«Cosa manca nella narrazione del calcio femminile? La storia! Le bambine oggi si possono identificare nelle giocatrici della nazionale contemporanea ma non sanno niente di chi le ha precedute. C’è proprio una mancanza di memoria e quindi di immaginario storico!»
Sembra proprio questa la missione di Marco Giani, docente di Lettere e storico dello sport, che negli ultimi anni si è dedicato molto allo studio e alla divulgazione della storia dello sport femminile, in particolare del calcio. Nel libro Giovinette insieme a Federica Seneghini ha portato alla luce la vicenda della prima squadra di calcio femminile che nel 1933 ha coraggiosamente sfidato il Duce. È in libreria con il suo nuovo saggio Capitane Coraggiose che esplora le esperienze e le strategie comunicative di Megan Rapinoe e Sara Gama all’interno di due contesti molto diversi come quello statunitense e italiano.
L’abbiamo intervistato per parlare del suo ultimo libro ma anche dei Mondiali di calcio femminile (in corso tra Nuova Zelanda e Australia) e di sport da una prospettiva di genere, come tanto ci piace fare in questa rubrica.

Nel 2022 le Azzurre disputarono un Europeo molto deludente e vennero eliminate subito. Pensi che questo abbia inciso sulla visibilità del calcio femminile dopo l’exploit del 2019 ai Mondiali?
Nel 2022 la Rai commise un grande errore mediatico, riproponendo la stessa retorica del 2019 in cui si calcava la mano sulle storie di vita delle calciatrici e il loro impegno per la conquista di nuovi diritti come quello di essere professioniste. Un format vecchio che, complici anche le brutte prestazioni sul campo, ha portato le persone a spegnere la televisione già dopo la prima debacle contro la Francia. Quello che è mancato – e che a tratti manca ancora – è il commento nel merito sportivo e della prestazione tecnica e tattica delle Azzurre. Commento che negli uomini è normalità. Già nel 2019, quando perdemmo 2 a 0 contro l’Olanda, sui canali mainstream nessuno si interrogò sui motivi della sconfitta e sulle difficoltà, mai risolte, nel gioco aereo. L’atteggiamento fu quello di un entusiasmo acritico che, però, appena incassate le prime sconfitte è stato sostituito non solo da commenti molto pesanti e delusi sulle singole giocatrici ma anche dal risorgere dei nemici del calcio femminile. Uno dei motivi per cui ci tenevo a scrivere il libro era quello di assumere uno sguardo critico per sgomberare il campo dall’idea che una persona o è contro il calcio femminile o è entusiasta a prescindere.

Oltre a questo, cosa manca nello storytelling del calcio femminile?
La storia! Quello femminile, in Italia, è un calcio senza storia. Da tifoso juventino, fin da piccolo sapevo di far parte della storia di Sivori, Platini, Bettega e Trapattoni, giocatori che non giocavano già più ma che forgiavano una tradizione calcistica di cui io sognavo di fare parte. Le bambine oggi si possono identificare nelle giocatrici della nazionale contemporanea, ma non sanno niente di chi le ha precedute. Come per tanti altri ambiti, anche qui vediamo come la prima mossa del patriarcato è quella di oscurare la storia delle donne, depotenziare qualsiasi tipo di lotta così che si debba ricominciare ogni volta da zero, senza il sostegno di chi è arrivato prima. C’è proprio questa mancanza di memoria e quindi di immaginario storico!
Io e Federica Seneghini portiamo in giro Giovinette da tre anni e solamente una società di calcio professionistica ci ha invitato a presentarlo. Non c’è cura da parte della dirigenza e dei tecnici nel trasmettere alle giovani calciatrici il messaggio che anche loro rientrano in una storia che, nel caso italiano, si può definire addirittura eroica.
Quali sono i temi sociali e politici di questo Mondiale?
È presto per dirlo ma i temi sono sicuramente tanti: dall’abbigliamento più adatto alle esigenze e alla fisicità femminili, passando per la denuncia degli abusi sessuali in Zambia, fino a quello, ancora attualissimo, dell’orientamento sessuale (ricordiamo che la Fifa ha vietato l’utilizzo della fascia da capitana color arcobaleno). Rispetto agli eventi precedenti, la partecipazione di squadre come Zambia e Nigeria oppure la presenza della prima giocatrice con hijab e di un’arbitra palestinese portano alla luce una dimensione globale del calcio femminile attraverso la tematizzazione di una serie di problemi e temi (anche controversi) delle donne nel mondo. Come sottolineo nel mio nuovo libro, il 2019 è stato ancora un Mondiale prettamente bianco e occidentale: a eccezione della Francia, anche nelle nazionali di società multietniche erano ancora poche le calciatrici non bianche. La nazionale inglese che ha vinto l’Europeo 2022, ad esempio, è stata duramente criticata per questo.

Nel tuo libro parli di Megan Rapinoe e Sara Gama, capitane rispettivamente degli Stati Uniti e dell’Italia. Che cosa si evince da questo confronto?
Le differenze di atteggiamento tra le due calciatrici dipendono in maggior parte dal contesto sociale, culturale ed economico in cui si muovono. Da un lato, in Italia, le calciatrici sono sicuramente più posizionate dei colleghi maschi – i quali tendono a non esporsi mai temendo ritorsioni da parte di sponsor e tifosi – ma mantengono un comportamento diplomatico dove si soppesa ogni parola. Cosciente del contesto ancora poco pronto, la strategia di questi anni di Sara Gama è stata, infatti, quella di essere collaborativa con la federazione e di porsi come un personaggio non divisivo ma cercando di dir (pacatamente) la sua opinione. Durante il Mondiale del 2019, ad esempio, incalzata sulla questione sorta tra il ministro Salvini e Carola Rakete, Gama dribbla la domanda, dicendo di non voler discutere di politica ma poi aggiunge che il calcio insegna determinati valori tra cui quello dell’accoglienza verso tutti. Nel suo discorso al Quirinale al ritorno dal Mondiale, Gama utilizza il momento propizio per riportare sul tavolo un tema molto importante ovvero quello del professionismo. Riferendosi al numero di maglia da lei utilizzato, rilegge l’articolo 3 della Costituzione sottolineando il passaggio sull’impegno della Repubblica nel rimuovere gli ostacoli verso l’effettiva parità.
Un atteggiamento un po’ diverso rispetto a Rapinoe che si rifiuta di andare alla Casa Bianca per farsi premiare da Trump…
A differenza di Gama, la giocatrice americana si pone come elemento divisivo in aperta opposizione a Trump e trova subito il supporto di uno sponsor come Nike che le dedica uno spot che recita: «tutte le bambine vorranno essere come Rapinoe». Negli Stati Uniti si nota quindi come questa commistione tra capitalismo, lotte per i diritti civili e anche femminismo – che per noi italiani è veramente fuori dal comune – è una dinamica normalissima e incentivata. Inoltre, il fatto di essere la capitana di una Nazionale che ha vinto tutto dà a Rapinoe il potere di rivoltarsi contro la federazione per la mancata parità salariale tra nazionale maschile e femminile e di pronunciare un discorso (a Mondiale concluso) che è un vero e proprio manifesto politico in cui si delinea un’America dell’inclusione e dell’accettazione di ogni tipo di etnia e orientamento sessuale – in aperta opposizione alla narrativa trumpiana.
Al centro del libro c’è quindi la questione che la lotta politica attraverso lo sport ha bisogno di adattarsi al contesto sociale ed economico in cui avviene. In un Paese così “indietro” su certi temi come l’Italia, cosa è lecito attendersi a livello di miglioramento della situazione del calcio femminile?
Da un lato è importante assicurare i diritti conquistati mentre si punta sul cambiamento di mentalità, che in parte è sicuramente già in corso. Diciamo che l’idea che anche una bambina può giocare a calcio si sta sdoganando, ora bisogna che diventi “cool”. A livello mediatico sarebbe fondamentale un cambio di narrazione che abbandoni l’entusiasmo acritico e si concentri sugli aspetti sportivi, tecnici e tattici. Nel futuro, poi, bisognerà affrontare di petto la questione dell’omosessualità che in Italia è ancora tabù. Uno dei segreti del successo di Sara Gama come capitana nel 2019 è stato anche quello di dribblare completamente questo tema ancora troppo divisivo per il pubblico italiano.
A Milano è stata da poco inaugurata la via Calciatrici del ‘33. A che punto siamo con la toponomastica dedicata alle sportive?
In Italia, le vie intitolate a sportive sono davvero pochissime. Il nome maggiormente presente è quello di Ondina Valla – la prima campionessa di atletica leggera e la più conosciuta – seguita, negli ultimi anni, dalla ciclista Alfonsina Strada Morini. Alcune poi sono dedicate a campionesse locali particolarmente conosciute in un’area o paese specifico. Da noi, dunque, la via Calciatrici del ‘33 è la prima dedicata al calcio femminile e a una squadra femminile, nonostante gli esempi non manchino. Nel mio libro cito spesso un interessante lavoro editoriale di Aurora Puccio sulla storia della squadra azzurra di pallanuoto, il Setterosa: nonostante pochi lo sappiano e lo celebrino, questa è la nazionale più vincente al livello di sport di squadra. La loro assenza dalla narrazione sportiva italiana e dalla toponomastica ci dimostra molto spesso che il racconto si focalizza ancora troppo su imprese individuali e figure singole, rendendole allo stesso tempo eroiche ma anche irraggiungibili nel loro sforzo.
In copertina: la nazionale italiana femminile di calcio pronta per i Mondiali 2023 (Instagram).
***
Articolo di Camilla Valerio

Di Bolzano, ma vivo a Salerno. Gioco a basket. La mia tesi è ora un libro: The Normalization of Far-right Populism. Narratives on Migration by the Italian Minister of the Interior between 2017 and 2018. Collaboro con diverse testate e mi interesso di femminismo e sport. Combatto il patriarcato con il collettivo Lisistrata e frequento il Master in Studi e politiche di genere all’Università di Roma Tre.

Un commento