Timur Vermes e lo spettacolo della disumanità

«Questo romanzo è un’opera di finzione. Anche se è vero che nel 2016, secondo quanto asserito dall’organizzazione per i profughi dell’Onu, nel mondo c’erano circa settanta milioni di persone in fuga, questo non significa che una di loro abbia avuto un’idea entusiasmante. E anche se poi così fosse stato: non è affatto sicuro che un’emittente televisiva avrebbe dato spazio a questa idea. […] In generale nessuno può garantire che i gruppi di persone descritti in questo libro si comporterebbero così come è stato supposto. Tutto potrebbe accadere in un modo completamente diverso. Tuttavia è improbabile».
Questa l’introduzione a Gli affamati e i sazi, secondo romanzo di Timur Vermes pubblicato nel 2018 ed edito in Italia da Bompiani nel 2019. Si tratta di un romanzo visionario e simil distopico caratterizzato da un ritmo incalzante e frenetico e da un ventaglio di personaggi tutti diversi tra loro, inseriti in una realtà del futuro spaventosamente vicina al nostro presente. D’altronde l’autore è lo stesso di Lui è tornato, romanzo del 2012 best seller in Germania con oltre due milioni di copie vendute, tradotto in quarantuno lingue e ispirazione dell’omonimo adattamento cinematografico, nonché del remake italiano Sono tornato.
Gli affamati e i sazi ci racconta di un mondo del futuro in cui l’Europa ha completamente bloccato i flussi migratori a partire dall’Africa subsahariana e gli Stati hanno introdotto un tetto massimo di rifugiate/i da accogliere ogni anno. La Germania, così come gli altri Stati Ue, finanzia e promuove i lager costruiti oltre il Sahara in cui milioni di migranti risiedono e aspettano invano il loro turno di raggiungere l’europea terra promessa. Qui, le condizioni di vita sono estreme e terribili: ciascun migrante tenta in tutti i modi di guadagnarsi da vivere e accumulare denaro per pagare i “passatori”, gli scafisti del futuro, che sarebbero in grado di garantirgli un porto sicuro nei Paesi di arrivo. In Germania la classe politica è convinta di aver finalmente ottenuto una soluzione ideale al problema dei richiedenti asilo e l’opposizione è ridotta al minimo, giacché il pensiero populista della maggioranza ha convinto quasi tutta la popolazione che il modo migliore per assicurare la corretta gestione della sicurezza e dell’economia sia fermare i flussi migratori in partenza, letteralmente rinchiudendo le persone rifugiate in enormi campi di concentramento dove si lavora e si subisce una vita indegna nella speranza di raggiungere un giorno un futuro migliore.
Come al solito Vermes ha centrato l’obiettivo: porre la narrazione in un futuro apparentemente lontano e non precisato, ma talmente vicino al nostro presente da incombere sul lettore e le lettrici come una minaccia, un presagio che, pagina dopo pagina, si fa sempre più pesante. Se poi pensiamo agli ultimi decenni, è evidente che l’autore sia stato ispirato dai centri di detenzione libici, dalla “Giungla di Calais”, dai centri collettivi sulla rotta balcanica, tutte questioni magistralmente ignorate dalla politica Ue, la quale tergiversa ed evita il problema migranti, anzi sempre più spesso propone soluzioni alternative analoghe alla realtà descritta da Vermes nel suo romanzo. Come dimenticare la proposta del Pm britannico Rishi Sunak di ospitare i richiedenti asilo su una nave-prigione, a suo dire in modo da evitare loro i rischi di una traversata illegale della Manica?
L’“idea entusiasmante” a cui si accenna nell’introduzione è quella di organizzare una marcia di profughi – prima centocinquantamila, infine circa trecentomila – che attraversi l’intero continente africano, il Canale di Suez, i Paesi balcanici, per arrivare infine in Germania, costringendo così la politica tedesca a far fronte all’emergenza migranti una volta per tutte. Chiamiamola marcia, esodo, rivolta politica, ultima spiaggia, ma non è che un artificio letterario accuratamente elaborato dall’autore: una colonna infinita di migliaia di persone che viaggia nel deserto e nelle città, attraversa mari e fiumi, concorda un prezzo che valga il rischio di una così faticosa traversata deve essere enorme, deve far paura, deve incombere sulle coscienze europee a loro agio nei “loro” Stati sovrani, i cui confini sono saldamente sigillati e sorvegliati dalle autorità.
I personaggi del romanzo sono tanto attuali e realistici quanto le tematiche affrontate. C’è Nadeche Hackenbusch, “Angelo tra i poveri”, cinica presentatrice televisiva di programmi sensazionalistici che decide di dedicare tutti i suoi sforzi e soldi all’organizzazione della marcia, divenendo per i profughi Malaika, un vero angelo. C’è il migrante, di cui non sappiamo e non sapremo mai il vero nome, battezzato Lionel dalla troupe televisiva per suscitare simpatia nel pubblico tedesco, a dimostrazione che non è importante la sua identità, bensì il suo ruolo nella rappresentazione mediale della marcia verso la Germania. C’è Astrid von Roëll, giornalista stagista che segue Nadeche nella sua missione, incaricata di personalizzare al massimo la narrazione dell’esodo e cercare di suscitare pietismo e scoop con il racconto. C’è Mojo il Blu, capo della criminalità organizzata nel lager che tesse la trama dei rapporti economici dei profughi, riscuotendo ed elargendo denaro in cambio dei loro servizi. C’è la classe politica tedesca con i suoi ministri e i suoi sottosegretari, tutti uomini, tutti ricchi, tutti concentrati sul mantenimento di uno status quo a favore del proprio tenore di vita ed estraneo ai problemi sociali del Paese. C’è il team televisivo e redazionale che segue il programma di Nadeche, costantemente impegnato nella rappresentazione del dramma, nella ricerca dello spettacolo del dolore, nella competizione con altre emittenti.
Insomma, Vermes mette in piedi una struttura logica e precisa che potrebbe facilmente essere quella di uno Stato moderno attuale: un sistema mediatico che rappresenta la questione dei richiedenti asilo con semplicismo e sensazionalismo, in cui è fondamentale incorniciare gli effetti che tali narrazioni hanno sulla popolazione bianca, ma è impensabile mettersi dalla parte di chi è protagonista di tali traversate, prigionie, torture, traumi, morte. Gli affamati e i sazi ci ricorda che un approccio eurocentrico è lesivo della dignità altrui e complice di strutture mentali razziste e xenofobe. La condivisione di tale colpa tra politica e media dimostra quanto sia arduo ma essenziale smantellare tali rapporti di potere per restituire una narrazione rispettosa che sia riflesso della realtà e portavoce della diversità.

Timur Vermes
Gli affamati e i sazi
Bompiani, Milano, 2019
pp. 511

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Articolo di Giacomo di Benedetto

Laureato in Lingue, Culture, Letterature, Traduzione e attualmente iscritto a Media, Comunicazione Digitale e Giornalismo presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Si sta specializzando in linguaggi espansivi e narrazioni decisive per la ridefinizione dei ruoli socioculturali all’interno dell’arena di genere, comprensiva di tutte le diversità sottorappresentate dal sistema mediale.

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