Proseguiamo con gli articoli che riportano gli studi condivisi durante il seminario Le donne del libro. Presenze e testimonianze in età moderna, tenutosi a Firenze il 26 maggio con la collaborazione del dipartimento Sagas. Interviene Valentina Sozzini, curatrice dell’evento assieme a Isabella Gagliardi, che si è occupata del tema “Le librare, monache bibliotecarie”. La professoressa studia, da un paio di anni, la presenza delle monache, definite appunto librare, che svolgevano la funzione di bibliotecarie all’interno dei monasteri. Questo filone di studi è partito dall’analisi del testo del 1612, Le Costituzioni di Santa Marta, di Vittorio Baldini, tipografo di Ferrara di fine Cinquecento. Il testo, conservato parzialmente, riporta sul frontespizio la dicitura delle madri. Sono state indagate le motivazioni che spinsero le monache genovesi a commissionare questo libro di regole monastiche a Ferrara e come sia stato svolto il duplice ruolo di committenti e di editrici dell’opera. Proprio dalla costituzione è emersa la figura delle monache bibliotecarie perché qui sono state trovate le prime informazioni in merito. Si evince, anche, che all’interno dei monasteri c’era uno spazio destinato ai libri, spazio precluso e vigilato. Il materiale della biblioteca era messo a disposizione attraverso una mediatrice, la librara cioè la monaca deputata a questo ruolo specifico. Di conseguenza, si è potuto constatare che le monache sono state anche delle lettrici.
Grazie al testo e alle sue ulteriori quattro edizioni, ne sono stati analizzati molti altri a seguire, appartenenti a ordini monastici presenti a Genova, per indagare la presenza femminile nelle tipografie dell’epoca. La monaca libraia svolgeva tre funzioni: una di carattere bibliotecario, infatti tracciava i prestiti e compilava il catalogo dei testi; una di conservazione e collocazione dei materiali, che venivano riparati ed esposti in ordine alfabetico per titolo o per autore; e una di censura e vigilanza riguardo i testi ammessi nel monastero e la quantità di questi concessa a ogni monaca (in genere uno per camera). Purtroppo, le testimonianze reperite sono poche: alcune sono conservate nell’Archivio di Stato di Torino. La monaca libraia era, molto probabilmente, una persona di fiducia della superiora con cui collaborava direttamente. La designata doveva avere competenze specifiche, tanto che si pensa potesse essere la superiora stessa o venisse scelta in base all’inclinazione personale o al ceto di appartenenza. Sulla base di quanto emerso, non sembra si trattasse di un ruolo svolto a turno o a rotazione. Quel compito infatti comportava il privilegio di poter accedere a tutti i volumi della biblioteca senza stretti controlli.
La tipologia dei libri nei monasteri spaziava tra quelli di musica, canto, mistica, regole spirituali e vite di Santi. Non si è trovata però alcuna planimetria che indichi quali spazi del convento venivano dedicati alla biblioteca, quello che possiamo affermare con certezza è che, prevedendo ci fosse una monaca a ricoprire il ruolo e ad avere la preparazione specifica, era sorta la necessità non solo di custodire i libri posseduti, ma anche di aumentare il patrimonio librario e di tracciare e registrare il tutto attraverso la compilazione di cataloghi. Probabilmente, nell’economia del monastero, oltre al numero dei volumi che venivano reperiti grazie alle doti delle novizie, era prevista una spesa specifica da investire in nuovi acquisti. Alla figura della bibliotecaria spesso veniva affiancata quella della monaca archivista che svolgeva le proprie funzioni di scrittura in una stanza adibita ad archivio. Qui venivano conservate le scritture del monastero, con ordine e distinzione.
Il terzo intervento del seminario si conclude con l’elenco delle questioni che restano ancora da indagare: comprendere con certezza quale fosse la dotazione libraria dei monasteri, quali i volumi, la loro entità e tipologia; quale fosse la destinazione dei fondi monetari annuali per l’acquisto o la stampa di volumi; quali fossero gli spazi del convento dedicati alla biblioteca e alla conservazione dei materiali, ma pure come avveniva la scelta e quale fosse la loro capienza, infine se permettevano lo studio individuale o solo collettivo.
Il seminario è proseguito poi con l’intervento della professoressa Tiziana Plebani, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, dal tema “Lettrici per mestiere (XVI secolo)”. La studiosa ha condiviso le difficoltà legate alla conduzione della ricerca: sono stati fatti pochi progressi e, ancora oggi, si conosce molto poco sia del mestiere di lettrice nel Sedicesimo secolo sia dell’attività di lettura in senso più ampio. Lo studio è partito dalla ricerca di biblioteche possedute dalle persone dell’epoca e, in particolare, dalle tracce lasciate dalla rete che ruotava intorno alle biblioteche individuate fino a focalizzare l’attenzione sulle indicazioni della presenza femminile. Una volta acquisita la traccia di tale presenza, questa non basta ad affermare che si tratti, di conseguenza, proprio di una lettrice. Si prendono in considerazione le tracce nei marginalia o i nomi presenti sui libri che ne indicano la proprietà. Si analizza anche il genere di lettura effettuato, che poteva riguardare attività di studio, di svago, di recupero delle informazioni e di soddisfacimento di bisogni personali. All’epoca la lettura era una pratica elettiva riservata a chi disponeva delle possibilità, sia intellettuali che economiche, per dedicarvisi con interesse e costanza. È indispensabile, ma complicato, comprendere se la lettura di un testo avveniva in maniera integrale o parziale, quali erano le informazioni ricercate attraverso la lettura, se si svolgeva in modo sistematico o saltuario, a voce alta o a mente, se coinvolgeva più persone o richiedeva momenti di solitudine, se e quali erano le conseguenze cognitive ed emotive che scatenava nella lettrice. Sono stati forniti diversi documenti e testi di analisi e studio, come quello riguardante il carteggio di una donna veneziana popolare, ma non sappiamo se, quanto studiato riguardo le lettrici di Venezia, possa valere per tutte, ma possiamo supporre di sì.
Il pubblico delle lettrici cresce e si diffonde con l’avvento della stampa e della lingua volgare. Le donne avevano un rapporto sia diretto che indiretto con la lettura: in questo secondo caso cedevano al piacere di affidarsi e ascoltare la lettura altrui. La lettura è stata, quasi sempre, considerata in modo scisso dall’alfabetizzazione, mentre le due cose andrebbero considerate interconnesse. L’ambiente familiare in cui veniva a trovarsi ogni donna diventava fondamentale per lo sviluppo della lettura. Pensiamo ai casi in cui l’istruzione veniva impartita ai ragazzi. Questi ultimi riportavano a casa quanto appreso a scuola: le sorelle, così, venivano alfabetizzate e introdotte allo studio. Le donne del Rinascimento edotte e attive riguardo a cariche e mestieri erano molto numerose, ciò si evince dagli statuti rinvenuti di piccole scuole. Possiamo considerarli riscontri indiretti della condizione femminile di lettrice dell’epoca.
Le considerazioni conclusive sono state molteplici. Con l’avvento della stampa, la lettura divenne un fenomeno che non riguardava più solo il ceto alto ma coinvolgeva anche i ceti medio e basso. Tutte le donne che, fino ad allora, non avevano avuto la possibilità di accedere all’istruzione e all’informazione, poterono finalmente sviluppare questa pratica. Molti opuscoli dell’epoca appartenevano a persone autodidatte, cioè coloro che, non potendosi permettere un maestro, stampavano e divulgavano in modo autonomo saperi e conoscenze. Molta fortuna ebbe la lettura di piccoli manuali, utilizzati da tantissime donne e attualmente assai difficili da ritrovare. Anche i prontuari ebbero parecchio successo; tra i più diffusi vi erano quelli che riportavano usi e costumi femminili nel quotidiano, cure mediche, consigli su come prendersi cura di sé, degli effetti e affetti personali. Da tutto questo materiale emerge l’interesse che avevano le donne nella loro consultazione e quindi le abitudini di consumo, le arti, le abilità nei mestieri che potevano imparare e mettere a frutto per trarre eventualmente una fonte di guadagno per sé e il nucleo familiare.
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Articolo di Michela Di Caro

Originaria di Matera, vivo a Firenze da 15 anni. Studente, femminista, docente di sostegno di Scuola Secondaria di II grado, sono fisioterapista libera professionista e mamma di tre piccole donne.

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