«Una poesia che con ironica precisione permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti di realtà umana».
Wisława Szymborska nasce a Bnin, oggi parte di Kórnik, nei pressi di Poznan il 2 luglio 1923.

Nel 1929 si trasferisce con la famiglia a Cracovia dove frequenta il ginnasio e più tardi, tra il 1941 e il 1943, lavora come impiegata alle ferrovie per evitare la deportazione.
Pubblica la sua prima poesia nel 1945 sul quotidiano Dziennik Polski e in quell’anno si iscrive alla facoltà di lettere e sociologia, ma interrompe gli studi perché, come lei stessa più tardi spiegò: «Nel 1947 la sociologia diventò mortalmente noiosa; si doveva spiegare tutto con il marxismo. Ho lasciato l’università perché già allora dovevo guadagnarmi da vivere».
Nel 1952 esce il suo primo volumetto di poesie Per questo viviamo e in quello stesso anno entra a far parte del Partito Operaio Unificato Polacco. Nel 1954 esce Domande poste a me stessa. Di queste due prime raccolte Szymborska non ha mai più autorizzato la ristampa.

Nel 1957 pubblica Appello allo Yeti, nel quale già mostra di essersi allontanata dall’ideologia comunista anche se la rottura formale arriverà nel 1966, quando per solidarietà con il filosofo Kolakowski, espulso dal Partito, Szymborska ed altri scrittori restituiranno la tessera.
Tre anni dopo tiene anonimamente la rubrica Posta Letteraria della rivista Vita Letteraria, in cui esamina manoscritti di aspiranti scrittori e sceglie quali poesie pubblicare.
Negli anni Settanta abbandona questo incarico e continua la sua intensa attività di traduttrice dal francese.
Nel frattempo insegna, pubblica alcuni libri tradotti dal ceco e dallo slovacco, abbandona l’ostello di via Krupnicza e si trasferisce per la prima volta in un piccolo appartamento tutto suo, “il cassetto”. Quando nel 1983 viene sciolta l’Unione dei letterati polacchi, gli scrittori e le scrittrici continuano a incontrarsi in clandestinità in circoli organizzati da Szymborska e dal filosofo Filipowicz, suo compagno.
Nel 1991 le viene assegnato il premio Goethe. Nel 1995 riceverà la laurea honoris causa dell’Università di Poznan e il premio Herder dall’Università di Vienna.

I riconoscimenti nel corso degli anni si moltiplicano fino al Nobel nel 1996.
Nel 2002 esce Attimo, primo volume di poesie dopo il Premio Nobel e, nel 2003, Filastrocche per bambini grandi, un’insolita raccolta di poesie scherzose illustrate da suoi collage. Seguono nel 2005 Due punti e nel 2009 il volumetto Qui. Il 1º febbraio 2012 Wisława Szymborska muore nel sonno nella sua casa di Cracovia.

All’epoca del Nobel, Szymborska in Italia è quasi sconosciuta, anche perché tutta la letteratura polacca non era popolare e la critica italiana accoglie la notizia con una certa diffidenza e perplessità. In pochi anni però, la sua posizione nel panorama culturale italiano cambia completamente e le sue opere vengono tradotte, stampate e ristampate in tutta Europa.
Wisława Szymborska non ha mai amato parlare di sé e delle sue opere: è schiva, timida, riservata. In occasione del Nobel è costretta a farlo ma lo fa a suo modo, con l’ironia che la contraddistingue. Inizia così il discorso pronunciato il 7 dicembre 1996 all’Accademia Reale di Svezia: «In un discorso, pare, la prima frase è sempre la più difficile. E dunque l’ho già alle mie spalle… Ma sento che anche le frasi successive saranno difficili, la terza, la sesta, la decima, fino all’ultima, perché devo parlare della poesia. Su questo argomento mi sono pronunciata di rado, quasi mai. E sempre accompagnata dalla convinzione di non farlo nel migliore dei modi…».
Al centro del discorso, Szymborska pone i tre punti fondamentali del suo essere poeta: l’ispirazione, i “non so” e lo stupore.
Riguardo all’ispirazione afferma che essa non è una prerogativa dei poeti ma è di tutti gli individui che svolgono un lavoro con passione e con curiosità che non viene mai meno perché ogni volta che risolvono un problema, immediatamente in loro nascono nuovi interrogativi.
Così «… il poeta, se è vero poeta, deve ripetere di continuo a se stesso “non so”. Con ogni sua opera cerca di dare una risposta, ma non appena ha finito di scrivere già lo invade il dubbio e comincia a rendersi conto che si tratta d’una risposta provvisoria e del tutto insufficiente…»
E proprio dai “non so”, due paroline “brevi ma alate” come lei stessa le definisce, nasce l’ispirazione, dall’incessante ripeterle a se stessi in modo da non adagiarsi sul già noto e non dare nulla per scontato.
E infine lo stupore: il mondo, secondo Szymborska, è uno “smisurato teatro” stupefacente «Ma nella definizione “stupefacente” si cela una sorta di tranello logico. Dopotutto ci stupisce ciò che si discosta da una qualche norma nota e generalmente accettata, da una qualche ovvietà a cui siamo abituati. Ebbene, un simile mondo ovvio non esiste affatto. Il nostro stupore esiste per se stesso e non deriva da nessun paragone con alcunché […] nel linguaggio della poesia, in cui ogni parola ha un peso, non c’è più nulla di ordinario e normale.»
E la capacità di meravigliarsi, di stupirsi, l’accompagnerà per tutta la vita; anche da anziana, Szymborska avrà sempre lo stupore dei bambini che riescono così a vedere il mondo nella sua interezza. Lo stupore sarà una componente fondamentale della sua poesia. La poesia è allora lo strumento per parlare dello straordinario nell’ordinario.
Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore
[Ogni caso, 1972]
Nelle poesie di Wisława Szymborska anche l’ironia ha un ruolo fondamentale e, affiancata a immagini concrete, alleggerisce il testo proprio quando il centro dei suoi versi sembrano essere le grandi domande e il senso dell’esistenza, trasformando la drammaticità in un sorriso.
E c’è anche la malinconia che deriva da un lato dalle vicende storiche – ha vissuto il nazismo, il totalitarismo comunista – e dall’altro dalle sofferenze e dalle perdite affrontate nella vita, anche se non traspare disperazione o angoscia.
Nelle sue opere, inoltre, non mancano l’attualità e una componente di denuncia per ciò che il mondo si trova a vivere che lei esprime sempre senza retorica, con uno stile semplice e lineare, in versi liberi.
In Vietnam (dalla raccolta Uno spasso, 1967), Szymborska va oltre il momento storico per giungere alla condizione della guerra di ogni tempo e luogo.
E i dubbi, i “non so”, acquisiscono un valore universale così come l’unica certezza: l’amore della madre per i figli.
Donna, come ti chiami? – Non lo so.
Quando sei nata, da dove vieni? – Non lo so.
Perché ti sei scavata una tana sotterranea? – Non lo so.
Da quando ti nascondi qui? – Non lo so.
Perché mi hai morso la mano? – Non lo so.
Sai che non ti faremo del male? – Non lo so.
Da che parte stai? – Non lo so.
Ora c’è la guerra, devi scegliere. – Non lo so.
Il tuo villaggio esiste ancora? – Non lo so.
Questi sono i tuoi figli? – Sì.

Qui le traduzioni in francese, inglese, spagnolo e ucraino.
***
Articolo di Gabriella Milia

Ho insegnato per molti anni materie letterarie negli istituti tecnici e professionali. Mi sono sempre interessata di letteratura italiana e inglese, in particolare letteratura femminile. Da quando sono in pensione, collaboro con l’associazione di volontariato Più Culture, insegnando italiano L2 a ragazze e ragazzi stranieri in difficoltà.

Un commento