Russia o non Russia. Il numero di luglio di Limes

«Le mercenarie ed ausiliari sono inutili e pericolose; e se uno tiene lo Stato suo fondato in su l’armi mercenarie, non starà mai fermo né sicuro, perché le sono disunite, ambiziose, e senza disciplina, infedeli, gagliarde tra gli amici, tra li nimici vili, non hanno timore di Dio, non fede con gli uomini, e tanto si differisce la rovina, quanto si differisce l’assalto; e nella pace siei spogliato da loro, nella guerra da’ nimici».
N. Machiavelli, Il Principe, capitolo XII, «Quante siano le spezie della milizia, e de’ soldati mercenari», Firenze, 1513-14.

«Adesso da noi va di moda andare a rovistare nella storia. Ma eccovene una di storia: nel 1980, a Leningrado, c’era una donna che camminava per la strada. Una donna normale. Le si sono precipitati contro tre teppistelli. Uno le si è gettato addosso da dietro e l’ha presa per il collo. L’ha soffocata finché questa non ha perso conoscenza. Dopodiché i teppistelli le hanno preso gli orecchini e – attenzione! – gli stivali. In seguito, queste carogne sono state arrestate e condannate. Quello che aveva assalito da dietro la donna e la soffocava si chiamava Evgenij Prigožin. E questo è tutto ciò che occorre sapere di Prigožin. Null’altro. Il resto non ha alcuna importanza…». Inizia così uno dei contributi dell’ultimo numero di Limes, a firma Vladislav Surkov, già consigliere speciale del presidente della Federazione Russa Vladimir Putin. Molte critiche sono mosse da Surkov alle compagnie militari private, istituzioni che per i parametri russi sono nella loro essenza antistituzionali: «Un prestito diretto dalla pratica occidentale. Più precisamente dalla pratica statunitense. […]. Come può, nella nostra concezione, un nucleo militare essere privato? L’idea si scontra completamente con la cultura politica, dirigenziale e militare russa. In Russia non è possibile, ad esempio, possedere una centrale atomica privata. E dunque dovrebbe essere possibile possedere una divisione d’assalto privata…»?

Togliamoci le lenti con cui i russi interpretano la guerra in corso e accostiamoci a Russia o non Russia, il numero di Limes preparato sull’onda del cosiddetto Golpe sospeso del Gruppo Wagner del 24 giugno scorso.

La notizia della scomparsa del capo della Compagnia Wagner in seguito a un incidente aereo su cui ci sono molti sospetti non ha potuto essere commentata in questo numero, uscito molto prima che la morte si verificasse. Una morte che, se da un lato ha rafforzato Putin, dall’altro ha messo in luce tutta la debolezza di uno Stato che continuerà ad affidarsi alle truppe mercenarie, con i rischi che il nostro Machiavelli aveva ben messo in luce in quel capolavoro di scienza politica che è Il Principe.

La prima Parte della rivista, intitolata Montagne russe prova a indagare «contesto, cause, modalità e contraccolpi interni della sfida lanciata da Evgenij Prigožin alle autorità militari russe e, indirettamente, a Vladimir Putin». Di questa sezione, meritano di essere ricordati alcuni articoli di approfondimento. Tra tutti, l’editoriale di Lucio Caracciolo, Cambio di stagione, che si sofferma sulla cosiddetta ipertimesia di Putin. Dopo un excursus sul recente cambio di atteggiamento nei confronti dell’Ucraina di Washington, che non ha sostenuto Prigožin, pur essendo stata informata di quanto sarebbe successo, e sulla sintonia dell’atteggiamento di Cina e Stati Uniti di fronte all’ammutinamento del “cuoco di Putin”, Caracciolo così scrive: «[…] da sue ripetute proclamazioni sappiamo che Putin si identifica con la Russia. Il suo Io collettivo contro l’Occidente collettivo. Per lui il presente è sempre passato che non passa. Come se associazioni memoriali spontanee ne informassero la percezione della realtà. Forma di ipertimesia, sindrome descritta avanti lettera da Jorge Luis Borges nel racconto Funes el memorioso (1942). Il “memoriosissimo” Putin trova il modo di intercalare a caldo, nella furibonda denuncia del traditore, un parallelo con il Traditore per eccellenza, Lenin con la sua banda di sovversivi: «Questo è un colpo di pugnale nella schiena del nostro paese e del nostro popolo. Un colpo simile è stato inferto alla Russia nel 1917, quando stavamo combattendo nella Prima guerra mondiale. Ma la vittoria ci fu rubata: intrighi, litigi e politichetta alle spalle della nazione e dell’esercito volsero nel caos massimo: distruzione dell’esercito e collasso dello Stato, oltre alla perdita di vasti territori, fino a sfociare nella tragedia della guerra civile. Russi uccidevano russi, fratelli uccidevano fratelli, mentre ogni genere di avventurieri politici e forze straniere […] profittavano della situazione per abbattere il paese e dividerlo». Sempre a tale riguardo è estremamente interessante quanto scrive Giorgio Scotoni in Lo spettro del 1917 e il fantasma di Nicola II (grande lezione di storia insieme a quella di Angela Rodicio, suMikhail Aleksandrovič Romanov,Lo zar dimenticato), in cui l’autore ha anche modo di ricordare che «il modello di Putin è la «politica storiografica» (polityka historyczna) polacca, varata nel 1998 dal parlamento di Varsavia. La misura è stata molto criticata all’estero poiché veicola, tramite l’apparato pubblico, un’interpretazione politicizzata della storia al fine di renderla predominante. Ma è proprio questo l’obiettivo di Putin. La «nazionalizzazione della storia», infatti, si estrinseca a partire dall’istruzione».

Vladimir Putin

In merito alla narrazione putiniana di quanto sta avvenendo, è del 9 agosto scorso la notizia, riportata da The Guardian, di un nuovo libro di storia, destinato alle scuole della Federazione Russa, che elogia l’invasione dell’Ucraina. Il libro di testo, apparentemente scritto in soli cinque mesi, fa parte del rafforzamento del controllo del Cremlino sulla narrazione storica nelle scuole (https://www.theguardian.com/world/2023/aug/08/russia-releases-history-schoolbook-praising-ukraine-invasion).

Sulla profondità delle faglie interne al sistema Putin si sofferma il saggio della bravissima Orietta Moscatelli, che significativamente sceglie di descrivere le conseguenze del fallito golpe di giugno, (che qualcuno preferisce definire «la posa di una mina al cuore del potere») con un titolo ad effetto: L’infarto. Il filo rosso dell’era di Putin è la saga dei pietroburghesi contro i moscoviti, dei servizi in contesa con l’esercito ma cattivo sangue scorre anche tra servizi e ministero dell’Interno, voluto negli anni Settanta da Breznev come contrappeso al Kgb, oggi Fsb. Come ricorda Moscatelli, «Il Gruppo Wagner non è stato sempre in conflitto con l’esercito. Anzi, è nato da un progetto condiviso tra Gru (Glavnoe razvedyvatel’noe Upravlenie), l’unico servizio che (quasi) non cambia nome e funzioni dopo la fine dell’Urss: dal 2010 è Glavnoe Upravlenie General’nogo štaba Vooružënnych sil (Primo direttorato dello Stato maggiore delle Forze armate), ma tutti continuano a usare l’acronimo originario) e vertici della Difesa, attivato nel 2014 con la campagna di Crimea e poi nel Donbas. Prigožin diventa l’uomo di riferimento più tardi, con la campagna di Siria, dove si registrano le prime forti tensioni. Il sodalizio sarebbe andato in frantumi, secondo testimonianze di ex combattenti, quando Putin lodò i mercenari per la battaglia di Palmira: allarme rosso ai vertici militari, primi problemi di approvvigionamenti di armi per il Wagner e di lì tutto in salita. In un audio circolato nel 2018, una voce lamenta un massacro tra combattenti russi, almeno duecento morti sotto i colpi di forze speciali americane nella provincia petrolifera di Dayr az-Zawr. Prima si pensò che l’avesse diffuso il Cremlino per accusare il Pentagono, poi si capì che un mercenario denunciava il tradimento da parte dell’esercito». Della ribellione della Compagnia Wagner all’idea di essere inserita all’interno dell’esercito sappiamo, come del contrasto con Shoigu e Gerasimov. Resta avvolta nella nebbia la sparizione del generale Surovikin, detto “il tosto” o “Armageddon”, colui che avrebbe intimato al ribelle comandante della Wagner di fermarsi. Secondo fonti russe di ambito governativo, la sorte di Surovikin sarebbe la chiave di lettura «di vicende per tanti versi incomprensibili» «e in qualche modo del futuro della Russia» Federico Petroni nel suo articolo contenuto nella seconda parte della rivista, ventila addirittura l’ipotesi che questo generale sia a sua volta un traditore, affiliato alla Wagner, perché, come ricorda anche Moscatelli, ai tempi della guerra in Siria, gli era stata assegnata da Prigožin la tessera onoraria della Compagnia, con il numero 3744.

Il potere di Putin in Russia

Sempre in questa sezione sono da segnalare l’approfondimento di Fulvio Scaglione sulla Crimea, con una bella lezione di storia e l’opinione di Nicola Cristadoro, analista militare, che, dopo avere descritto le 37 formazioni mercenarie russe, fa il controcanto alla narrazione diffusa da Putin e parla apertamente di inadeguatezza dell’esercito russo, di crisi del carisma di Putin e di una quasi vittoria di Prigožin. Estremamente interessante, soprattutto per noi occidentali, l’approfondimento di Maurizio Martellini e Mattia Frigoli, L’arcipelago nucleare russo ai tempi di Prigožin. Ecco uno stralcio dalla documentatissima analisi:« La differenza sostanziale rispetto al 1991 è che allora gli Stati Uniti e l’Urss erano legati, a partire dalla crisi dei missili di Cuba (1962), da una moltitudine di accordi, trattati, meccanismi di riduzione delle minacce nucleari e incontri di alto livello tra delegazioni politico-militari che avevano scongiurato lo scenario di «mutua distruzione assicurata» (mad, nell’acronimo inglese) e preparato il terreno ai programmi di non proliferazione. In poche parole: si parlavano. Questi diversi livelli di comunicazione e – per quanto possibile – di fiducia reciproca oggi sono venuti meno: il Congresso statunitense non sembra disposto ad alcuna forma di dialogo con la Duma di Stato russa, inclinazione ricambiata dalla controparte».

Un tema di cui i nostri media si guardano bene dal riferire e che dimostra l’assurdità della guerra in corso riguarda un documento emanato dal Governo ucraino, intitolato «Stop Missile Terror». Secondo Kiev la Russia è riuscita a lanciare un numero molto elevato di missili grazie alla componentistica elettronica occidentale, fornita da Stati Uniti, Regno Unito, Canada, Nuova Zelanda, Australia, Giappone, Svizzera e vari paesi dell’Unione Europea, non escluso il nostro. A ben poco è servito l’apparato sanzionatorio posto in atto a tappe ripetute dall’Occidente «perché le componenti elettroniche necessarie a produrre missili arrivano comunque in terra russa». Secondo Guglielmo Gallone, autore di I missili russi funzionano perché sono mezzi occidentali, « ancora una volta, si è creduto alla retorica dimenticandosi del pragmatismo: il problema principale della guerra economica resta proprio l’incapacità o la non volontà, da parte di governi e aziende, di far rispettare le misure restrittive. Un nome su tutti: Walter Moretti, uomo d’affari italo-svizzero inserito nella lista nera degli Stati Uniti con il pacchetto di sanzioni adottato il 24 febbraio 2023. Insieme ad altri cittadini europei e a società con sede negli Emirati Arabi Uniti, in Svizzera, Bulgaria o a Malta, Moretti è accusato di aver «segretamente procurato tecnologie e attrezzature occidentali sensibili ai servizi segreti russi e all’esercito russo. Tuttavia, questo non è un caso isolato».

Ma come arrivano alla Russia, Paese plurisanzionato, questi cosiddetti beni? Il primo modo consiste nel farli passare attraverso paesi terzi che non fanno parte della coalizione sanzionatoria. L’80% della componentistica elettronica necessaria ai missili russi arriva attraverso la Cina, per un valore di oltre 210 milioni di dollari. Seguono Thailandia (5,5%), Turchia (3,7%), Maldive (2,6%), Emirati Arabi Uniti (2,1%) e Kazakistan (0,4%). Valore totale: poco più di 264 milioni di dollari. L’articolo continua soffermandosi sulla posizione di Turchia e Cina. Tutto da leggere, per essere correttamente informati/e.

Missili utilizzati a confronto

Mentre la seconda sezione, Prigožin divide la Nato ma unisce Usa, Cina e Russiariguarda gli effetti del Golpe sospeso sulle tre Superpotenze, nella terza, Guerre economiche e sanzioni, si affrontano gli aspetti economici e tecnologici del conflitto. Nella seconda parte merita di essere letto l’articolo di Federico Petroni, Il piano degli Stati Uniti per cavalcare Wagner, che mette in luce l’ambigua posizione americana nei confronti della Russia e dell’Ucraina, analizzandone le ragioni. «Da tempo Washington sostiene di essere contraria agli attacchi ucraini sul suolo russo, in particolare tramite armi statunitensi — scrive Petroni — Ha accusato i servizi di Kiev di aver ucciso Dar’ja Dugina. Ha stabilito di non aver prove conclusive che i russi abbiano fatto esplodere Nord Stream, mentre ritiene possibile che sia stato un commando ucraino. Non si può escludere che siano giochi di specchi per coprire complicità, appoggi, responsabilità americane, che sarebbero intollerabili per il Cremlino e, se scoperte, allontanerebbero ogni prospettiva di trattativa».

Componenti dei missili russi

Molto interessante l’articolo di Fabrizio Maronta, che ricorda le oltre 3 mila sanzionioggi in vigore contro la Federazione Russa, tra cui l’esclusione dal sistema interbancario Swift e dai principali circuiti di pagamento elettronico; il «congelamento» – sequestro – di circa 350 degli oltre 600 miliardi di dollari (al momento dell’invasione) di riserve valutarie; «il bando all’importazione di diamanti russi (gran parte dei quali però, ancora grezza, prende la via dell’India per essere lavorata, divenendo da lì intracciabile) e all’esportazione in Russia di oro (che nel 2021 Mosca aveva acquistato per un controvalore di oltre 15 miliardi di dollari); il divieto di importare carbone, petrolio e parte del gas russi; il ritiro dal mercato russo di oltre mille multinazionali del calibro di McDonald’s, Pepsi, H&M, Adidas o Ikea; il divieto di esportarvi beni di lusso, ma anche e soprattutto manufatti e tecnologie duali (a uso civile-militare) come veicoli, aerei e loro parti, nonché la quasi totalità della microelettronica; la cessazione di qualsiasi collegamento aereo». Pochi, negli Stati Uniti e in Europa, si rendono conto di quanto inefficace si stia dimostrando questa enorme macchina da guerra economica, assolutamente sopravvalutata dagli Usa e dal nostro ex Presidente del Consiglio Draghi all’inizio del conflitto, anche perché i media mainstream si guardano bene dal parlarne. L’articolo approfondisce questo tema, esaminando i vari settori economici in cui le sanzioni sono di fatto aggirate. Tra i tanti dati riportati da Maronta è utile sapere che «dall’inizio della guerra i gestori statunitensi di centrali nucleari a uso civile hanno corrisposto a Rosatom – il gigante pubblico russo dell’energia atomica, escluso dalle sanzioni – oltre un miliardo di dollari per l’acquisto di combustibile, essendone diventati dipendenti in grande parte. Oggi gli Stati Uniti non producono direttamente nemmeno un grammo dell’uranio che usano per la generazione elettrica (pari al 18% circa del totale). Circa un terzo è importato dalla Russia, il produttore più competitivo a livello mondiale; gran parte del resto viene dall’Europa, fatta salva una quota prodotta negli Usa da un consorzio tedesco-britannico-olandese…» L’elettronica poi è il caso limite della permeabilità delle sanzioni, perché le componenti elettroniche necessarie a produrre missili arrivano comunque in terra russa. In tempi di svalutazione del rublo, aumento dell’inflazione e dei tassi di interesse nella Federazione Russa, Maronta si sofferma sulla proposta, ventilata anche in Ue e condivisa dall’ex Presidente del Consiglio Draghi, di congelare le riserve valutarie russe, che sono costituite da oro e investimenti, o almeno gli interessi da questi prodotti, quasi un miliardo di dollari l’anno, che si trovano presso istituti bancari occidentali e di utilizzarle per ricostruire l’Ucraina distrutta dalla guerra. A parte la violazione del principio base del capitalismo, quello della proprietà privata, che questo provvedimento comporterebbe, un’azione di questo tipo distruggerebbe la credibilità delle piazze finanziarie e indirettamente anche di quelle americane, nonché del dollaro e dell’euro come monete di riserva. Se alcuni Paesi, come Usa e Paesi baltici, oltre agli inglesi, spingono in tal senso Usa, la Fed, il Fmi e il Governo tedesco sono contrari. Se facessimo un esproprio di questo genere e usassimo i soldi russi pagheremmo a caro prezzo questo azzardo, impedendo a uno Stato di utilizzare i suoi soldi nel modo voluto. Questa guerra, ricorda Maronta, si combatte a molti livelli. Quello economico-finanziario è il più rischioso proprio per l’Occidente.

Gli ultimi due articoli di questa parte riguardano la cosiddetta “dedollarizzazione” e in parte rivalutano il Keynes di Bretton Woods. La globalizzazione voluta da Reagan avrebbe, nei sogni del Presidente della teoria del Trickle down, consolidato il liberismo come premessa del liberalismo in tutto il mondo,Cina compresa. Da quando, con il benestare degli Usa, la Cina è stata ammessa nella Wto, è la superpotenza che ha tratto maggiori vantaggi dalla globalizzazione. Per questo, secondo Giovanni La Torre, autore di Si fa presto a dire declino americano, non sembra sostenibile la tesi di alcuni analisti, secondo cui gli Usa, impauriti dalla posizione geopolitica assunta dalla Cina nel mondo, non escluderebbero una guerra. Quello su cui non si riflette mai abbastanza è il ruolo del dollaro quale mezzo di regolamento internazionale e di riserva valutaria negli equilibri economici e geopolitici mondiali, essendo uno degli strumenti attraverso cui l’America esercita la propria egemonia globale. Il «capolavoro» della politica americana è stato, secondo La Torre, «aver legato le sorti dell’economia mondiale, quindi di tutti i singoli paesi, a quelle della propria economia e della propria egemonia. Se cadono gli Usa cadiamo tutti […]Si è creato in capo all’America una sorta di signoraggio sulla moneta mondiale. In un certo senso si potrebbe concludere che il dollaro è divenuto la «am-lira» (moneta introdotta in Italia dal comando Alleato dal 1943,n.d.r) del mondo globalizzato». I tentativi di Cina, Brasile, Francia, Russia, di regolare tra loro gli scambi con monete diverse dal dollaro hanno avuto fino ad ora scarsissimi effetti. La Torre ricorda che, da quando la moneta non è più legata all’oro, la forza della carta che la rappresenta è basata solo sulla fiducia dell’emittente, elencando le ragioni di tale fiducia nei confronti degli Usa. Dopo un interessante excursus su come si è arrivati alla egemonia del dollaro, ricordando la Bretton Woods del 1944 che vide contrapposti Dexter White e John Maynard Keynes, con la sconfitta della proposta dell’economista britannico dovuta soprattutto alla diversa posizione geopolitica di Usa e Gran Bretagna, La Torre ci spiega come di fatto fin da allora avesse ragione Keynes con la sua teoria del bancor e sostiene che qualcosa di simile al bancor Keynesiano esista già e potrebbe oggi rappresentare una buona collaborazione internazionale Lascio la sorpresa di scoprire quale sia questo strumento a chi leggerà questo interessante approfondimento, che a mio parere si presta a essere usato nelle lezioni di economia monetaria molto più di tanti noiosi paragrafi dei nostri Manuali in adozione nelle scuole. Insomma, come ricorda l’autore di questo saggio, Keynes, dopo averci fatto uscire dalla crisi del 1929 e aver regalato all’Occidente i trente glorieuses (1945-1975) sta ancora suggerendoci qualcosa di molto utile.

Principali detentori del debito pubblico Usa

John Maynard Keynes scriveva anche che non c’è mezzo più sicuro per rovesciare un sistema economico che minare la fiducia nella sua moneta. Ce lo ricorda l’autore di Se cade il dollaro gli Usa tremano, Filippo Gori, con un approccio meno ottimistico di quello di La Torre.: «Nel 2022 il biglietto verde è stato controparte in nove transazioni valutarie su dieci. Oggi il 50% della fatturazione internazionale è in dollari, così come il 60% delle riserve valutarie mondiali. L’importanza del dollaro nel sistema finanziario internazionale oltrepassa di gran lunga quella degli Stati Uniti nell’economia globale: l’economia americana, pur rimanendo la più grande del pianeta, oggi corrisponde solo al 20% del pil mondiale». Tuttavia, secondo Gori, occorre tenere in considerazione il tetto del debito statunitense, oggetto di una ricorrente diatriba tra democratici e repubblicani. Il rischio di un default conseguente al mancato innalzamento del tetto d’indebitamento danneggia la fiducia negli Stati Uniti e nel dollaro, cioè nella stabilità economico-politica del paese che è alla base del primato della sua valuta nel sistema finanziario globale. Buona parte della fiducia verso il dollaro affonda «nella stabilità del sistema politico-economico americano e nell’implicita certezza dalla sua capacità di onorare i debiti. Siffatta certezza potrebbe venir meno, in parte o del tutto, se l’aumento della polarizzazione politica portasse gli Stati Uniti verso ricorrenti crisi del tetto del debito. Un’insolvenza statunitense, seppur temporanea, minerebbe l’immagine internazionale degli Stati Uniti e la fiducia nel dollaro, accelerando la dissoluzione dell’attuale sistema valutario internazionale. Non c’è mezzo più sicuro per rovesciare un sistema economico che minare la fiducia nella sua moneta». E ancora una volta dobbiamo ringraziare la lungimiranza di Keynes.

Mi piace concludere con un inedito della poeta Viktoria Amelina, vittima di guerra, uccisa a Kramators’k dalle bombe russe a 37 anni, riportato insieme ad altri in questo numero di Limes

Testimonianze (2023)

In questo strano posto sono solo le donne a testimoniare
Una mi parla del figlio scomparso
Altre due raccontano dei torturati a morte nei sotterranei
Tre donne dicono che non sanno nulla degli stupri, distolgono lo sguardo
Quattro donne raccontano delle grida nell’ufficio del comando militare
Cinque donne dichiarano di aver visto le fucilazioni nei cortili
Sei donne parlano, ma non si capisce nulla
Sette donne contano ad alta voce le provviste alimentari
Otto donne mi danno della bugiarda e dicono la giustizia non esiste
Nove donne parlano tra di loro mentre vanno al cimitero
Anch’io ci sto andando perché conosco tutti in questo posto
Tutti i loro morti sono i miei morti
Le sopravvissute sono le mie sorelle
Dieci donne raccontano di un uomo scampato alla morte
Anche lui è stato portato al comando e quindi può testimoniare
Busso alla sua porta, ma esce soltanto la vicina di casa
Parla per lui. Sembra soltanto che lui sia scampato alla morte. Ma così non è
Vai a parlare con le donne
(poesia inedita)

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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la maiuscola. Docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.

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