Filosofia anarca-femminista. Intervista a Chiara Bottici  

Chiara Bottici: filosofa e saggista italiana, è professoressa associata di Filosofia alla New School for Social Research di New York. L’abbiamo intervistata per dialogare a partire da temi riguardanti la crisi della riproduzione sociale e il femminismo intersezionale. 

Nel nostro Paese, ciclicamente, si ripropone il tema della denatalità. La crisi della riproduzione sociale è un fenomeno noto, oggetto di studio.  
Il problema della denatalità è un risultato diretto di quella che è la crisi di cura. Questa crisi è determinata dal conflitto tra il sistema sociale capitalista, votato all’accumulo infinito del profitto individuale, e i bisogni di cura e di riproduzione che necessitano, non solo di cura materiale, tempo dedicato alla cura dei figli, della casa e degli anziani, ma anche delle risorse emotive e affettive per prendersene carico. Ciò comporta un allontanamento dell’età in cui vengono fatti i figli e anche, ovviamente, un calo demografico.  
I dati indicano chiaramente che non si tratta semplicemente di una questione riguardante il rapporto tra uomini e donne: si tratta di uno schema almeno quadripartito tra uomini e donne bianche e uomini e donne immigrate. Questa catena a quattro diventa evidente quando analizziamo il quadro da un’ottica femminista e intersezionale, o piuttosto anarca-femminista. Preferisco utilizzare questa espressione per sottolineare come i meccanismi di oppressione e discriminazione veicolati dallo sfruttamento capitalista vengano diversamente distribuiti all’interno della razionalizzazione della produzione del capitale, in base alle diverse posizioni occupate secondo razza, genere o etnia. Vista con questa prospettiva, è subito evidente che la denatalità, che si registra nel caso degli italiani, spesso è compensata da un eccesso di natalità da parte degli immigrati. L’analisi anarca-femminista ci aiuta a comprendere come le due cose vadano insieme. 

Può spiegarci di cosa si tratta? 
Il modello di sviluppo economico di accumulazione del profitto, che ci propone personalità interessate a un percorso di affermazione individuale infinito, non è incompatibile con il modello in cui il lavoro di cura rimane comunque a carico di quelle persone che occupavano ruoli tradizionali all’interno della famiglia etero normativa. Succede che le donne, o chi altro si trova a occupare la posizione dei secondi sessi e a fare lavoro di cura, devono impersonare sia il ruolo di Cappuccetto Rosso, che quello del lupo cattivo: a casa esercitare doti e qualità di cura, attenzione e sacrificio per l’altro, fuori casa competere spietatamente nel mercato, insieme a tutti gli altri lupi. Questo crea una crisi sia a livello di gestione del tempo, perché non è possibile fare sempre tutte e due le cose, sia a livello psicologico, perché mette un onere, sulle spalle di chi fa un lavoro di cura, insopportabile.  
La conseguenza è una crisi strutturale, materiale e anche ideologica: stiamo attraversando un momento di messa in discussione della famiglia tradizionale patriarcale. Il modello familiare basato sul reddito mononucleare del maschio patriarca capofamiglia, il solo portatore di salario, è in crisi perché è stato necessario introdurre massimamente anche le donne, e tutti i secondi sessi più in generale, nel mercato del lavoro salariato. Nei Paesi occidentali, il modello sempre più prevalente è infatti quello della famiglia multi-reddito, in cui necessariamente qualcuno deve fare Cappuccetto Rosso e il lupo cattivo allo stesso tempo. Ciò comporta, di conseguenza, una riconsiderazione dei ruoli all’interno della famiglia, nella divisione del lavoro, e crea quella che è la crisi dei modelli disponibili. Insomma, nelle fiabe, o fai Cappuccetto Rosso, o fai il lupo cattivo. Nel caso della crisi della riproduzione sociale, sono soprattutto i secondi sessi che devono fare allo stesso tempo Cappuccetto Rosso e il lupo cattivo, mentre molto spesso gli uomini possono continuare a fare solo il lupo cattivo perché questo è in consonanza con il loro ruolo, assegnato dal patriarcato, di padrone della casa.  

Cosa s’intende per riconsiderazione dei ruoli tradizionali e quali possono essere le azioni da intraprendere? 
Avendo sottolineato quanto il peso sui secondi sessi sia gravoso, è necessario a mio avviso che anche gli uomini se ne facciano carico e rimodulino, di conseguenza, la propria posizione all’interno della famiglia. Può accadere che il momento di revisione dei ruoli tradizionali si verifichi ancora con grande confusione. Diventa facile, ad esempio, confondere il femminismo con il donnismo, ossia la situazione in cui le donne stesse siano passate ad assumere una posizione di comando e privilegio su tutti. Ovviamente questo non è femminismo, perché sarebbe un reiterare gli stessi meccanismi di dominazione che hanno portato noi ad essere il secondo sesso, semplicemente invertendo i ruoli.  
Femminismo vuol dire, nel nostro contesto, una critica globale della discriminazione di genere, compresa quella verso i maschi. Mi preme evidenziare questo aspetto perché, nonostante le grandi conquiste del femminismo, attualmente siamo in una situazione di stallo. Credo ciò sia dovuto al fatto che gli uomini non hanno preso parte sufficientemente attiva, manifestando una solidarietà costante verso il movimento femminista. Per fare un parallelismo, le conquiste salariali dei lavoratori sono state fatte perché persone come Karl Marx e Friedrich Engels, che non erano esattamente proletari sfruttati, sono scesi in piazza coi lavoratori. Quanti uomini ci sono che scendono in piazza con il secondo sesso? A mio avviso non si è ancora visto il Karl Marx del femminismo.  
Gli uomini devono rendersi conto, non solo per solidarietà nei confronti dei secondi sessi, che questo sistema, il Patriarcato, non fa bene a nessuno, neanche a loro. Essere in una posizione di dominio crea, a sua volta, una visione della mascolinità limitante, imponendo ruoli insostenibili per tutti. C’è una crisi di cura che genera una crisi di ruoli che, a sua volta, genera una crisi di relazioni. Nessuno ha da guadagnarci qualcosa eccetto, appunto, una piccolissima quantità di capitalisti che sfruttano il lavoro altrui e possono permettersi di delegare il lavoro di cura a babysitter, badanti e altre forme di aiuto domestico salariato. 

La crisi della riproduzione sociale è strettamente connessa alla messa in discussione del sistema economico capitalista (Neoliberista) e del Patriarcato. L’insostenibilità della riproduzione rivela l’insostenibilità del sistema?  
Il Patriarcato è mescolato al sistema di sfruttamento capitalista. Il Capitalismo non ha inventato il Patriarcato, ne ha ripreso forme precedenti e le ha innescate in questa morsa, da cui non è facile districarsi, di sfruttamento economico capitalista. A partire da questo individualismo che ci proietta come agenti nel mercato libero, costantemente in competizione con gli altri, si rovinano quelle che erano le risorse prima disponibili, in tal caso la famiglia e il clan familiare allargato, senza proporre modelli alternativi di comunità.  
Seguendo il punto di vista dell’evoluzione dell’essere umano, possiamo fare diverse considerazioni. Le due caratteristiche principali della specie riguardano il fatto che la prole rimane per lunghissimo tempo dipendente dal genitore e i corpi smettono di avere funzione riproduttiva quando entrano in menopausa (le donne) o in andropausa (gli uomini). Ciò risulta vantaggioso perché mentre chi è nella fase riproduttiva deve occuparsi della prole, vi è un’altra persona che può andare a cercare il cibo. Questa funzione è quello che si chiama il vantaggio della nonna e del nonno.  
Tradizionalmente era questa struttura che aiutava nel processo di riproduzione sociale e nel lavoro di cura. Essendo adesso proiettati nell’ individualismo, che si centra sulla famiglia mononucleare costituita da mamma, babbo e figli come unico nucleo familiare, succede che tutto il lavoro ricade sui membri dell’immediato nucleo familiare, senza avere quelle che erano le tradizionali risorse di cura fornite dalla famiglia allargata, costituita da nonni, nonne e zie. I supporti e i tipi di sostegno che vengono forniti a livello di comunità cambiano nei diversi contesti. Laddove non c’è alcun tipo di sostegno nella cura dei figli da parte della società più in generale (sottoforma di asili nido gratuiti, ad esempio) si crea una situazione di crisi della riproduzione drammatica.  
Le famiglie di immigrati molto spesso sono invece costituite da famiglie allargate, nonni e zii sono presenti in una relazione di sostegno reciproco. Ecco perché in quei contesti si fanno ancora i figli: perché si può contare sulla famiglia allargata come modello di sostegno.  

Il modello di famiglia allargata prevede la presenza fisica dei componenti del nucleo familiare. È ancora un modello possibile data l’emigrazione crescente dovuta al bisogno di anteporre lavoro, salario e carriera migliori a scapito degli affetti? 
Questo fenomeno si chiama The Global Care Chain, cioè la catena di cura globale. Altra conseguenza del Capitalismo, a livello globale, è che molti nuclei familiari risultano essere sempre più spezzati perché le possibilità effettive di migrazione, all’interno di singoli Paesi da certe aree ad altre e a livello internazionale, sono sempre più cospicue. Non c’è da patologizzare l’idea di affermazione e sviluppo personale, sicuramente per i secondi sessi ha voluto dire anche emancipazione dalla famiglia tradizionale e dai ruoli tradizionali. Il problema è che questa emancipazione, poi, ci si ritorce contro perché non riusciamo a creare equilibrio tra i ruoli esistenti all’interno del modello individualista.  
Solo in un modello in cui le responsabilità sono divise equamente, sia all’interno dei nuclei familiari sia all’interno della società in generale, laddove ci siano più consapevolezza dei bisogni e degli obblighi sociali, meno accumulo di profitto individuale e meno disuguaglianze economiche, verrebbe meno la crisi di denatalità e ci sarebbero più possibilità di fare figlie e figli.  

Nel suo ultimo libro pubblicato, Nessuna sottomissione. Il femminismo come critica dell’ordine sociale, emerge l’invito a essere femministe intersezionali. Può spiegarci cosa significa e perché conviene esserlo? 
E anarchico. L’idea fondamentale è molto simile. Comprendere il proprio stato di sottomissione di secondo sesso e, contemporaneamente, abbracciare anche tutte le altre questioni che il sistema economico e sociale rende insostenibili: per esempio la causa ambientale, quella etnica e quella dello sfruttamento capitalista.  
Il modello economico attuale è votato all’accumulazione infinita del profitto, perché Capitalismo vuol dire che non c’è fine alla possibilità di far crescere il capitale, in un mercato dove tutti possono competere. La realtà è che sono pochissimi quelli che riescono a farlo e questi pochissimi possono accumulare profitto solo perché sfruttano il lavoro salariato, che è parte del mercato del lavoro, e ancora di più il lavoro che viene svolto in maniera gratuita. Gran parte del lavoro necessario per l’accumulazione capitalista viene svolto gratis e rubato dai secondi sessi che svolgono il lavoro di cura gratuitamente. Se il capitalista, proprietario d’azienda, dovesse pagare per tutto il lavoro necessario a nutrire, pulire, mantenere il lavoratore e le lavoratrici, non ci sarebbe accumulo infinito di profitto, e quindi non ci sarebbe Capitalismo. Ci sarebbe un limite creato, appunto, dai grandi conti da pagare a lavanderie, ristoranti, centri psicologici, assistenza domiciliare, eccetera eccetera.  
Allo sfruttamento del lavoro si affianca poi lo sfruttamento infinito e indefinito delle risorse naturali, come se queste fossero sempre disponibili. Bisogna parlare di crisi della riproduzione sociale guardando non solo alla riproduzione di neonati, ma anche alla riproduzione dei corpi stessi e a un sistema economico che non è compatibile con un pianeta dove le risorse sono limitate e non infinitamente rinnovabili.  

I suoi studi sul femminismo sono confluiti nel Manifesto anarca-femminista.  
Per anarca-femminismo intendo il fatto che non c’è un archè, ossia un principio unico dell’oppressione. La dominazione funziona secondo il modello del gomitolo: le diverse forme di oppressione si intersecano l’una con l’altra, non si può affrontare una singola questione senza affrontare tutte le altre. Questo non vuol dire dover combattere tutto allo stesso tempo, vuol dire che bisogna combattere ogni battaglia, specifica, districare ogni filo, senza dimenticare che sono tutte parte della stessa matassa. La matassa è costituita da una struttura sociale fondata sull’idea di dominazione, ossia sull’idea che alcuni e alcune sono superiori a tutti gli altri e le altre: il sessismo, l’idea che certi sessi siano superiori ad altri; il razzismo, l’idea che certe razze siano superiori ad altre; il classismo, l’idea che certe classi siano superiori ad altre classi. 
O ci liberiamo di questa idea di dominazione in tutti i suoi aspetti o non riusciremo a liberarci dall’oppressione di genere. Il femminismo può essere la leva per sollevare tutti perché, a causa della posizione occupata dai secondi sessi, è in grado di vedere le strutture d’oppressione nella loro globalità ed è, oggi, la forza rivoluzionaria più potente.  

Ci sono luoghi in cui vi è la realizzazione di conquiste grazie a questo tipo di lotta? 
Attualmente, la mobilitazione sociale più sostenuta è in America Latina, dove il femminismo sta cambiando letteralmente le cose. Il femminismo sudamericano, in particolare in Argentina con Non una di meno e in tutto il resto dell’America Latina con il femminismo ecologico, è riuscito a integrare la critica femminista e sessista con tutte le altre forme di sfruttamento. Invece di presentare il movimento femminista come una questione di sole donne, hanno aggredito qualsiasi questione con un approccio di critica globale ma specificamente femminista. Ad esempio, in Argentina sono riuscite a ottenere il diritto all’aborto perché hanno presentato l’aborto come una questione di classe e razziale, che è effettivamente la realtà delle cose. Le donne ricche hanno accesso all’aborto gratuito, l’hanno sempre avuto. Sono le donne povere, in particolare quelle indigene, che incontrano sempre più difficoltà di accesso alle strutture esistenti. 

La nuova ondata anarca-femminista, che invita a seguire questa teoria filosofica radicale, si è diffusa a livello globale. Resta però una strada ancora lunga da percorrere. 
Sì, la strada è ancora lunga e richiede di tenere insieme tutte le forme di oppressione. Io chiamo questa strada anarchica femminista non tanto perché ci sia una tradizione anarchica unica di riferimento. Anarca-femminismo significa semplicemente adottare una metodologia, una filosofia di lotta, se vogliamo, nel senso spicciolo del termine filosofia: è una filosofia che ci invita a porre attenzione al fatto che le diverse forme di oppressione si sostengono l’una con l’altra e che, quindi, non si può mettere in discussione il sessismo se non si guarda a tutte le altre strutture di dominazione allo stesso tempo. A mio avviso, il femminismo è riuscito a ottenere di più proprio laddove è riuscito a fare questa cosa. Infatti, se ci si mette a cercare la filosofia anarca-femminista, la si trova un po’ ovunque il femminismo è stato capace di cambiamenti effettivi nella società, ossia ovunque il femminismo è stato in grado di attivare una critica dell’ordine sociale nella sua interezza. 

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Articolo di Michela Di Caro

Originaria di Matera, vivo a Firenze da 15 anni. Studente, femminista, docente di sostegno di Scuola Secondaria di II grado, fisioterapista libera professionista e mamma di tre piccole donne.

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