Rigoberta Menchù, nel 1992, è stata la prima indigena e la più giovane a ricevere il Premio Nobel per la Pace, con la motivazione: «Per la sua battaglia per la giustizia sociale e la riconciliazione etnoculturale basata sul rispetto per i diritti delle popolazioni indigene».

Rigoberta è nata il 9 gennaio 1959 nel comune di Laj Chimel, nella provincia di San Miguel de Uspantán, in Guatemala, da genitori già in vista nel villaggio di origine per essere gli eletti, rappresentanti della comunità indigena, fortemente unita e solidale. Cresce sin da piccola apprendendo il rispetto per la Terra, per le tradizioni del suo popolo, maturando già in giovanissima età un senso di consapevolezza anche della prevaricazione e dello sfruttamento lavorativo a cui era costretta la sua gente nelle fincas, le grandi piantagioni dove, con il resto della famiglia, anche lei si reca per alcuni mesi dell’anno. In queste grandi distese le popolazioni indigene lavorano al soldo di caporali e latifondisti terrieri, i ladinos, meticci, figli di spagnoli e indigeni, che, tuttavia, non riconoscono loro dignità alcuna, rifiutandone l’identità e perfino i costumi, la lingua e il modo di vestire.

Fondazione Nobel
Dalla seconda metà degli anni Settanta inizia per Rigoberta l’esperienza attiva nell’organizzazione per la difesa della propria comunità, sottoposta non solo ai tentativi di espropriazione della terra da parte dei proprietari terrieri, ma anche alla repressione militare delle forze governative. Si diffonde, infatti, pure in Guatemala quel clima di violenza che caratterizza, negli stessi anni, i regimi di altri Paesi dell’America Latina: nei primi anni Settanta sale al potere il generale Eugenio Laugerud García Kjell, seguito dal 1978 da Fernando Romeo Lucas Garcia, altro sanguinario presidente. Le vicende della famiglia Menchù sono esemplari della violenza con cui il governo reprime le popolazioni indigene: il padre Vicente viene imprigionato e torturato con l’accusa di aver preso parte ad attività di guerriglia. Rilasciato, entra a far parte del Comitato di unità contadina (Cuc), a cui si unirà anche Rigoberta nel 1979, e perde la vita nell’incendio causato dalle truppe militari per reprimere l’occupazione pacifica dell’Ambasciata spagnola a Città del Guatemala, come forma di protesta contro l’espropriazione delle terre. A suo fratello e a sua madre toccherà la medesima sorte: arresto, tortura e uccisione, il primo all’età di soli sedici anni e alla seconda, dopo essere stata violentata, verrà negata anche la sepoltura.

Rigoberta prosegue le sue azioni di denuncia contro la dittatura militare e, per questo, viene costretta all’esilio nel 1981, in Messico, dove continua la sua lotta per il riconoscimento internazionale della causa della comunità india del Guatemala.
Dal 1982 partecipa alle sessioni annuali della Sottocommissione di prevenzione delle discriminazioni e protezione delle minoranze della commissione per i diritti umani dell’Onu. Nel 1991 diviene Ambasciatrice dell’Onu, prendendo parte alla stesura di una Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni. Sceglie, poi, di tornare in Guatemala per sostenere una politica di dialogo e riconciliazione, nonostante le minacce di morte ricevute.

nel 2009
Nel 1999 lotta per far processare l’ex dittatore militare Efraín Ríos Montt, per crimini commessi contro persone di cittadinanza spagnola e per il genocidio della popolazione Maya del Guatemala. Rios Montt, scomparso nel 2018, è infatti ritenuto responsabile dell’eccidio di almeno 1771 indios dell’etnia Ixil del dipartimento del Quichè tra il 1982 e il 1983. Nel frattempo Rigoberta Menchù si candida alla carica di Presidente della Repubblica sia in occasione delle elezioni del 2007, in cui ha ottenuto, col sostegno della formazione Incontro per il Guatemala, il 3,1% dei voti, sia in quelle del 2011, quando, sostenuta da una coalizione di sinistra, ottiene il 3,2% dei voti.
Capire le ragioni dell’assegnazione del Premio Nobel, significa addentrarsi nella sua biografia (Elisabeth Burgos, Mi chiamo Rigoberta Menchù): è stato, infatti, soprattutto a seguito del racconto contenuto nel libro che si è diffusa nella comunità internazionale l’ammirazione per la storia di Rigoberta Menchù, fino a valerle la consegna dell’onorificenza. È a queste pagine che affida il racconto di ingiustizie, violenze e discriminazioni subìte in prima persona e della costruzione di pratiche di lotta che, negli anni, ha attivato per combattere gli episodi di sistematica sopraffazione lavorativa ed etnica, rendendo, così, il suo racconto da particolare a universale.
La sua storia è come un climax ascendente: ogni pagina racconta la consapevolezza che lei ha maturato di anno in anno, la curiosità e il senso di giustizia che ha tessuto nel tempo. Il suo spirito di ricerca della pace può cogliersi quando dichiara di «non aver avuto una scuola per la mia formazione politica, ma piuttosto, partendo dalla mia esperienza, ho cercato di collegarla con la situazione complessiva di tutto il popolo».

I colori dei suoi abiti, l’eccentricità dei suoi orecchini, i lunghi capelli neri anticipano, nell’aspetto, la forza del suo animo: una donna fiera che da obbediente, per la sua semplicità, come si descrive nella biografia, diventa disobbediente verso i codici della violenza sistematicamente applicati dai potenti della sua terra. Si è lasciata guidare dal filo tessuto dalle sue antenate e dai suoi antenati, rispettando la sacralità dei loro riti, di cerimonie e tradizioni. Il suo punto di forza è stato credere nella comunità, nel senso di preservare l’unione tra le persone: ha sin da subito avuto chiaro che il nemico usurpatore avrebbe potuto sconfiggere il popolo indigeno solo disgregandolo. Rigoberta sperimenta un metodo di rivolta non violento: da cattolica, catechista e praticante, rilegge la Bibbia come una metafora, provando a ritrovare nei racconti sacri la storia della sua gente e, in particolare, sceglie di imparare le lingue. Sa, infatti, che solo apprendendo non solo il castigliano dei ladinos, ma anche i dialetti e le lingue locali, profondamente diverse da villaggio a villaggio, avrebbe avuto una concreta occasione di coinvolgere il suo popolo, formando anche le donne che incontrava sul suo cammino, perché potessero coordinare e dirigere, come lei, l’organizzazione contadina. Apprende il metodo della critica e dell’autocritica, come radice del cambiamento all’interno della lotta popolare e diventa samaritana di strumenti di ribellione, portando tra le aldeas, i villaggi della sua regione, ciò che ha sperimentato per rompere i meccanismi di violenza e sopraffazione, dicendosi «una catechista capace di camminare sulla terra».

Con una forte spiritualità, sapientemente intrecciata a un acuto senso di concretezza, Rigoberta combatte per la pace e dice: «ho scelto di restare in città o al villaggio anche se avrei avuto la possibilità di prendere le armi, ma il nostro apporto lo diamo in forme differenti e tutto va in direzione dello stesso obiettivo». Rigoberta si è fatta interprete di una pace duratura, che non comportasse solo la vittoria di una battaglia di un unico popolo contro un unico nemico, ma che attivasse la trasmissione di valori di pace, di unione tra i popoli e la diffusione della cooperazione come metodo per rompere il sistema della violenza.

Foto di Daniel Hernández-Salazar
Risultano molte intitolazioni a suo nome in Spagna (Saragozza, Reus, Getafe, Rubí, Girona, ecc.), alcune in Francia (ad esempio ad Avignone e Montpellier) e in Messico. In Italia è onorata nel giardino dei Diritti umani a Diano San Pietro. Nel 1998 ha ottenuto in Spagna il premio Principe delle Asturie per la cooperazione internazionale; nel 2002 ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Caorle (Venezia) e nel 2006 il premio speciale Grinzane Cavour. Risale al 2008 il Glamour Award for the Peacemaker People.
Qui le traduzioni in francese, inglese, spagnolo e ucraino.
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Articolo di Gemma Pacella

Nata a Foggia e laureata in Giurisprudenza con una tesi dal titolo “Il linguaggio giuridico sessuato: per la decostruzione di un diritto sessista”. Attualmente svolgo un dottorato di ricerca in Management and Law. Studio il femminismo che nel tempo e nello spazio attraversa la nostra civiltà.

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