Pedagogia di genere e scuola primaria

Uno sguardo femminista che attraversa i saperi è il titolo di Feminism 6, la fiera dell’editoria femminista che si è svolta a Roma, presso la Casa internazionale delle donne dal 3 al 6 marzo 2023. Trovo che sia un titolo significativo che risuona nella mia mente e mi ha spinto, non a caso, a scrivere queste parole. La fiera dell’editoria femminista è stata una preziosa occasione per mettere in comune studi femministi e di genere, ricerche e pratiche nella scuola, ma anche nel mondo dell’attivismo, nelle istituzioni cittadine e comunali.

Vorrei qui, restringere il campo alla scuola e nello specifico a come la costruzione di una metodologia, volta a custodire e costruire una parzialità della conoscenza, possa abbracciare ogni disciplina e configurarsi come una vera e propria teoria sul metodo. Nelle facoltà che formano i futuri e le future insegnanti di scuola primaria, attualmente, non vi è traccia di un approccio teorico che consideri gli studi di genere. Le teorie femministe che oggi contribuiscono a creare la letteratura scientifica in ambito antropologico, storico, umanistico, non vengono considerate dunque contributi teorici fondamentali, atti a costruire una pratica di insegnamento. Nella maggior parte delle facoltà italiane di scienze della formazione primaria (laurea che abilita all’insegnamento), la pedagogia di genere è una disciplina non contemplata e se qualche studente legge testi di bell hook, ad esempio, è grazie alla sensibilità di docenti che considerano valido un approccio alla conoscenza legato al femminismo; ma questa scelta, attualmente, è legata alla sensibilità del singolo o della singola insegnante.

La facoltà di scienze antropologiche ed etnologiche dell’Università di Milano-Bicocca, prevede invece l’insegnamento della disciplina di antropologia di genere, anche perché la letteratura antropologica non trascura mai il contributo femminista anzi, lo riconosce come uno degli approcci fondamentali che ci aiutano a smascherare narrazioni egemoniche e a comprendere la complessità delle relazioni del passato ma anche del presente, a livello economico, politico, nelle scelte, negli orientamenti, nelle vite di ciascuno e ciascuna di noi. La facoltà di antropologia, in effetti, consente l’esercizio della professione di insegnante di lettere nella scuola media inferiore e superiore, dunque, a livello di formazione all’insegnamento, molto è cambiato rispetto a un paio di decenni fa. Tuttavia, dai piani di studio non sembra che la stessa cosa accada in altre facoltà considerate più legate alla professione (come le facoltà di lettere, matematica o altro). Si apre dunque lo stesso problema, nella formazione degli e delle insegnanti, che accade con la facoltà di scienze della formazione primaria: nella riflessione sul metodo di insegnamento non c’è un approccio alla conoscenza che consideri le teorie femministe. Ciò avalla un’idea di conoscenza (tipicamente ottocentesca), associata all’oggettività di un sapere assoluto che si esplica poi nei termini che così spesso vengono utilizzati a scuola, come giusto/sbagliato, vero/falso, inclusione/esclusione, ma anche maschio/femmina.

In un articolo del 2019 per Il Corriere della Sera, Barbara Mapelli sottolinea l’assegnazione di alcuni bambini o bambine a un genere maschile o femminile quando alla nascita sono “trattate/i” con interventi chirurgici precoci e trattamenti ormonali che durano quasi due decadi. Queste “terapie” causano modifiche irreversibili nei corpi, problemi di salute, traumi psicologici. Si tratta di persone intersessuali, vittime di una medicalizzazione che definisce corpi sbagliati e corpi giusti, un diktat culturale che prevede solo corpi di appartenenza binaria. In molti paesi oggi esistono leggi che tutelano maggiormente le diverse soggettività, tuttavia, se gli/le intersessuali sono persone presenti tanto quanto le persone con i capelli rossi (circa l’1% della popolazione) come sottolinea la stessa autrice in un altro articolo del 2021, è significativo pensare a come non vengano menzionate nelle narrazioni presenti negli ambiti formativi. Anche questa pratica può essere frutto di un’idea di conoscenza universale, che non tiene conto delle (così dette) minoranze e che semplifica la realtà a scapito di grosse sofferenze di non poche persone.

Tornando quindi a una teoria sul metodo della conoscenza che consideri gli studi femministi, occorre considerare alcuni capisaldi tratti dalla letteratura scientifica. L’approccio alla conoscenza è stato rivisitato e rivoluzionato negli anni Settanta del secolo scorso grazie alle teorie femministe. La riflessione verteva sulla possibilità della separazione fra l’impostazione impersonale della metodologia (associata a un’idea di maggiore scientificità) e una di stampo più personalistico (in Pinelli Barbara, Migranti e rifugiate, antropologia, genere e politica, Cortina, 2019,pag. 33) ed empatico. La prima coincide con il rigore della scienza considerato oggettivo, la seconda con una conoscenza fondata sulla relazione. Secondo la sociologa Dorothy Smith (1987) e l’avvocata Catharine MacKinnon (1982) occorre accettare che la conoscenza è fortemente legata alla posizione in cui ci si mette per osservare la società e che peraltro, tale parzialità non andava confusa con emotività o poca scientificità. Si fa riferimento qui, alla possibilità di esistenza di una conoscenza universale che è prodotta da persone in posizioni di dominio e che si configura come un pensiero egemonico. Un universo di segni con i quali significare la realtà, i corpi, le persone e le loro vite. In ambito pedagogico non potremmo non menzionare quindi le scelte formative che vengono anch’esse plasmate in base ai modelli di riferimento. Non si tiene dunque conto, così facendo, della possibilità di dar voce a chi possiede esperienze diverse, a chi è posizionato ai margini. Queste riflessioni sulla parzialità della conoscenza nacquero dalla volontà di costruire un “punto di vista delle donne”. Ma non solo: di quali donne si stava parlando, considerato che, negli anni ‘50, la maggior parte delle donne bianche di estrazione sociale medio alta aveva una domestica di colore? Nacque così il femminismo nero.

La filosofa Sandra Harding lavorando sulla standpoint theory, definisce un’oggettività forte in antagonismo all’oggettività scientifica (che definisce debole poiché inconsapevole della sua limitatezza). La standpoint theory si pone come teoria sul metodo. La conoscenza è così sempre incarnata e situata. Conoscere significa avere consapevolezza dei linguaggi dominanti poiché prodotti da persone in posizioni di dominio. Come può l’insegnante mantenere questo approccio nella pratica quotidiana? Alcune risposte sono semplici e forse scontate grazie alla ricca letteratura per l’infanzia legata al genere nata negli ultimi 10 anni. Penso a case editrici, come Settenove, ma anche tante altre che affrontano e contemplano nuove narrazioni, utilizzando la presenza delle donne in ottica non compensativa ma contributiva. Occorre però anche considerare il dubbio nella pratica quotidiana, mostrare come anche libri classici (e spesso testi scolastici) non siano privi di orientamenti di valore appartenenti a chi scrive e mostrare come sia possibile mettere in discussione termini, giudizi, definizioni sessiste stereotipate o anche solo binarie, che non contemplino altre possibilità dell’esistere e dello stare al mondo. Occorre dunque sempre tenere presente come le norme siano prodotti sociali, quindi possano variare (e siano già molto variate) nel corso del tempo, come le norme che regolano i rapporti di convivenza. Occorre considerare la parzialità della conoscenza per far fronte al cambiamento che c’è stato e che presenta caratteristiche molto forti di ambivalenza, poiché importanti trasformazioni (penso alle trasformazioni epocali nel diritto di famiglia ad esempio, avvenute negli anni Settanta, ma anche all’avvento degli studi di genere in Italia, che in alcune facoltà esistono, cosa che non accadeva fino a un decennio fa) convivono con tradizioni del passato. Problematizzare i testi scolastici, la narrazione dei problemi in matematica, umanizzare e valorizzare i periodi storici in cui sono vissute scienziate e scienziati, intellettuali, artiste e artiste è il primo passo per legittimare il nascere di identità autentiche lontane da gabbie di genere che rischiano di stereotipare le scelte formative e l’immagine di sé di bambine e bambini. Gli articoli citati di Barbara Mapelli si possono trovare qui: https://27esimaora.corriere.it/19_febbraio_18/non-ci-sono-corpi-giusti-o-sbagliati-riflessione-intersessuali-tutti-tutte-fef16f52-288a-11e9-a9a8-f8d43e37edc8.shtml

https://27esimaora.corriere.it/21_febbraio_16/bambina-che-non-poteva-avere-capelli-rossi-0ccbd6ba-6b9d-11eb-8932-bc0ccdbe2303.shtml

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Articolo di Patrizia Danieli

Nata nel 1980, Patrizia Danieli è educatrice alla teatralità e insegnante. Laureata in scienze dell’educazione e della formazione primaria, da diversi anni si occupa di pedagogia di genere, attraverso percorsi di formazione per adulti e adulte, ma anche attraverso laboratori di narrazione per bambini e bambine. Nel mese di marzo 2020 ha pubblicato Che genere di stereotipi? Pedagogia di genere a scuola. Per una cultura della parità, Ledizioni. Scrive sul blog http://www.questionidigenere.com

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