Il romanzo di Paolo Cognetti (nato a Milano nel 1978) Le otto montagne, pubblicato da Einaudi nel 2016 e vincitore del Premio Strega l’anno successivo, è tornato in auge negli ultimi mesi, grazie alla realizzazione dell’omonimo film diretto dai registi belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, con attori protagonisti Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Allo stesso modo dell’opera letteraria, anche a quella cinematografica è stato dato un prezioso riconoscimento: il David di Donatello 2023 come Miglior film.

Ma che genere di storia è quella delle Otto montagne? Probabilmente questa non è una storia per la massa, perché è una storia in sottrazione, che si sedimenta dentro chi la legge lentamente. Infatti è una vicenda umana che non ha bisogno di immagini o di parole superflue. Ma agisce, si fa spazio negli angolini del cuore e resta lì. Per chi in montagna ci è cresciuto (e magari sarò di parte ad ammetterlo), addentrarsi nella storia di Paolo Cognetti è come chiamare le cose con il proprio nome, è come posare lo sguardo dove si è sempre stati. È un’attrazione dove l’essenzialità regna, dove un’amicizia dipana il proprio filo.
Sono piene di significati queste otto montagne. E chissà se davvero esistono montagne a cui non si può tornare, chissà se è meglio compiere l’intero percorso o restare fermi nella cima posta al centro. Questa doppia prospettiva se la pongono i due protagonisti, Pietro e Bruno, e alla fine entrambi faranno la propria scelta, lasciando che l’altro sia libero. E c’è continuità – eppure non c’è – in questa volontà di lasciare libero l’amico. C’è costanza, ma non invadenza, c’è rispetto, ma non giudizio, allo stesso modo, nel perenne orizzonte su cui gli eventi e le emozioni si stagliano. E quanti silenzi, quanti dialoghi così scarni ed essenziali, quante parole misurate, spontanee si fanno portavoce dello scorrere del tempo. Non potrebbero essere più diversi, questi due bambini, poi questi due uomini. Eppure, si rendono conto di desiderare la stessa genuinità d’animo, lo stesso traguardo cui arrivano attraverso percorsi divergenti. Infatti, quello di Cognetti non è solo un racconto che rende la montagna parte viva, come fosse carne e ossa, ma è anche un racconto di amicizia – che attraversa diversi decenni e fasi della vita. Se prima troviamo due bambini a tratti diffidenti uno verso l’altro, che giocano al torrente e portano gli animali al pascolo – in seguito ecco due adolescenti che faticano a parlarsi e a rapportarsi con la verità, fino ad avere due uomini che non hanno bisogno di parole superflue, e che sanno vivere la gratuità della loro amicizia. Elena Ferrante, forse, penserebbe che anche questa – come la sua Amica geniale – alla fine diventi una storia «di chi fugge e di chi resta», ma siamo sicure che, in fondo, per qualcuno in particolare queste azioni non abbiano lo stesso significato? A ogni modo, a chi legge o a spettatori e spettatrici, la libertà di interpretare – senza anticipare ulteriori dettagli.

Come si condensa la grandezza di una storia se non con la suggestione di un paesaggio magnifico? Ecco, sono queste le otto montagne. La bellezza di allargare il proprio sguardo, di osservare la terra da vicino (no, Bruno non vorrebbe che si dica “natura”, perché così dicono solo “quelli di città”), con la fatica che essa richiede ogni giorno, con l’attenzione all’immutabilità del luogo quanto alla sua parallela e costante mutazione – che sia inverno, estate, primavera. Perché la montagna è così, per chi la abita o la frequenta abitualmente: ti insegna ad apprezzare ogni scorcio sotto una luce diversa, ogni cima, ogni angolo di prato e ogni nuvola. Non importa quante volte tu avrai già osservato quello stesso punto, ma per te sarà sempre come nuovo e intatto. E la storia delle Otto montagne evidenzia, non meno importante, anche questo risvolto: non è necessario visitare chissà quale località montana rinomata per trovare ciò che ci fa stare bene. Grana (Val d’Aosta) è un paesino qualunque, eppure è diventato il centro del mondo per qualcuno.
Ecco perché bisogna ringraziare il potere che alcune storie sanno regalare: perché possiamo imparare l’arte del custodire.

Paolo Cognetti
Le otto montagne
Einaudi, Torino, 2018
pp. 200
***
Articolo di Francesca Bertuglia

Classe 1996, laureata in Lettere moderne all’Università degli Studi di Milano, cresciuta a stretto contatto con ambiti associativi, da sempre appassionata di letteratura, giornalismo e mondo editoriale. È dell’idea che scrivere di Cultura educhi alla bellezza e alla conoscenza in un’ampia prospettiva.

Un commento