Hannah Arendt

Prima scena: Hannah Arendt è a New York, alla scrivania, e legge una lettera di Martin Heidegger.

«Cara Anna, scrivo alla cara allieva di un tempo, ma anche alla donna che non ho potuto avere accanto. Scrivo all’amica di vita, di pensiero, di necessità. Mi dispiace che, mentre io divenivo rettore d’università a te veniva negata la cattedra. Mi dispiace che tu abbia dovuto lasciare la Germania, perché ebrea, perdere la tua cittadinanza, rimanere apolide per molti anni. Immagino il dolore per la perdita del vincolo di appartenenza al tuo, al nostro paese, alle nostre amate montagne della Foresta Nera, nonché la sofferenza per non poter più esercitare l’attività filosofica nel nostro ambito universitario. L’interruzione di un percorso di ricerca filosofica che abbiamo condiviso, finché la persecuzione contro il popolo ebraico ti ha costretta a fuggire. È andato perduto un mondo in comune.
Tu hai dovuto continuare negli Stati Uniti e so che lo hai fatto egregiamente poiché seguo le tue pubblicazioni. In filosofia rendere le cose più semplici è una strana faccenda: tanto più le cose diventano semplici, tanto più restano misteriose. L’Europa ha vissuto pagine molto oscure, schiacciata da ideologie. Io stesso sono rimasto coinvolto, ma solo in parte, solo inizialmente… So che hai analizzato filosoficamente le ideologie di questo secolo e vorrei che tu mi mandassi una copia del tuo lavoro. Siamo stati vicini l’uno all’altra abitando la distanza dalla giovinezza fino alla nostra età matura. Con eterna amicizia. Martin. Friburgo, 1950».

Hannah Arendt

Hannah risponde a Martin: «Ci siamo rivisti da poco a Friburgo, dopo ben 17 anni. Sono tornata in Germania per occuparmi dei beni sottratti agli ebrei dai nazisti e, in particolare, degli oggetti preziosi del culto. Vivo qui in America, ma sono ancora apolide, in attesa di cittadinanza. Ora sto lavorando al testo sulle origini del totalitarismo ma, per parlarne, voglio partire dal personale, dal mio vissuto, poiché prima si viene feriti, poi si inizia a pensare. Pensare è meditare, è pensare in seguito a una cosa. Io, che mi sono salvata fuggendo in Francia nel 1933 passando per la Spagna, ho raggiunto Lisbona e sono arrivata in America nel ’41, scrivo per tutti quelli che sono periti.
Ecco le domande da cui sono partita: come è potuto accadere lo sterminio nella Germania di Gothe e dei grandi filosofi? Quali sono le condizioni per le quali è nato il movimento totalitario? Perché è successo il totalitarismo? Decisiva è la differenza tra sapere sapere con tutta l’anima, cioè tra sapere come accumulo di conoscenze e di nozioni e quella forma di comprensione o di conoscenza che va alla ricerca del senso. Il totalitarismo è una nuova e tremenda forma di politica che non ha precedenti, non ci sono categorie note a cui riferirci; c’è un abisso tra le forme di fascismi, dittature di ieri e quella che si è attuata in questo secolo in Germania. Questa è immensamente più grave, noi dobbiamo riuscire a comprenderla, non a giustificarla.
Ho compiuto un’accurata indagine storica e filosofica dello stalinismo e del nazismo, osservando anche le loro connessioni con l’antisemitismo. Benché diametralmente opposti, questi regimi hanno molte similitudini: la presenza di una ideologia ufficiale nella quale l’individuo deve identificarsi; la presenza di un partito unico e di un capo carismatico che diviene oggetto di culto della persona; la presenza di una polizia crudele per l’individuazione costante di un nemico. Vi è in comune il controllo dei mezzi di comunicazione, attraverso propaganda e censura. Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più; se la legalità è l’essenza del governo non tirannico e l’illegalità è quella della tirannide, il terrore è l’essenza del potere totalitario. L’atomizzazione della società sovietica viene ottenuta con l’abile uso di ripetute epurazioni, che precedono l’effettiva liquidazione di un gruppo, allo scopo di distruggere tutti i legami sociali e familiari. Istituendo la colpa per associazione, reato mai esistito in passato, creano intorno a ciascun individuo un’imponente solitudine. Il livellamento sociale e la fine dell’esistenza autonoma di qualsiasi attività porta al naufragio dei diritti umani. Il totalitarismo non si può limitare nei confini di un paese; infatti la polizia segreta crea un sistema di spionaggio onnipresente dove, nell’ultima fase, le vittime vengono scelte a caso come indesiderabili. I lager sono i laboratori dove si sperimenta la trasformazione della natura umana.
È necessario quindi puntare sull’educazione; essa diviene il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo di esseri nuovi, di giovani».

Hannah Arendt

Musica, Hora Medura

Seconda scena: Hanna legge una lettera dell’amica Mary Mc Carthy. Aprile 1958.

«Cara Hanna, come sai io amo molto scriverti. Sono anche un po’ prolissa. Tu rispondi… quando ti pare e sempre in modo conciso. Ricordi? La nostra amicizia iniziò in un bar di New York nel ’44 e, dopo qualche litigata e qualche muso lungo, è rimasta forte per sempre. Eri fuggita dalla persecuzione nazista, ma anche da un uomo che pur amandoti non era riuscito a sacrificare la sua famiglia e il partito per stare con te. Noi due abbiamo sempre voglia di parlare; parliamo di tutto, benché siamo così diverse, per età, cultura, sorte personale, credo religioso. A proposito, ricordi quando ti offendesti perché, parlando di Hitler, io lo volli compatire perché non credeva alla possibile reazione dei francesi nella Francia occupata e, così dicendo, non rispettai il tuo essere ebrea? Poi ti passò l’arrabbiatura e, poiché la pensavamo allo stesso modo… iniziò la nostra amicizia.
Direi che noi due siamo sole insieme: insieme come amiche e sole contro le opinioni dominanti. Tu sei molto riflessiva e profonda, io più impulsiva e a volte caustica, io amo il cambiamento, tu invece credi che ognuno debba essere “ciò che è”. Dopo il tuo successo col libro Le origini del Totalitarismo, cosa hai scritto di recente? Sarei felice di correggerti le bozze del tuo ultimo lavoro, come ho fatto sempre in passato. Credo che tu stia riflettendo sulla… modernità, perché è un tema che trattiamo spesso, io e te. Sai, io deploro questa modernità che ci obbliga a vederci tutti uguali, forse perché oggi vi è quasi un’ossessione verso questa “uguaglianza”. Mi dicevi, nell’ultima lettera, che oggi vi è una grande moda, l’invidia. Credo che tu abbia ragione, ognuno dovrebbe invece recuperare la forza della propria identità. Cosa pensi del consumismo che vedo in America e che fra non molto vedrò anche in Europa, nei miei frequenti viaggi? Aspetto una tua lettera o una tua telefonata. A presto, Mary».

Risponde Hannah: «Cara Mary, mia cara amica, sì, oggi, nel mondo moderno che si rialza dalle distruzioni della guerra, dobbiamo far tornare nei singoli la passione ad agire in prima persona e in relazione con altri, riappropriandosi della facoltà di decidere insieme la sorte del mondo in cui abitiamo. La modernità che avanza qui in America punta al progresso, che poi verrà seguita dalla vecchia Europa in mode, usi e costumi. Ma, mi chiedo, accanto alla tecnologia, cresce anche il pensiero? Gli uomini e le donne sanno, come al tempo dei greci, pensare insieme? Vi è un luogo, un’Agorà, per questo? O si tende a delegare agli specialisti della politica la linea da scegliere?
I disastri dai quali usciamo, dopo la guerra, ci dovrebbero mettere in guardia dal pericolo di non pensare con la nostra testa! Sto ultimando un mio libro: The Human Condition, in cui osservo come la modernità è un progressivo decadimento della condizione umana, dove progresso e rovina sono due facce della stessa medaglia, dove diventa impossibile l’autentica vita activa che consiste nell’agire politico e nell’interazione comunicativa pubblica fra cittadini liberi. Per Aristotele la politica è l’attività principale, è il fine dell’uomo, che è un animale razionale, dotato di logos, capace cioè di fare un discorso e non solo di aggregazione come lo sono, ad esempio, le api. Ho voluto analizzare il tema del lavoro e lo si può vedere come: il regno della necessità, dove uomini e donne sono come animal laborans per il sostentamento fisico legato alla ciclicità della vita: coltivo il grano per mangiare, mangio per avere le forze di coltivare il grano e così via. L’opera, quella dell’homo faber, che costruisce oggetti duraturi, utili, ma anche artistici come fa l’artigiano e l’artista. L’azione, dove ognuno mostra, attraverso il linguaggio, di essere unico nella moltitudine ed è quella dello zòon politikòn. Nella storia si è perso il primato della politeia, si è passati dall’animal laborans all’homo faber, che è il pericolo della società consumistica di oggi, dove manca l’aspetto filosofico-politico.
È giusto che solo pochi pensino in libertà e gli altri debbano solo lavorare? Come conciliare il regno della necessità con quello della politica? È fondamentale che il pensiero critico vada sviluppato, alimentato, affinché l’essere umano possa pensare liberamente ed essere capace di giudizio.
Lamento una attuale carenza politica, interrogo i filosofi greci, senza però farmi ingabbiare da essi, per evidenziare la povertà che oggi ci caratterizza. Di essi mi servo per riorientare lo sguardo nel presente. Nel discorso filosofico l’essere uomo o donna va mostrato come rilevante; il mio pensiero è radicato nella differenza femminile. Ad esempio il livello del che cosa uno ha detto, fatto, prodotto non ci parla compiutamente dell’essenza della persona. Il chi uno è stato/a riguarda qualcosa di diverso da ciò che di sublime o di eccellente può esserci nella produzione teorica o anche nell’attività pratica. Ha invece molto a che vedere con il modo in cui la persona ha vissuto sulla scena del mondo, la forma più elevata di agire, quella che esprime al massimo grado la dignità della condizione umana, non è, come pare ovvio per l’epoca «»moderna, il fare produttivo, bensì l’agire politico, in cui si passa da un atteggiamento individualistico, per quanto rivolto a entità sublimi, come la verità o la bellezza o a valori materiali, come il denaro, a uno di relazione, si vive cioè il mondo che ci circonda non come materia da usare e manipolare, ma come il luogo della partecipazione. A presto. Tua Hannah».

Terza scena: di ritorno da Gerusalemme, dopo il processo Eichmann, Arendt scrive La banalità del male.

«Comprendere non è negare l’atroce, significa esaminare, portare il fardello che questo secolo ci ha messo sulle spalle. Comprendere è affrontare la realtà, qualunque essa sia. Il processo a Gerusalemme è durato parecchi mesi, dall’aprile del ’61 all’impiccagione avvenuta il 31 maggio ’62 con grande propaganda da parte dello Stato d’Israele, che voleva mostrare al mondo l’uomo malvagio, il Male incarnato nella storia. Ricordo quando entrò la Corte: Beth Hamishpath! Erano a capo scoperto, in toga nera. Nella gabbia di vetro l’imputato e, poco distante, il recinto dei testimoni. Lui, l’imputato è un uomo di mezza età, di statura media, magro, con un’incipiente calvizie, dentatura irregolare e occhi miopi. Qui si devono giudicare le sue azioni, non le sofferenze degli ebrei, non il popolo tedesco o l’umanità, e neppure l’antisemitismo e il razzismo. Il guaio del caso Eichmann era che uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tutt’ora, terribilmente normali.
Certo che le azioni compiute da quell’uomo erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso. Non era stupido, non era un passacarte, un burocrate, era l’assenza di pensiero, non assenza di ragionamento, ma assenza del dialogo interiore, quello in cui ciascuno di noi è giudice di sé stesso. Eichmann non pensava, non si chiedeva che cosa stava facendo, quali le conseguenze del proprio agire.
«All’occorrenza salterò nella fossa ridendo, perché la consapevolezza di avere cinque milioni di ebrei sulla coscienza mi dà un senso di grande soddisfazione».
Queste parole di Eichmann mostrano un tono spregiudicatamente superficiale che contraddice le teorie sulla malignità. Egli sosteneva di avere semplicemente obbedito a degli ordini. Non che avesse fatto del male.
Eichmann è il prodotto della mentalità totalitaria, è privo del senso di responsabilità che è la capacità di rispondere delle proprie azioni. È incapace di rispondere del significato delle sue azioni. Ecco perché è banale: è assenza, è vuotezza.
Ricordo come si pronunciò la corte: «E come tu hai appoggiato e messo in pratica una politica il cui senso era di non coabitare su questo pianeta con il popolo ebraico e con varie altre razze (quasi che tu e i tuoi superiori aveste il diritto di stabilire chi deve e chi non deve abitare la terra), noi riteniamo che nessuno, cioè nessun essere umano desideri coabitare con te. Per questo, e solo per questo, tu devi essere impiccato!»

Processo di Eichmann a Gerusalemme, 1961

Non potevo che essere d’accordo… Ma ecco le critiche di tutti gli amici ebrei di New York. Vengo allontanata da tutti. La lettera dell’amico Jonas, che mi lascia nello sconforto, raccoglie l’opinione di tutti».
Marzo 1962. «Cara Hannah il tuo caro amico Hans ti scrive, dopo una lunga discussione avuta al circolo ebraico dove tu sei tanto stimata, ma ciò che stai pubblicando sul New Yorker è veramente troppo! Ciò che abbiamo letto proprio ieri non lo possiamo condividere. Sei ammattita? Hai parlato male degli ebrei stessi! Non ti avevamo mandato a Gerusalemme a seguire il processo Eichmann per criticare gli ebrei, popolo sterminato, ma per accusare l’assassino tedesco. E tu, di seduta in seduta, vai assumendo una strana posizione non certo di difesa dell’uomo che ha con orgoglio pronunciato la frase che tu stessa citi: «All’occorrenza salterò nella fossa ridendo, perché la consapevolezza di avere cinque milioni di ebrei sulla coscienza mi dà un senso di grande soddisfazione», ma ti sforzi di comprendere. Comprendere? Ci stai dicendo che i quadri dei consigli ebraici hanno avuto una certa responsabilità nel collaborare nelle deportazioni!
Siamo stati tutti vittime, Hannah, i carnefici erano gli altri! Ci stai anche dicendo che quell’uomo nega di odiare gli ebrei e riconosce solo la responsabilità di aver eseguito gli ordini, come qualunque soldato avrebbe dovuto fare durante una guerra. Lo descrivi dimesso, non in divisa, ma con una scialba giacchina, con lo sguardo assente, mentre gli altri testimoni, i superstiti del Lager, chiamati a testimoniare, mostrano grande partecipazione emotiva, costretti a rievocare i fatti soffrono, alcuni svengono in aula. Lui no, rimane, tu ci dici impassibile.
Ma tu ne parli come l’incarnazione della “banalità del male”. Il giovane governo d’Israele si aspetta di mostrare al mondo la sua autonomia di giudizio nei confronti del criminale che ha avuto nelle sue mani l’organizzazione di anni di deportazioni, specie quelle finali dell’Europa dell’Est, e che è riuscito a catturare a Buenos Aires, dove viveva sotto falso nome. Non stai certo fornendo un buon servizio neppure a Israele e tu sei ebrea!
Mi auguro che tu voglia chiarire con tutti noi la tua strana posizione, che ci lascia ora nello sconcerto.
Ti sappiamo una mente libera e autonoma, non incline a voler piacere a tutti i costi, non scrivi certo per compiacere o per manie di successo, ma questa volta è troppo! Hans Jonas»

Quarta scena. Risposta di Arendt alle critiche ai suoi articoli in Verità e Politica. «Ho trovato il coraggio di espormi, di assumermi la responsabilità dei miei pensieri, anzi direi che il pensiero inizia quando diventiamo bersaglio diretto dell’esperienza, quando viviamo l’urto con l’esistenza. Ero andata a Gerusalemme per vedere in faccia Eichmann ed ero stata colpita da qualcosa di particolarmente inedito, proprio dal suo sguardo assente.
Ciò mi ha spinto a pensare e a fare riferimento alla metafora Egli di Kafka che è come un ponte tra il luogo filosofico e la realtà del quotidiano, una breccia. Egli ha due avversari, il primo lo incalza alle spalle, il secondo gli taglia la strada davanti. Egli combatte con entrambi, ciascuno dei due cerca di spingerlo in avanti o indietro, ma lui desidera uscire dalla linea di combattimento. Kafka sogna di uscire dalla mischia, ma questo è il sogno del filosofo tradizionale. Io sviluppo in modo differente questa immagine: tra passato e futuro si interpone Egli, figura anonima, che sta nel presente, campo di battaglia che tutti viviamo e che spesso ci lascia muti, eppure esiste.
Chi è Egli? Nel progetto totalitario si vuole rendere il soggetto inesistente, superfluo, ma può anche resistere e diventare un poeta, se apre quel minimo spazio e determina un minimo spostamento. Da lì parte un filo in diagonale, si amplia per toccare la vita di altri e altre che resistono, che si assumono la responsabilità di ciò che fanno e non come Eichmann che diceva che se non lo faceva lui lo faceva qualcun altro. Egli ha il coraggio di agire, ossia di uscire da sé: esporsi e poi anche il coraggio di rientrare in sé per distinguere il bene dal male. Invito a pensare a partire dalla propria fragilità: stando nel luogo di fragilità e questo è il modo di lottare contro l’apatia, il mutismo e l’immobilità. Per me assistere a questo processo è stato un obbligo che avevo verso il mio passato.
Vengo accusata dagli ebrei stessi, forse anche perché sono una donna, ma io non ho incolpato il popolo ebraico della propria distruzione, resistere allora era impossibile. Io sono ebrea e sono accusata di disprezzare il mio popolo, accusata di non avere cuore, ma questa è un’accusa falsa e infamante. Sono addirittura stata maledetta nelle preghiere del sabato, un colpo veramente devastante. Ho taciuto per più di un anno. Io credo d’avere la responsabilità di comprendere. 
Fin dai tempi di Socrate e Platone siamo soliti considerare il pensiero come quella conversazione, quel dialogo che c’è all’interno di noi. Rifiutando di essere una persona, Eichmann, ha rifiutato di essere un vero essere umano, rifiutando di pensare, di conseguenza non è stato più in grado di dare nessun giudizio morale. Il pensiero non è la conoscenza, ma l’attitudine a discernere il bene dal male, la bellezza del mondo dalle sue brutture.
Perché solo pochi non aderirono al regime? Sono quelli capaci di giudicarsi da soli; essi sapevano che non avrebbero potuto vivere col peso sulla coscienza. La mia opinione è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua banalità… solo il bene ha profondità e può essere integrale».

Scena finale del film Hanna Arendt di Margarethe von Trotta, 2012

Quinta scena. Circle time

Circle time. Paullo. Gennaio 2017

Perché per Hannah Arendt è così decisiva la differenza tra sapere e sapere con tutta l’anima? Quali conseguenze il pensare ha nel compiere il male?

In copertina: Hanna Arendt e Martin Heidegger.

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Articolo di Maria Grazia Borla

Laureata in Filosofia, è stata insegnante di scuola dell’infanzia e primaria, e dal 2002 di Scienze Umane e Filosofia. Ha avviato una rassegna di teatro filosofico Con voce di donna, rappresentando diverse figure di donne che hanno operato nei vari campi della cultura, dalla filosofia alla mistica, dalle scienze all’impegno sociale. Realizza attività volte a coniugare natura e cultura, presso l’associazione Il labirinto del dragoncello di Merlino, di cui è vicepresidente.

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