Il lavoro frenetico 

Ho fatto diversi lavori: commessa in un negozio di scarpe, in sanitaria, in profumeria, di nuovo scarpe, banconista in gelateria, di nuovo commessa, grafica, illustratrice, di nuovo banconista, motion designer, sales assistant. Ho lavorato in piccoli negozi a conduzione familiare, in agenzia, in aziende grandi e piccole. Tutte queste occupazioni, nella mia esperienza, hanno qualche punto in comune: stipendi irrisori, mancanza di organizzazione, di tempo, e l’idea totalizzante che il lavoro non è un lavoro, ma una missione. Che mi piacesse o meno la mia mansione, dovevo dedicarvi tutte le energie e risorse, farlo diventare il centro della mia esistenza: soprattutto in azienda, il tempo che dedicavo al lavoro non era solo quello d’ufficio, ma anche quello libero, ero impegnata anche nei giorni di riposo, senza ovviamente ricevere un aumento, dovevo essere sempre reperibile al telefono, disposta a soccorrere l’azienda in ogni momento. 

Più gli anni passavano, più la situazione peggiorava: non solo il mio stipendio rimaneva lo stesso, ma mi veniva richiesta sempre più partecipazione. Nel mio ultimo lavoro d’azienda, se uscivo dall’ufficio nell’orario che da accordi era stato pattuito, le conseguenze erano tali da non poterle sostenere: minacce, mobbing, ricatti. Se nel weekend non guardavo continuamente il cellulare, il lunedì mi era recriminato il fatto di non prendere seriamente il mio lavoro. Di conseguenza altre minacce, mobbing e ricatti psicologici. Ciò che in comune hanno avuto i miei incarichi in azienda, inoltre, era questo: tutto era di assoluta priorità, niente poteva essere rimandato, ogni mansione appena comunicata doveva essere svolta immediatamente, diventando priorità in mezzo a centinaia di priorità. Cercare di organizzarsi era inutile, sospetto persino che al mio capo la situazione piacesse; vedere i suoi sottoposti (donne e uomini) sempre stressati e di corsa, lo rassicurava dalla paura di star sprecando i suoi soldi. Io ero sempre più stanca, anche a casa, anche quando il telefono non squillava, la mia mente era sempre là, all’azienda, allo stress, alle scadenze, alla paura di non essere all’altezza, all’inadeguatezza che ne derivava. Cosa stavo sbagliando? In quei mesi frenetici, ho cominciato a farmi sempre più domande: cosa significa lavorare? Dev’essere per forza così? Quando riuscirò a staccare veramente, a dedicarmi ad altro? E ancora: chi sono senza il mio lavoro? Anche le altre persone avvertono le medesime difficoltà?  

In quel periodo ho cominciato a fantasticare prospettive di vita diverse, e per fare questo ho cominciato a leggere e scoprire fenomeni diversi, ho per la prima volta sentito parlare di Hustle Culture, big quit, quiet quitting e workism, nomi nuovi che però raccontano fenomeni noti, che ho vissuto in prima persona o di cui ho già sentito raccontare. A distanza di quasi un anno, in cui ho deciso di lasciare un impiego sottopagato, senza riposo, in un ambiente malsano in cui mobbing, molestie e stress erano considerati normali e imprescindibili al fine di far fruttare l’azienda, non ho ancora capito cosa mi riserva il lavoro, ma so che cosa non voglio più per me. Per questo motivo ho intenzione di raccontare, in questa mia rubrica, passando dalle definizioni alle esperienze, cos’è il lavoro oggi, o almeno cos’è in alcuni casi, come cambia e come può essere affrontato. Hustle in inglese significa attività febbrile, affrettarsi, sbrigarsi. Potremmo tradurre Hustle culture come stacanovismo, l’iperlavoro messo in atto nell’Unione Sovietica dopo il 1935, per incrementare al massimo la produzione, ma che oggi è utilizzato, per estensione, per descrivere chi è estremamente efficiente, talvolta in eccesso. 

L’Hustle culture si verifica in quegli ambienti di lavoro in cui vi è un intenso focus sulla produttività, l’ambizione e il successo, senza riguardo per il riposo, il prendersi cura della propria salute fisica e mentale e in cui non vi è equilibrio vita-lavoro. Per molte persone, spesso Millennials e generazione Z, il lavoro senza pause e riposo, che sia in azienda o freelance, è uno stile di vita. L’Hustle culture è chiamato pure burnout culture e, anche se è un fenomeno di cui si registrano tracce dagli anni Settanta, con la crisi del 2008 ha acquistato via via maggiore importanza: l’iperlavoro è diventato sempre più popolare, grazie anche alla spinta dei social media che hanno normalizzato questa pratica.  

Nonostante la sua popolarità, la sua messa in pratica è collegata a fenomeni quali ansia, stress e depressione. Inoltre parecchie ricerche dimostrano ulteriori effetti a lungo termine: si verifica, infatti, un abbassamento della produttività (proprio quello che si vorrebbe maggiormente evitare). La tossicità di questa cultura del lavoro è oltretutto causa del diffuso burnout, piaga sempre più evidente tra lavoratori e lavoratrici, soprattutto nelle aziende. 

I rischi più comuni della Hustle culture sono: 

Senso di colpa: le persone che si sottomettono a una tossica Hustle culture si sentono spesso in colpa se prendono una pausa o si fermano un momento 

Apatia: quando ci troviamo a sforzarci senza tregua, è possibile a poco a poco avvertire apatia: ogni cosa non ci sembrerà mai abbastanza buona o gratificante.  

Positività tossica: spingerci sempre al limite può anche significare che non c’è spazio per il fallimento. Anche il più piccolo errore può rappresentare una catastrofe. La positività tossica elimina qualsiasi aspettativa realistica riguardo a ciò che è verosimilmente raggiungibile.  

Alto rischio di malattia e disturbi nella sfera sociale: lavorare troppo duramente senza riposo ci porta ad essere fisicamente esauste/i, psicologicamente stressate/i e incrementa il rischio di malattie. La mancanza di sonno e la dieta sbilanciata sono le principali cause di un sistema immunitario debole. Le ricerche mostrano che la settimana lavorativa lunga aumenta il rischio di malattie cardiovascolari e cerebrovascolari. 

Scompensi vita-lavoro: l’Hustle culture crea un dannoso equilibrio tra la vita personale e quella lavorativa. Enfatizza il successo e la carriera, vedendoli come priorità rispetto a tutto il resto, incluse le relazioni con la  famiglia, le amicizie e i partner. Sfortunatamente, questo atteggiamento lascia poco spazio per prendersi cura di sé e per attività volte alla gestione dello stress. 

Improduttività: lavorare senza riposo diminuisce le capacità di concentrazione e quindi la produttività di ogni lavoratore e lavoratrice. 

Perché dunque se i rischi e le problematiche legate alle Hustle culture sono tanti e gravi, molte aziende e società in tutto il mondo ne perseguono i valori? Viene da chiedersi: cosa ci spinge, in una società come la nostra, in cui le persone sembrano libere di scegliere, a pensare che il lavoro sia una delle poche e spesso l’unica fonte di soddisfazione nelle nostre vite? Cosa ha trasformato il lavoro da necessità a unico parametro per misurare la nostra identità, attraverso il quale stabiliamo il valore delle nostre vite?  

Dati e testimonianze ci portano alla sempre più spaventosa consapevolezza che per molte/i di noi il lavoro sia talmente importante da sacrificare affetti e passioni, senza nemmeno ricevere un compenso adeguato. Un sondaggio del 2021 pubblicato dall’Adp Research Institute, effettuato su 17 Paesi, mostra che almeno il 10% di lavoratrici e lavoratori dipendenti intervistati ha svolto più di 20 ore di lavoro gratuito a settimana, mentre gli altri in media svolgono 9,2 ore di straordinari non retribuiti settimanalmente, quasi il 2% in più di quelle registrate nel 2020. A spingere queste persone a lavorare senza retribuzione ben oltre i limiti contrattuali dev’essere qualcosa di profondamente radicato nella società, una logica che trasforma le percezioni: per cui non si lavora per vivere, ma il lavoro è esso stesso di vitale importanza.  

In un articolo del 2019, Derek Thomson, giornalista dell’Atlantic, conia il termine workism, tradotto in italiano come lavoresimo, paragonando il lavoro a una religione, per enfatizzarne il valore che ha acquisito negli anni, soprattutto negli Stati Uniti. Scrive infatti: «Il lavoro continua non solo a darci ciò che abbiamo, ma anche, sempre di più, a dirci ciò che siamo». Per Thomson il workism è un vangelo in cui crediamo fermamente quando facciamo del lavoro il luogo dove esprimiamo il meglio di noi stessi, quello dove cerchiamo un senso anche per tutto il resto. Non c’entra il profitto, la logica che c’è dietro potrebbe non essere economica, ma emotiva, o addirittura spirituale. Il fenomeno è diffuso tra le persone che hanno maggior educazione e migliore posizione economica, che possono avere qualunque cosa vogliano, ma hanno scelto l’ufficio allo stesso modo in cui le/i fedeli cristiani si recano in Chiesa la domenica: è dove trovano sé stessi, dove si sentono completi. Il workism, continua il giornalista, potrebbe essere iniziato dagli esseri umani ricchi, ma l’eco di questa mentalità si sta espandendo tra i vari generi ed età. Nel 2018 un articolo universitario nota che, anche per le donne, il maggior beneficio nel frequentare un college rinomato non è avere la possibilità di avere uno stipendio più alto, ma poter lavorare più ore. In altre parole, continua, le nostre istituzioni più prestigiose stanno creando persone votate al lavoro.  

In un report di qualche anno fa, condotto dalla Pew Reasearch, sull’epidemia dell’ansia nella gioventù attuale, si registra che il 95% delle/degli intervistati attesta che «avere un lavoro o una carriera in cui si sentono realizzati è estremamente importante, più importante che aiutare chi ha bisogno” (81%) o sposarsi (47%)».  

D’altra parte, se ora posso scrivere di queste cose, è perché oggi se ne parla e qualcuno prima di me ne ha scritto. Negli ultimi anni, sono pù numerose le figure che si occupano di salute sul lavoro, che studiano questi fenomeni, che mettono in discussione il recente modello lavorativo. Si registrano maggiormente, assieme ai casi di burnout, pure nuovi fenomeni che paiono andare da tutt’altra parte, anche se forse sono un effetto diretto di questa insostenibile mentalità del lavoro. Sto parlando di coloro che decidono di prendere strade molto diverse, lasciando da parte i sogni di successo e carriera. Persone che, come ho fatto anch’io, vedono nel lavoro un semplice mezzo per mantenersi, più che la strada per la felicità.

Le grandi dimissioni, big quit o The Great Resignation, durante la pandemia sono diventate un fatto che non può essere ignorato: anche in Italia i dati sono in aumento. Secondo quanto diffuso dall’Inps, il tasso di licenziamento nel 2022 è stato superiore al 35% rispetto al primo semestre del 2021 e del 29% rispetto al 2019. A lasciare il posto di lavoro sono state soprattutto le persone giovani. Secondo una ricerca del Politecnico di Milano, le motivazioni sono prevalentemente l’esigenza di un lavoro agile (smart working) che permette di risparmiare costi e tempo in affitti e trasporti, e di avere un ritmo vita-lavoro più bilanciato. Alla base del fenomeno, però, è spesso il malessere emotivo. In questi dati, rivedo la mia scelta dell’ultimo anno, la scelta di abbandonare l’attività per cui avevo studiato per cercarmi un part-time che mi permettesse di dedicarmi ai miei affetti e ai miei progetti personali. A spingermi, ad agosto scorso, è stato un contratto non valorizzante e svantaggioso, ma, a distanza di un anno, vedo più lucidamente le ragioni: quel contratto mi ha reso più facile prendere una decisione che forse più tardi avrei preso comunque. Il mio lavoro non è e non sarà mai la mia vita e non fa di me ciò che sono. Sono consapevole che questa scelta non è concessa a tutti e tutte, se l’ho presa è perché alle spalle ho delle condizioni economiche che al momento mi consentono di cavarmela con uno stipendio minimo, so anche che in futuro non sarà così. Sicuramente ora ho il tempo per riflettere, per interrogarmi sulla mia vita e sulla società in cui vivo, un lusso che non sempre è concesso, ma data la mia fortunata situazione, decido di approfittarne. 

Fonti 

Derek Thompson, “Workism Is Making Americans Miserable”, theatlantic.com, 24 febbraio 2019, https://www.theatlantic.com/ideas/archive/2019/02/religion-workism-making-americans-miserable/583441/ 

“Hustle culture: l’alternativa alla cultura tossica del lavoro”, performant.it, 2 febbraio 2023, https://performant.it/hustle-culture-vs-break-culture-lalternativa-alla-cultura-tossica-del-lavoro 

Olga Molina, “Hustle Culture: The Toxic Impact on Mental Health”, talkspace.com, 20 febbraio 2023, https://www.talkspace.com/blog/hustle-culture/ 
Chiara Bridi, “Il dramma della hustle culture: dove si perde il confine tra successo e burnout”, mudra.company.it, 18 maggio 2022, https://www.mudra.company/hustle-culture-successo-e-burnout/ 

Priscilla De Pace e Edoardo Vitale, “Il lavoro non ti ama”, Siamomine, 2022, https://www.siamomine.com/il-lavoro-non-ti-ama-podcast/

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Articolo di Marika Banci

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Dopo la laurea in Lettere moderne, Marika si iscrive al corso triennale di Progettazione grafica e comunicazione visiva presso l’ISIA di Urbino. Si diploma nel 2019 con una tesi di ricerca sulle riviste femministe italiane dagli anni ’70 ad oggi e la creazione di una rivista d’arte in ottica di genere dal nome “Biebuk”. Designer e illustratrice, ha dedicato alle tematiche femministe molti dei suoi ultimi progetti.

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