Voci nomadi al Mucem di Marsiglia

Il Mucem, Museo della civilizzazione europea e mediterranea di Marsiglia, ospita la mostra Barvalo, dedicata ai circa 12 milioni di persone tradizionalmente nomadi presenti oggi in Europa.

Bandiera Rom

In lingua romanì il termine “barvalo” significa “ricco”, in senso sia materiale sia culturale, quindi, per estensione, “fiero”. La mostra, realizzata insieme da nomadi e non, punta a dare la parola a queste etnie cancellate dalla storia ufficiale e anzi a ripercorrere la storia europea da un punto di vista non occidentale.
Sono nomadi molte etnie diverse, le più note delle quali sono rom, sinti e manouche, accomunate dalla lingua romanì, di origine indoeuropea, e dall’essere vittime di un particolare tipo di razzismo chiamato antiziganesimo: secondo una dichiarazione del Consiglio Europeo, l’antiziganesimo è «una forma specifica di razzismo fondata sulla presunta superiorità razziale e una forma di disumanizzazione e di razzismo istituzionale nutrita da una discriminazione storica che si manifesta, tra le altre cose, attraverso la violenza, i discorsi di odio, lo sfruttamento, la stigmatizzazione, e la discriminazione nella forma più palese». A causa della diffusa ignoranza nei loro confronti, queste persone sono spesso definite zingari (in Italia), gitanos (in Spagna), gypsies (in Inghilterra), tsiganes (in Francia) e Zigeuner (in Germania), termini che non corrispondono a nulla di preciso.

Sappiamo che queste popolazioni sono partite dal Nord dell’India intorno all’VIII secolo d.C. e che, attraversando la Persia e l’Anatolia, sono arrivate a Istanbul da cui, tra XI e XV secolo, si sono diffuse in tutta Europa. Risalgono al 1415 le prove della loro presenza in Francia, mentre a partire dal 1521 sono radicate in Spagna. Fin dal Medioevo tutti i reami europei hanno reagito con ondate di razzismo e di espulsioni forzate. Il 1577 è ricordato per le retate con cui la città di Marsiglia ha cacciato le “persone in viaggio”, come oggi la Francia chiama ufficialmente le persone nomadi. La lunga permanenza nell’Europa dell’Est (attuali Repubblica Ceca e Romania), ha portato i regni europei occidentali a malcomprendere la provenienza di questi popoli, fino a chiamare “bohémiens” i gitani, come se venissero dalla Boemia anziché dall’India, e a confondere la lingua romanì e il popolo rom con la lingua e la popolazione della Romania.

Avvertimento antizingari, Austria 1650 (sx). Atto di vendita di zingari-schiavi, Romania 1838 (dx)

Oggi la Spagna è il Paese europeo con il maggior numero di nomadi. L’Italia, pur essendo uno dei Paesi in cui queste etnie sono meno presenti, è uno di quelli in cui l’antiziganesimo è più elevato.

Particolari del dipinto I supplicanti, di Edwin Longsden Long (UK 1872)
raffigurante le retate contro i gitani in Spagna (1619 e 1779)

Un po’ per ignoranza e un po’ per interesse, le istituzioni europee hanno sempre diffuso miti falsi e fuorvianti fatti di stereotipi sessisti e razzisti decorati di fascino orientale.

Albrecht Durer, L’orientale e sua moglie,
Germania 1496

L’uomo “zingaro” è sempre stato descritto come il musicista solitario, il viaggiatore forte o il ladro di polli (fino ad arrivare al luogo comune del rapitore di bambini, mai confermato da alcun verbale di questura di nessun Paese in nessun momento storico); la donna “zingara” è, da giovane, la bellissima e affascinante danzatrice o cartomante e da vecchia la perfida strega (anche lei rapitrice di bambini). Figure letterarie come la Esmeralda di Victor Hugo o la Carmen di Prosper Merimée danno un’immagine affascinante di queste donne ma mostrano anche il contesto di pregiudizi che le circonda. Eppure, le persone nomadi non sono tutte rom: «su un melo, non tutte le mele sono uguali», dice un proverbio romanì.

Les Bohèmes, Manifesto scolastico, Francia 1970

Il primo Novecento europeo è intriso di razzismo. E questo non riguarda solo la Germania nazista. Nel 1913 La Francia, che ha già da molto tempo (almeno formalmente) abolito la schiavitù, continua a deportare le famiglie nomadi nelle colonie africane. Nel 1923 la Svezia presenta un progetto di legge, rimasta in vigore fino al 1974, in cui si autorizza la sterilizzazione forzata di vagabondi e omosessuali. A partire dal 1936 la Germania inizia gli esperimenti su persone rom, di cui l’esempio più noto è la colorazione artificiale degli occhi praticata ad Auschwitz dal dottor Josif Mengele. Nel 1940 la Francia istituisce i carnets anthropométriques, ovvero dei documenti a parte su modello lombrosiano per le persone nomadi, considerate non del tutto umane.

Carnets anthropométriques, Francia 1940

Negli anni della Seconda guerra mondiale il razzismo europeo raggiunge il suo tragico apice. Samudaripen o porradjmos – letteralmente «la morte di tutti» – è come in lingua romanì è chiamata la “soluzione finale” hitleriana. Mezzo milione di persone nomadi (secondo le stime ufficiali, ma probabilmente di più) sono state deportate e uccise nei campi di concentramento nazisti, in particolare in quello di Auschwitz-Birkenau. Tre dipinti della pittrice Ceija Stojka sono esposti al Mucem insieme al poema Auschwitz di Santino Spinelli Alexian.

Auschwitz, Fuga nella foresta, dipinto di Ceija Sojka (1994)
Opere di Ceija Sojka. A sinistra, Auschwitz, Verso il crematorio (2000); a destra, Auschwitz, Mamma dove sei? (2001)

Diversamente dalle altre vittime del nazismo, le persone nomadi sono state, ancora una volta, dimenticate dalla storia ufficiale. Al posto della stella gialla a sei punte o del triangolo rosa, il loro segno di riconoscimento all’interno dei lager era la Z, iniziale di Zigeuner (“zingari” in tedesco). Quasi nessuno parla di loro e della loro sofferenza. L’insurrezione gitana nel lager di Auschwitz, datata 16 maggio 1944, è scomparsa dalla memoria, mentre è rimasta celebre quella ebraica del ghetto di Varsavia. Solo nel 2016 la Francia si è formalmente scusata per le proprie responsabilità nello sterminio dei popoli nomadi. Allo stesso modo sono famosi i vari partigiani, eroi e salvatori di vite umane (soprattutto ebraiche), ma dov’è il riconoscimento per gli eroi di origine rom o sinti? Dove sono le strade o i monumenti dedicati a Josef Serinek, a Raymond Gureme, a Ivan Bilashchenko, ad Alfreda Marikowska o a Zsuzsana Horvath?

Ritratti di eroi Rom

«Gli errori del passato sono diventati una forza mobilizzatrice per la formazione dell’identità e della solidarietà romanì moderne e transnazionali»: è con queste parole che, nel 1971, si è tenuto il primo congresso mondiale rom

Ma il razzismo non è finito.

A partire dal 1969, per le istituzioni francesi, il nuovo termine per indicare i nomadi è “persone in viaggio” e i carnets anthropométriques sono stati sostituiti con i libretti di circolazione, volti a controllare (e impedire) gli spostamenti di persone che vivono in roulotte. È stata inoltre istituita una tassa sulle roulotte per rendere illegali tali abitazioni alle persone meno abbienti. Fuori dalle città francesi sono state istituite delle cosiddette “aree di accoglienza per persone in viaggio” («che non hanno proprio nulla di accogliente e spesso danneggiano la nostra salute», spiega uno dei curatori della mostra: oggi un proverbio romanì dice: «se cerchi l’area di accoglienza, cerca la discarica»).

In una stanza buia, verso la fine dell’esposizione, sono affissi i cartelli con cui “accogliamo” queste persone: «vietato ai nomadi» è la frase più ricorrente.

Vietato ai nomadi

La stessa stanza mostra i titoli dei giornali francesi degli ultimi anni. È ben leggibile la frase dell’ex primo ministro Manuel Valls: «La vocazione dei Rom è quella di tornare in Romania e in Bulgaria» (mentre, come abbiamo già visto, il popolo Rom non ha nulla a che fare con la Romania o la Bulgaria) o quella agghiacciante dell’ex sindaco di Cholet, Gilles Bourdouleix: «Probabilmente Hitler non ne ha uccisi abbastanza». Eppure una legge del 1881, tuttora in vigore, stabilisce un anno di carcere e l’equivalente di quarantacinquemila euro di multa per «coloro che provocheranno discorsi di odio o violenza verso una persona o un gruppo a causa delle sue origini o della sua appartenenza a una determinata etnia, nazione, razza o religione o a causa del suo sesso o orientamento sessuale o handicap». Proprio questa legge ha portato più volte a condannare il famoso opinionista xenofobo Eric Zemmour per le sue istigazioni all’odio razziale verso il mondo arabo, eppure le frasi gravi dette da vari uomini politici sulle persone “in viaggio” non vengono sanzionate.

Molti esponenti delle istituzioni europee continuano a sostenere che «i rom non vogliono integrarsi». Sorvolando sull’errore di chiamare “rom” tutti i popoli nomadi, occorre mettere in discussione anche il concetto ambiguo di “integrazione”. Vuol dire forse occidentalizzarsi? Assimilarsi alle culture dei Paesi in cui sono rifugiati (non di cui fanno parte)? Ovvero accettiamo popoli diversi dal nostro solo se smettono di essere sé stessi?

Un dipinto femminista spagnolo mostra l’ipersessualizzazione del corpo delle donne, anche quelle nomadi: la propaganda razzista e antiziganista occidentale ha sempre fatto leva sulla bellezza delle giovani donne-streghe per screditarle. Del resto, l’accostare i concetti di donna, strega e puttana non è certo una novità per l’Europa. Ma, nel caso di una “zingara” gli stereotipi si associano e si intrecciano e la leggenda è servita: ecco la bella cartomante che seduce e distrae il buon europeo onesto e cattolico mentre lo “zingaro” venuto da lontano lo deruba.

Femminismo Rom

La mostra si chiude in maniera ironica. Crescendo in un Paese dell’Europa occidentale, che idea si farà dei popoli in viaggio un gadjo? In lingua romanì si chiama “gadjo” colui che non appartiene alla comunità nomade. Ma è lecita anche la domanda inversa, e una sala della mostra spiega appunto alle persone nomadi come vive un gadjo. La “gadjologia” è una disciplina immaginaria ideata per questa mostra, che ci porta a riconsiderare con occhio critico la presunta scientificità e oggettività della basi e delle origini dei nostri pregiudizi.
Rom, sinti, manouche, eccetera, sono nomi con cui il mondo occidentale ha etichettato gli “stranieri” (e qui occorre ricordare che strano, straniero ed estraneo hanno la stessa etimologia), per poi rimescolare tutto nel termine zingari o gitani. E ha fatto altrettanto con sé stesso dividendosi in nazionalità. «Il gadjo», spiega un nomade «non ha consapevolezza di essere tale, non ha il sentimento di appartenere a una grande famiglia umana; le comunità dei gadje (plurale) usano un nome per designare sé stesse e uno per indicare le altre comunità». La gadjologia vede il passaggio storico della sedentarizzazione e quindi della costruzione delle case, elementi che non fanno parte della storia dei popoli nomadi.

Gadjologia, la sedentarizzazione

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Articolo di Andrea Zennaro

Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.

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