«Salve, banacharaid, amica mia.
Mi chiamo Mhàiri e scrivo dalla regione del Fife, nelle Lowlands. Ho letto il tuo annuncio sul giornale dimenticato da qualche cliente della locanda che frequento, la Drover’s Inn, ad Auchtermuchty.
La mia cittadina è piccola, verde e ubriaca di quel whisky che si chiama come lei e che è, parola mia, il migliore tra i migliori, il più buono di questa nazione che già produce l’eccellenza.
Io non so se dalle tue parti lo si beve, ma posso assicurarti, mano sul cuore, che il whisky non è solo un liquore: è lo specchio liquido della terra e degli uomini e delle donne che lo producono. Qui, nelle Lowlands, ne creiamo uno morbido, che ha in sé la dolcezza del malto e il fruttato del lievito, secco nelle note e denso nel sapore. E la gente di queste parti è proprio così: orgogliosa, tenace e ragionevole. Un altro livello rispetto ai nostri vicini e alle nostre vicine delle Hightlands, che ci chiamano “inglesi” solo perché viviamo in pianura. Ma è proprio in montagna che vivono le capre. E tra le capre e gli Inglesi non passano molti gradi di separazione, parola mia.
Ti basterebbe assaggiarlo, banacharaid, e capiresti subito che il whisky è un racconto di viaggio, da un prima a un dopo, che ha, nelle botti di rovere, la propria stazione di posta. Le cantine sono come stalle di purosangue: strepitano e scalpitano nel silenzio muto e nervoso di un futuro che può aprirsi in qualsiasi direzione. Ogni sorso sa di qualcosa di atteso e inaspettato, di focolare e feste campestri, di andane che, comunque e sempre, portano da qualche parte.
Parola mia, è la prova che l’essere umano ha bisogno dell’essere umano, e che l’essere umano, in fondo, è felice e realizzato se in un altro essere umano crea felicità e realizzazione. Pensaci. Perché cercare il miglior malto, il miglior legno, la perfezione nella distillazione se non per l’aspettativa di provare a dare il meglio di noi? E come non pensare a tutto il lavoro che sta dietro a quel sorso quando sentiamo bruciare la lingua e i denti come fossero la prima parola detta in una notte di confidenze tese e sfoghi a stento trattenuti?
Ah! Me la immagino la tua replica: e allora i padroni, i nobili, i politicanti che pure bevono e a volte anche producono questo liquore? Ebbene, parola mia, non lo hanno mai gustato. Hanno tracannato, ingollato, come i porci affamati che grufolano nel trogolo e che se ne fregano se hanno davanti al muso ghiande, ramaglie o scarti marci. Sono indifferenti, indifferenti a tutto. Indifferenti al whisky, alla torba, agli alambicchi, al clima più o meno umido. Indifferenti alle persone. Come se tutto nascesse dal nulla con il solo scopo di allietare loro la vita, di riempire loro le tasche. Come se tutto fosse dovuto. È per questo che il whisky non li riguarda. Riguarda noi, che sappiamo farlo, berlo, assaporarlo e donarlo.
So che puoi capirmi. Tu con il pane e io con il liquore sappiamo di avere nelle nostre mani tutti i segreti del mondo.
E se fossi qui accanto a me, e ci fosse solo la distanza di un tavolo a dividerci, farei suonare il tuo glencairn con il mio e poi ti chiederei di parlarmi di te, di cosa si beve dalle tue parti, se anche lì le donne e gli uomini posseggono il dono assoluto di percepire la bellezza di due vetri che si toccano e di una crosta che si spezza. Condivideremmo ore e ore di voce e silenzi, e ci capiremmo a ogni sguardo e a ogni sorso. E per me sarebbe come prendere fiato. Perché, sai, quando ascolto i racconti di vite che non sono la mia, una corrente di aria fresca mi investe e arriva a smuovermi ricordi e profumi di tempi e luoghi che pure non mi sono mai appartenuti.
Sembrerà strano anche a te, banacharaid. Nemmeno io riesco a spiegarmelo. È un sentire profondo, come se un trow suonasse il violino nel mio grembo e la musica si spandesse dentro invece che fuori, un’eco rovesciata che resta lì mentre io inizio ad andare.
Qualcuno chiama tutto questo “sbronza”. E ci ride anche. E a volte fa ridere anche me.
Però… no, no. Parola mia, banacharaid. Mano sul cuore. È qualcosa di più profondo che mi cattura le viscere e mi fa diventare il cuore un battaglio di campana. Ora come ora, comunque, tra la guerra in Europa e il Proibizionismo in America, produrre whisky non è né facile né conveniente.
Ad Auchtermuchty le distillerie ormai sono chiuse quasi tutte, anche quella della mia famiglia. E io stessa ho dovuto cambiare lavoro e reinventarmi, diventando una minatrice.
Di solito, quando si affrontano cambiamenti e novità si parla di rinascita. Per me invece è stata la morte, sepolta come sono, tutti i giorni, in quei budelli cavernosi, che sembra di stare nello stomaco della terra, in uno haggis gigante dove io faccio la parte del rognone. Passare dal buio di una cantina a quello di un cunicolo non è stato facile, parola mia. Le zolle, la polvere, le pietre, te le senti dentro la pancia e nel petto, come se respirassi loro al posto dell’aria. Solo che queste non riesci a gettarle fuori e ti si incatenano e si incastrano nei polmoni e ti grattano via l’ossigeno e, a volte, anche il coraggio. Però non c’era altro da poter fare. E siamo tante qui. Tante donne, tante ragazze a fare questo stesso mestiere: circa seimila, in tutta la Scozia.
In realtà nel 1842 la Regulation Act rese illegale il lavoro in miniera a donne, bambini e bambine. Inizialmente, venimmo sostituite con dei pony. Gli animali, però, erano più costosi di noi e più grossi, tanto che spesso l’altezza dei tetti delle gallerie dovette essere aumentata. Per raccogliere il carbone vennero assunti allora minatori anziani e disabili. E sai una cosa, banacharaid? Essi guadagnavano comunque il doppio di noi, nonostante producessero la metà. Molte donne erano così povere da essere disposte a continuare a lavorare illegalmente anche per quindici penny di paga settimanale. E allora i padroni non si sono certo fatto problemi ad assumerci di nuovo. Ci siamo introdotte nei pozzi attraverso ingressi nascosti e laterali, pur di intascare qualcosa. Ci siamo addirittura travestite da uomini, anche se i pantaloni, laggiù nei cunicoli, li abbiamo sempre portati. È per questo che, quando qualche tempo fa è arrivato un gruppo di femministe inglesi a parlarci del diritto al lavoro per le donne, all’inizio non le abbiamo capite. Di che diavolo stavano parlando? Di quale realtà? Nella nostra, noi donne abbiamo sempre dovuto lavorare. Anche quando l’unione dei minatori esercitò pressione affinché rimanessimo in casa, la miseria era talmente tanta che di stipendi non ne bastavano due. E siamo scese sotto terra, abbiamo spinto carrelli e siamo morte nei crolli e per la malattia del polmone nero, esattamente come i nostri mariti, figli, padri e fratelli. Solo che abbiamo sempre guadagnato di meno, nonostante, poi, dovessimo anche occuparci della casa.
«E allora battetevi per questo», ci hanno detto.
«Unitevi e combattete affinché il vostro salario sia lo stesso degli uomini».
E noi ci siamo unite e abbiamo combattuto. Abbiamo creato una delegazione che è andata a parlare con i sindacati per spiegare le nostre istanze, le nostre richieste. E sai cosa ci hanno risposto, mia banacharaid? Che avevamo ragione, per l’amore del cielo, ma che un brav’uomo ha il diritto sacrosanto di sentirsi importante, di essere colui che provvede alla propria famiglia, e non potevamo pretendere di umiliare così i nostri mariti, padri e fidanzati. Avremmo dovuto capire che stare al nostro posto era il modo migliore per aiutare la comunità. Dio! Parola mia, mi prudevano i pugni come mai mi è capitato prima! Ce ne siamo andate con la coda tra le gambe, certo. Però, mentre me ne tornavo a casa, ho avuto una folgorazione. Improvvisamente, pescata da chissà quale cassetto della memoria, mi è venuta in mente la leggenda delle selkie, le donne foca scozzesi.
Le selkie sono creature che vivono nel mare, ma, quando vogliono stare sulla terraferma, nascondono il loro manto animale tra gli scogli e assumono forma di essere umano. Girano nude, con solo i lunghi capelli a coprirle. Sono bellissime, sai?
E secondo te, delle donne, per di più nude e bellissime, possono forse permettersi di girare tranquille e farsi i fatti propri? No! Ovviamente no. Nelle leggende, gli uomini si mettono in cerca dei manti nascosti delle selkie così da averle in pugno e costringerle a diventare le loro mogli.
Ecco, ho pensato. Ecco cosa siamo, cosa ci obbligano a essere. Ciascuna di noi è una selkie. E non importa se siamo nate ricche, povere, nobile o popolane; non importa se viviamo in una grande città o in un piccolo villaggio dalle case scrostate. Tutte noi siamo obbligate a sottostare a delle scelte che non sono le nostre. Le dobbiamo accettare, possibilmente di buon grado, e farcele andare bene. Sempre.
E invece io credo che sia arrivato il momento di dire basta. Credo sia arrivato il momento di far sparire per sempre il nostro mantello da foca, di stracciarlo e buttarlo via.
Io capisco poco di politica, banacharaid. Non conosco le leggi. Non ho studiato. Non so parlare bene né ho il carattere della leader.
Eppure, parola mia, una cosa l’ho capita persino io. Ci sono tanti modi per essere femministe, tanti obiettivi da raggiungere e per cui battersi. Non c’è n’è uno migliore o più importante. Chiunque dica questo ci sta irridendo. Vuole dividerci e fiaccarci. E noi non dobbiamo cadere nella loro trappola.
Mentre ti scrivo, il piccolo comitato di cui faccio parte si sta organizzando per andare a Londra a una grande manifestazione indetta dalla Nusec, la National Union of Societies for Equal Citizenship, con le nostre sorelle di lì che hanno organizzato una raccolta fondi per pagarci i biglietti del treno e farci trovare pasti caldi e ospitalità al nostro arrivo. Devo dire che forse le inglesi non sono così capre come i loro conterranei uomini. Ma è una cosa difficile da ammettere. Tu non dirlo mai. Mano sul cuore, ne va della tua credibilità.
Ora, cara banacharaid, è arrivato il momento per me di chiudere questa lettera. Non prima, ovviamente, di averti lasciato la mia ricetta. Da queste parti mangiamo gli Scottish Baps, dei panini morbidi che possono avere forma tonda, ovale o quadrata, spolverati di farina e con un foro nel mezzo fatto per impedire che si crei la cupola.
Per farli servono cinque tazze e mezza di farina, mezza tazza di burro, due cucchiaini di sale, due cucchiaini di zucchero, una tazza di acqua tiepida, una tazza di latte tiepido, quattro cucchiaini di lievito, più una tazza extra di farina per impastare il tutto.
Inizia mettendo in una ciotola il lievito, l’acqua, lo zucchero e tre cucchiai di farina. Unisci gradualmente il latte e mescola fino a ottenere un composto liscio da lasciare al caldo fino a che non aumenti leggermente di volume. A questo punto, setaccia la farina rimasta e aggiungila all’impasto, poi metti il burro e il sale e lavora finché il panetto non diventi liscio e omogeneo. Ora forma una palla e falla riposare in una ciotola fino al raddoppio delle dimensioni. Passato questo tempo, sgonfia l’impasto e lavoralo ancora per pochi minuti; dividilo in parti uguali formando dei panini e dai loro una forma ovale e un po’ schiacciata. Sistemali su una teglia, spennellali con latte, spolverali di farina, usa il pollice per fare un buco al centro, copri e lascia lievitare fino al raddoppio. Cuocili.
La tradizione vuole che siano accompagnati da un bicchiere di birra. Tu, però, lascia stare la tradizione e ascoltami: sorseggiaci insieme del buon whisky e sentirai anche tu un trow che suona una giga con il violino.
Fidati, parola mia e mano sul cuore.
Addio, cara amica.
Buona fortuna. E slàinte mhath!»
***
Articolo di Sara Balzerano

Laureata in Filologia Moderna, è giornalista pubblicista e ha collaborato, con articoli, racconti e recensioni, a diverse pagine web. Ama i romanzi d’amore e i grandi cantautori italiani, la musica di Einaudi, la poesia, i gatti e la pizza. Il suo obiettivo principale è avere, sempre, la forza di continuare a chiedere Shomèr ma mi llailah (“sentinella, quanto [resta] della notte”)? Perché crede nei dubbi più che nelle certezze; perché domandare significa — in fondo — non fermarsi mai. Studia per sfida, legge per sopravvivenza, scrive per essere felice.

Bellissimo! come intrecciare emozioni, storia e sentimenti. E gola
"Mi piace"Piace a 2 people
Grazie infinite!
"Mi piace""Mi piace"
Piacere puro questo articolo, Sara !
"Mi piace"Piace a 1 persona
Grazie di cuore.
"Mi piace""Mi piace"