo specchio. E giuro che non lo volevo fare. Avrei preferito girare po’ su Instagram, vedere che c’è di nuovo, o al limite scendere di casa e fare una corsa al parco: sudare mi ha sempre fatto bene, fin da bambino. Però lo specchio mi dice che se riuscissi a raccontare tutto, fino in fondo, sarei per una volta dalle parti della verità. 

La verità, poi. A cosa serve? Quando ce la sbattono in faccia, nuda e cruda, non l’accettiamo, vorremmo fosse qualcosa di diverso. Le cose stanno così: vogliamo semplicemente che le persone ci diano la conferma di ciò che pensiamo e quella, miei cari, non è la verità. Stamattina lo specchio non è stata l’unica cosa che ho cercato di evitare. Ieri sera ho dimenticato di chiudere la finestra e il garrire delle rondini è rimbombato per tutta la stanza facendomi svegliare: “Ma voi non avete niente di meglio da fare?”. Ho guardato l’orologio: le undici in punto, ancora troppo presto, oggi è domenica. Oggi è domenica, sì, e i miei non ci sono, di nuovo. Sempre troppo presi dal loro lavoro, se non fosse per il fatto che esistono dei documenti, sarei convinto di essere stato portato sul serio da una cicogna bianca il giorno della mia nascita. Ho provato a riaddormentarmi, ma è stato inutile. Mi succede sempre, sto bene solo quando dormo, “e grazie tante”, direte voi, ma non è una frase fatta. Quando dormo la mia mente ritrova un po’ di tranquillità, non esiste più nessuno, ci sono io, io…e lei. Ecco, “lei” è il mio problema, la causa per la quale mi sono ritrovato di fronte allo specchio. Sono qui, ma i miei occhi cercano di evitarmi. Per un po’ ho guardato il riflesso della finestra spalancata: sono ancora lì, le rondini, loro non si sono curate della mia reazione brusca di questa mattina nei loro confronti, continuano a volare libere, e quello che stanno facendo non ha niente a che fare con i pregiudizi e gli sguardi delle persone. Superiorità? Forse, ma le invidio, vorrei essere anche io come loro. All’improvviso il rumore sordo dello sbattere di una porta mi ha riportato alla realtà, allo specchio. Eccomi: alto, magro, occhi azzurri, capelli lunghi fino al collo, scompigliati come dopo una folata di vento. Sono qui, ma non sono io. Sono stato spesso a un passo dal dire ma poi ho rinunciato. Ma oggi no, ho deciso che non trascorrerò neanche un giorno in più in questa trappola, deve essere oggi, oggi o mai più. Mi tremano le gambe, le mani sono sudate. Cosa penserà la mia famiglia, i miei parenti. Loro, con la risposta sempre pronta, l’orecchio teso ad ascoltare i più futili pettegolezzi, cosa penseranno del loro figlio, del loro nipote di cui credevano conoscere ogni cosa. Crolleranno tutte le loro certezze. Solo Alexa, mia sorella, mi ha compreso. Mia sorella sa, sa da tanto. Quella volta, al negozio di Carla, mi ha guardato con tanta tenerezza quando ho appoggiato furtivamente sul mio petto quel corsetto di pizzo nero e rosa. Era un piccolo gioiello fatto a mano, con dei bottoncini di raso nero, di un’eleganza travolgente. Avrei dato la vita per poterlo indossare, sarei stata bellissima. Ma poi, ancora una volta, lo specchio mi ha riportato alla realtà, rimettendo quel sogno proibito al suo posto. Alexa cercava il mio sguardo, poi mi ha sussurrato dal camerino: “Ti sta d’incanto.” Metto in ordine i capelli, passo le dita sulle labbra: sono secche, mi manca la salivazione. Devo organizzare un discorso, un monologo mi aiuterà. Cerco le parole giuste, quelle meno dolorose, semplici da capire. Una giostra di termini mi confonde le idee. È così difficile essere se stessi? Poi, un’unica frase si fa spazio in questo caos di pensieri, diretta, efficace:” Mamma, papà, io sono transessuale”. La stanza intorno sta diventando una scatola buia. L’ho gridato ad alta voce, ma nessuno mi ha sentito, per fortuna. I miei torneranno di sicuro troppo tardi questo pomeriggio, stanchi e stressati, ma li costringerò ad ascoltare quello che ho da dirgli. Mi allontano dallo specchio, ho bisogno di pensare ad altro nel frattempo. Forse sarebbe meglio se mi poggiassi un po’ sul divano, mi sento parecchio stanco oggi e non parlo di stanchezza fisica. Tredici chiamate perse, venti messaggi. “Ben che fine hai fatto? Oggi avevamo allenamento.” Non ho voglia di rispondere. Anche l’atletica non mi soddisfa più come prima. Amavo correre, mi faceva stare bene, ma ora è diventata quasi una punizione dover andare al campetto ogni pomeriggio. I pantaloncini sono stretti e non mi piace stare a torso nudo, mi mette a disagio, anzi, mi mettono a disagio. È la solita storia ogni volta: “E i muscoli Ben? Li hai lasciati a casa?” “Dai Ben corri più veloce, sembri una femminuccia!” “Come sei carina oggi… facciamo stretching insieme Bennina?”. Li odio. Odio le loro risatine, i loro commenti sotto voce, i loro occhi puntati su di me. C’è qualcuno di sotto, non mi sono reso conto che i miei fossero rientrati a casa. E adesso? Non sono pronto, non riesco neanche a pensare. “Ben, Ben sei a casa?” Non rispondo, vorrei sparire. “Mamma, papà, sono qui.” “Perché non rispondevi? Mi stavo preoccupando.” Mi fermo sull’uscio:” Scusa, ero distratto.” “Tra dieci minuti preparo la cena. Metti in ordine questa stanza, sembra ci viva un ciclone.” Al diavolo il monologo, non ce la faccio neanche a guardarli negli occhi. Prendo un foglio, cercherò di buttare giù qualche riga. Dopo, ripiego il pezzo di carta in quattro e lo lascio sulla mia scrivania, poi infilo il cappotto e prendo la mia bomboletta spray: ho bisogno di uscire, di una boccata d’aria. Il sole è calato da un pezzo, non si vedono nemmeno più le rondini, chissà cosa fanno quando non sono impegnate a volare insieme. Io non ho mai avuto veri “amici”, persone con le quali condividere il mio volo, più che una rondine sono sempre stato il passero solitario della situazione, quello emarginato, l’ultimo della squadra ad essere scelto durante l’ora di educazione fisica, insomma. E io? A quale categoria appartengo io? A quella dei maschi, certo, il mio aspetto suggerisce questo, ma dentro di me vorrei poter indossare anche io dei tacchi alti in modo del tutto naturale, senza dovermi preoccupare troppo degli sguardi delle persone. È la società il problema, questa società che non ci permette di vivere a pieno la nostra vita, che non ci permette di mostrarci per quello che siamo. Per quanto possa sembrare che ci spinga ad essere semplicemente noi stessi, impone degli stereotipi, dei parametri e se non li rispetti, se non ne fai parte, sei fuori dal mondo e come te tutte le persone che ti amano. Sono trans. Sono trans e a quest’ora i miei genitori avranno già trovato il mio biglietto, lo staranno leggendo, probabilmente in lacrime. Ma non vinceranno i pregiudizi, non stavolta. La mia famiglia non dovrà mai vivere con la paura che camminando per strada vengano etichettati come “i genitori di quello strano” “quello nato sbagliato”. Io valgo più di loro, lo so, perché in me esiste una doppia personalità, mentre in loro no. E la mia è una qualità, io sono in grado di essere entrambi, di comprendere entrambi, ma questo nessuno può capirlo. La diversità non sta nel fatto di essere femmine o maschi, omosessuali o trans, non c’entra, siamo diversi perché ognuno di noi ha i suoi difetti, i suoi pregi, le sue abilità, dovremmo essere distinti in base a questo, non in base a chi scegliamo di amare. Ciò che siamo esteriormente, il nostro aspetto fisico, è solo un involucro, che serve a proteggere quello che siamo dentro. Mi trattano in modo diverso e lo fanno solo perché non sono come loro, si sentono in dovere di prendersi gioco di me perché in realtà io, per la società, non esisto. Ho deciso: non tornerò a casa stanotte, non tornerò mai più. Si sta bene sul tetto della scuola, lontano dal rumore della città, dal rumore delle persone. Prendo la mia bomboletta dalla tasca della giacca e inizio a scrivere, poi mi alzo. Non mi ero mai resa conto di quanto fosse bello il panorama da quassù. “Ben, oh Ben santo cielo…scendi subito potresti cadere, ti abbiamo cercato ovunque, per fortuna stai bene.” “Mamma, papà…io…io credevo che voi…” “Abbiamo letto la lettera Ben, perché non ce ne hai parlato prima? Avremmo potuto risolvere la cosa insieme.” Risolvere “la cosa”. C’era da aspettarselo, loro non sono dalla mia parte. “Mi dispiace, mi dispiace di non essere mai stato il figlio perfetto, ma voi non c’eravate quando negli spogliatoi dopo l’allenamento mi hanno messo all’angolo e costretto a fare la doccia di fronte a tutti, o quando a scuola hanno affisso alle porte del bagno – accesso limitato ai veri uomini –  non c’eravate quando ho capito chi sono davvero, quando mi sono sentito me stesso per la prima volta indossando una parrucca di Carnevale, truccato proprio come una ragazza. Non potete capire cosa significhi sentirsi diverso, non appartenere ad un genere ben definito. Io non voglio più nascondermi.” Quello che ho fatto poi, l’ho fatto perché nella nostra società, se vuoi un cambiamento, devi fare qualcosa che attiri l’attenzione di tutti, che faccia scalpore, solo così la gente parlerà di te, nel bene o nel male. L’ho fatto perché ognuno di noi deve essere libero di poter scegliere, senza timore, senza rimpianti. L’ho fatto perché ne parlassero i giornali, la televisione, perché ciò che ho vissuto possa non ripetersi in futuro. L’ho fatto per sentirmi libera, perché quel corpo mi stava troppo stretto. E così sono volata via, come le rondini, al di sopra del bene e del male, al di sopra dei generi, sono semplicemente io, per la prima volta nella vita e, da oggi, per sempre. Sulla mia scuola resterà quel graffito, un mio ricordo per tutti coloro che mi hanno fatta sentire sbagliata. È scritto in maiuscolo, semplice, immediato: SONO COME SONO E TU NON FARMI SENTIRE DIVERSO.

Racconto di Roberta D’Albenzio, V A Liceo Artistico San Leucio, Caserta. Il giudizio della giuria: « Il tema, non facile, viene trattato in modo lucido, pur nel pessimismo della conclusione tragica. Pensieri e riflessioni, che si alternano in modo equilibrato a notazioni di realtà, sono espressi con semplicità, chiarezza e proprietà di linguaggio».

 

A cura di Loretta Junck

qvFhs-fCGià docente di lettere nei licei, fa parte del “Comitato dei lettori” del Premio letterario Italo Calvino ed è referente di Toponomastica femminile per il Piemonte. Nel 2014 ha organizzato il III Convegno di Toponomastica femminile. curandone gli atti. Ha collaborato alla stesura di Le Mille. I primati delle donne e scritto per diverse testate (L’Indice dei libri del mese, Noi Donne, Dol’s ecc.).

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