«Non ho voglia di aprire la bocca
di che cosa devo parlare?
che voglia o no, sono un’emarginata
come posso parlare del miele se porto il veleno in gola?
cosa devo piangere, cosa ridere,
cosa morire, cosa vivere?
io, in un angolo della prigione
lutto e rimpianto
io, nata invano con tutto l’amore in bocca.
Lo so, mio cuore, c’è stata la primavera e tempi di gioia
con le ali spezzate non posso volare
da tempo sto in silenzio, ma le canzoni non ho dimenticato
anche se il cuore non può che parlare del lutto
nella speranza di spezzare la gabbia, un giorno
libera da umiliazioni ed ebbra di canti
non sono il fragile pioppo che trema nell’aria
sono una figlia afgana, con il diritto di urlare».
Nadia Anjuman, poeta afghana (Herat, dicembre 1980 – Herat, novembre 2005)
Sabato 27 maggio si è tenuta la prima seduta del Tribunale delle donne per le donne in migrazione: un’aula senza giuria, ma con una commissione d’ascolto. Ci troviamo nella sede della Casa internazionale delle donne di Roma, che ha organizzato questo incontro focalizzato sulle migranti afghane arrivate in Italia.

L’evento aperto al pubblico si inserisce nel progetto Da vittime a testimoni. Un Tribunale delle donne per i diritti delle donne in migrazione, finanziato dall’8 per mille delle chiese valdesi e nato dalla collaborazione tra la Casa internazionale delle donne, Differenza donna e Le sconfinate. Hanno aderito anche: Fondazione Basso, Donne di Benin City Palermo Onlus, Eva Cooperativa Sociale, Trama Di Terre, Cisda, Binario 15, Nove Onlus, Adbi – Donne Brasiliane in Italia, No.Di – I Nostri Diritti, Bosna u Srcu – Bosnia nel Cuore, K_Alma – Associazione di Promozione Sociale.
L’obiettivo principale dell’iniziativa è rispondere a una domanda di giustizia che quasi sempre non trova spazio nelle procedure vigenti; il tentativo è quello di costruire forme di riparazione sociale e politica per migranti, richiedenti asilo e rifugiate. Il punto di partenza è la consapevolezza del fatto che il nostro quadro normativo in tema di regolazione e gestione dell’immigrazione, così come ci si presenta oggi, generi spesso forme di violenza e persecuzioni che si aggiungono a quelle da cui le migranti fuggono. Il progetto cerca perciò di costruire momenti di ascolto con una commissione in grado di elaborare proposte concrete e di presentare le istanze delle testimoni davanti alle istituzioni. Da questo desiderio di sperimentare forme di partecipazione alternative, in grado di riconoscere i limiti reali della giustizia formale, prende le mosse l’incontro diviso in due parti: nella prima trovano spazio le testimonianze delle donne afghane, nella seconda le analisi, i pareri e le proposte della commissione d’ascolto composta da consulenti legali, attiviste, avvocate, insegnanti.
Proviamo ora a ripercorrere le numerose e sentite testimonianze delle migranti, che hanno raccontato le loro esperienze personali e le difficoltà trovate lungo il proprio cammino. La prima a prendere la parola è una giovane attivista che in Afghanistan lavorava per un’organizzazione internazionale che si occupa di diritti. Fuggita nell’agosto 2021, in Italia si trova costretta a ricominciare da zero, scontrandosi con gli ostacoli linguistici e culturali. Ci racconta della sofferenza e della frustrazione generate dalla perdita dell’indipendenza e della posizione lavorativa che negli anni aveva lottato per ottenere. Ci riferisce anche delle difficoltà nell’accesso alle cure mediche: quando è arrivata, infatti, si trovava al nono mese di gravidanza e necessitava di un’assistenza che la sua condizione di rifugiata ha in parte messo a repentaglio. Ora, due anni dopo, frequenta un master e ha ripreso con l’attivismo. Ci tiene a dire che non vuole smettere mai, e il suo coraggio lo dimostra.
Il secondo racconto appartiene a una donna che si è trovata a migrare per la seconda volta: quando era bambina era stata costretta a fuggire in Pakistan a causa dell’oppressione a opera del regime dei talebani. Una volta tornata in Afghanistan, era convinta che ci sarebbe rimasta, ma per poter vivere da persona libera, si rimette nuovamente in viaggio, questa volta verso l’Italia, rivivendo un trauma già conosciuto. Allude più volte alla violenza dello strappo subito, paragonando l’allontanamento dalla propria terra all’allontanamento dalla madre: un abbandono e un distacco che nessun individuo vorrebbe mai affrontare. Anche lei oggi frequenta un master e lavora per una cooperativa, tentando giorno dopo giorno di ricostruire la propria identità.
La terza testimonianza, oltre a essere molto toccante, apre la discussione su un tema forse trascurato, ovvero la dequalifica delle donne in questione. A prendere la parola questa volta è una chirurga, attivista e ricercatrice femminista, che nel 2011 ha creato un movimento di donne femministe afghane, e nel 2021 un’associazione di chirurghe al servizio di chi non poteva affrontare le spese delle cure. Con le lacrime a romperle la voce, dice che è sempre stata convinta che dovessero essere le donne a generare i grandi cambiamenti nel mondo. Mostra vicinanza alla compagna che ha donato la sua storia prima di lei, raccontando di essersi sentita rifugiata due volte: anche lei, da bambina, è stata costretta a fuggire altrove, in Iran, dove ha subito diverse discriminazioni. Inizia poi una riflessione sul suo ruolo lavorativo, sottolineando di aver passato la vita a studiare, con tutte le rinunce che questo comporta, per poi non vedere riconosciute le proprie competenze qui in Italia. Tra tutti i lavori che le sono stati proposti, nessuno aveva a che fare con la sua specializzazione; alle donne migranti vengono quasi sempre richiesti ruoli di cura, trascurando le diverse specificità che le caratterizzano.

Le parole della chirurga danno vita a un dibattito interessante e necessario sull’importanza dell’intersezione tra le diverse battaglie: la giusta e fondamentale lotta che molte donne conducono per uscire dalla gabbia dei ruoli di cura all’interno della società, può andare a discapito di altre categorie, come in questo caso quella delle donne migranti. È quindi urgente e indispensabile attuare politiche in grado di riconoscere gli studi e le qualifiche delle persone che arrivano nel nostro Paese, in modo che possano essere valorizzate e, in secondo luogo, costituire una ricchezza culturale a tutti gli effetti.
Le testimonianze che seguono si concentrano anche sul silenzio mediatico che riguarda ciò che accade oggi in Afghanistan: lo Stato è sotto assedio, le donne relegate in casa e vincolate dagli uomini in ogni gesto, oltre che private del diritto all’istruzione. Molte giovani e giovanissime stanno subendo stupri di gruppo, altre sono state uccise e le loro famiglie minacciate. Tutto ciò sta avvenendo oggi, sotto il silenzio complice di tutto il mondo. È per questi motivi che le donne che hanno deciso di affidarci le loro storie sono scappate; una di loro, infatti, dice: «non sono qui per volontà o per amore, ma per costrizione e per restare viva». Ad accogliere questo urlo è una commissione d’ascolto pronta a redigere un documento che sia in qualche misura riparativo e metta in luce le criticità del sistema giuridico attuale. Ad accogliere questo urlo però saremo anche tutte noi e tutte insieme, nella speranza di spezzare la gabbia.
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Articolo di Emilia Guarneri

Dopo il Liceo classico, si laurea in Lettere presso l’Università degli Studi di Torino. In seguito si trasferisce a Roma per seguire il corso magistrale in Gestione e valorizzazione del territorio presso La Sapienza. Collabora con alcune associazioni tra le quali Libera e Treno della Memoria, appassionandosi ai temi della cittadinanza attiva, del femminismo e dell’educazione alla parità nelle scuole.

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