L’espansione dei Brics. Un altro ordine mondiale è possibile?

Dal 22 al 24 agosto scorso si è svolto il XV incontro dei Brics, a Johannesburg, in Sudafrica, così intitolato: «Brics e Africa: Partnership per una crescita reciprocamente accelerata, uno sviluppo sostenibile e un multilateralismo inclusivo». Un titolo e un programma che fanno intuire la prospettiva di una crescita orientata anche a principi di uguaglianza e inclusione. L’acronimo Bric fu coniato nel 2001 da Jim O’Neill della Banca Goldman Sachs, per identificare le quattro economie emergenti in rapida crescita, Brasile, Russia, India e Cina, che, secondo l’economista, avrebbero dominato il mercato globale. «Entro i prossimi 40 anni i Paesi del Bric diventeranno il maggior blocco economico del Pianeta e le aziende dovranno rivedere i loro investimenti», furono le parole di O’Neill.
Tra la fine degli anni 90 e il 2000 questi Paesi cominciarono a pensare di costituirsi in un gruppo informale intergovernativo e lo fecero nel 2009, dopo i disastri causati dalla crisi finanziaria del 2008 innescata negli Usa dai mutui subprime e dai derivati. Ai quattro Stati originari, nel 2010 si aggiunse il Sudafrica. Li univano la crescita demografica e la crescita economica, ma anche la consapevolezza del dominio occidentale del mondo e dell’inadeguatezza delle istituzioni nate a Bretton Woods alla fine della Seconda guerra mondiale, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, a far fronte ai cambiamenti in atto e alle sfide globali all’interno di un ordine mondiale che si voleva più equo, inclusivo e multipolare. 

I soli Brics costituiscono, nel loro insieme, il 39,9 % della popolazione mondiale, il 26,7% della superficie terrestre, il 26% del prodotto mondiale lordo. Gli scambi commerciali tra i Brics sono aumentati del 56% negli ultimi 5 anni e ammontano a 422 mld di dollari. All’incontro di agosto, a cui Ramaphosa, Presidente del Sudafrica, ha invitato 69 Paesi, è stata annunciata l’ulteriore adesione, a partire dal 2024, di Arabia Saudita, Argentina, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Etiopia e Iran. Tutti Stati emergenti, che aspirano a essere riconosciuti come tali, come ha osservato Xi Jin Ping. Nell’incontro di Johannesburg, a cui Putin non ha potuto partecipare in presenza perché il Sudafrica, firmatario del trattato istitutivo della Corte Penale internazionale, avrebbe dovuto procedere al suo arresto a causa delle accuse pendenti nei suoi confronti, i Brics non hanno nascosto la loro volontà di costituire un gruppo alternativo al G7. Come è noto, questo club intergovernativo di Paesi, in cui si confrontano, su questioni economiche e geopolitiche ritenute fondamentali, Stati Uniti, Canada, Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e Giappone e ai cui incontri da tempo l’Unione Europea è un’invitata permanente, rientra nella nozione di Occidente e anche se gli Stati che lo compongono sono tutti espressione di regimi democratici, la legittimazione a prendere decisioni per i rispettivi Paesi non discende da un Trattato o da delibere parlamentari. I Brics, invece, sono espressione di democrazie fragili o di regimi autoritari, molto diversi tra loro, ma ciò che li accomuna ai G7 o ai G20 è che non sono legittimati da un Trattato o da un mandato parlamentare ad affrontare e assumere decisioni. Sono club o Forum intergovernativi. Vladimir Putin, ormai isolato dal mondo occidentale, ha criticato gli oppositori del processo di creazione di un nuovo blocco globale, definendoli «i responsabili di un “colonialismo in una nuova confezione’’ che mira a preservare un mondo unipolare a scapito della diversità politica, economica e sociale degli Stati emergenti».
L’annunciato allargamento dei Brics ha subito preoccupato il capitalismo finanziario, in particolare attraverso articoli sul Financial Times perché costituirebbe un blocco di paesi che comprende il 47% della popolazione mondiale, con un Prodotto Lordo pari al 37% del totale, di fronte al 9,8% e al 29,8% dei G7, che riunisce i sette Paesi più industrializzati al mondo.

Come ha ricordato Romano Prodi in un recente articolo sul Messaggero, si tratta di Paesi diversi e spesso in contrasto fra di loro non solo per sistema di governo, ma anche per livello di reddito, tasso di crescita e scelte di politica economica. Questo però non ci dovrebbe impensierire. Tutti i Brics, sia i fondatori che quelli che ne faranno parte dopo il primo allagamento, condividono questi obiettivi: riformare le istituzioni monetarie internazionali, dominate dall’ Occidente e assumere un ruolo più importante al loro interno,  liberalizzare gli scambi commerciali e finanziari globali, eliminare il regime delle sanzioni e finalmente intaccare il Washington consensus all’interno delle istituzioni finanziarie internazionali, ciò che hanno cominciato a fare attraverso la costituzione, nel 2014, della Nuova Banca di sviluppo. Dei 40 Stati interessati dai Brics 23 hanno già richiesto l’ingresso nella nuova coalizione. 

Sia la Nato che, prima della guerra russo ucraina era stata definita dal Presidente Macron “cerebralmente morta”, che i Brics hanno trovato nuovo vigore dopo la guerra russo-ucraina. Nei primi mesi dallo scoppio della guerra Russia e Cina si sono trovate a subire la pressione occidentale tesa a isolarle nel contesto del binomio “autocrazie/democrazie “, fatto circolare ad arte dai media dei Paesi alleati agli Usa, con l’inserimento, avvenuto non senza qualche forzatura e con qualche perplessità comunicata anche al Presidente Zelen’ski, dell’Ucraina tra le democrazie. Russia e Cina, nel Summit di agosto, hanno dimostrato di godere di un forte consenso internazionale, mentre molti paesi in via di sviluppo hanno intravisto nello stravolgimento dell’equilibrio globale seguito alla guerra l’opportunità di far valere il proprio peso politico. I Brics, che in questi anni sono stati caratterizzati dalla guida cinese, in virtù della forte crescita di questa economia, che solo recentemente ha conosciuto un declino e la deflazione, sembrano orientati ad aprire all’Africa e al Medio Oriente. L’Etiopia è una delle economie africane emergenti, ha la seconda popolazione più numerosa del continente, è sede dell’Unione africana e si trova all’incrocio delle vie marittime che collegano Europa e Asia in posizione strategica nel Corno d’Africa. Due anni di guerra civile nella regione settentrionale del Tigray pesano però sulla sua stabilità politica; l’Egitto è la seconda economia dell’Africa e controlla il Canale di Suez, l’adesione di Arabia Saudita e Iran, divisi da un lungo passato di ostilità in Medio Oriente, e avvicinati dall’opera di mediazione di Xi-Jinping, porterà ai Brics due tra i Paesi grandi produttori di petrolio, che saranno in grado di finanziare con grandi quantità di denaro la New Development Bank, la Banca di sviluppo dei Brics con sede a Shanghai; Teheran interessa alla Russia, perché porterà nelle reti commerciali dei Brics l’International North-South Transport Corridor (INSTC) che consente a Mosca di esportare in modo alternativo ai corridoi tradizionali i propri prodotti verso l’Asia. L’Argentina, fortemente voluta da Lula, per allargare la sfera dei Brics all’America Latina, è afflitta da una forte svalutazione e da un grave dissesto economico. Sul Paese incombe l’esito delle prossime elezioni, che potrebbero essere vinte da un candidato contrario alla partecipazione ai Brics e filoccidentale. Come ricorda Iannuzzi nel suo blog Intelligence for the people con l’ingresso dei nuovi membri i Brics avranno il controllo sul 72% delle terre rare a livello mondiale, il 75% del manganese, il 50% della grafite e il 28% del nichel, cioè su molti dei minerali essenziali per la tradizione energetica e la cosiddetta quarta rivoluzione industriale. 

Nonostante ciò, sono ancora molte le occasioni di contrasto tra alcuni membri dei Brics, presenti e futuri, come, ad esempio, le dispute territoriali tra Cina e India e i contrasti tra Etiopia ed Egitto, in merito a una diga che minaccerebbe la sicurezza idrica dell’Egitto. Inoltre, l’India, pur essendo tra i fondatori dei Brics, è partner del Quad, il raggruppamento nell’Indopacifico che unisce l’India con Australia, Giappone e Usa nel contrasto all’espandersi del potere cinese in questo mare.

A Johannesburg si è parlato anche di de-dollarizzazione, rinviando al prossimo incontro il progetto di una valuta alternativa a quella americana negli scambi all’interno dei Brics. Al momento il dollaro è ancora la valuta più usata nelle transazioni, ma i Brics hanno spesso utilizzato monete locali per i loro scambi. Uno dei più grandi sostenitori del processo di de-dollarizzazione è il Presidente Brasiliano Lula, che ha anche avuto nel Summit sudafricano un ruolo di mediazione importante. Di una valuta alternativa a dollaro e euro si era parlato fin dal primo incontro dei Bric, quando ancora non vi faceva parte il Sudafrica, con lo slogan: «Non esiste solo il dollaro e non esistono soltanto le istituzioni europee». A tal fine è utile richiamare le parole dell’ambasciatore cinese al Summit sudafricano: «Il sistema di governo globale è attualmente carente, disfunzionale e dispersivo». Alcuni pensano a una valuta alternativa
al dollaro, sul modello dell’ecu( european currency unit) prima dell’Unione Monetaria Europea.

Come spesso accade, è difficile immaginare gli sviluppi nel medio periodo di questo Brics allargato, ma sarebbe un errore sottovalutare il segnale che questi Paesi hanno dato al mondo occidentale: la volontà di contare sempre di più sulla scena globale e di organizzarsi per raggiungere questo obiettivo, l’approccio multilaterale alle relazioni internazionali, la volontà di guidare quello che, con espressione discutibile, si è cominciato a chiamare Sud globale.

Come ha ricordato a Radiotre Mondo Lucia Scaffardi Coordinatrice dell’Osservatorio Brics dell’Università di Parma, i Brics, dall’anno della loro costituzione, hanno saputo concordare politiche pubbliche comuni a favore dell’istruzione e dello sviluppo delle competenze dei giovani, realizzando una serie di accordi simili alla “politica dei piccoli passi” delle istituzioni europee e questo ha sicuramente aumentato la loro credibilità nei confronti dei Paesi che hanno chiesto di entrare a far parte di questo Club.

E la dichiarazione finale di Johannesburg parla chiaro, mettendo in primo piano «l’impegno per un multilateralismo inclusivo e il rispetto del diritto internazionale, compresi gli scopi e i principi sanciti nella Carta delle Nazioni Unite come pietra miliare indispensabile, e il ruolo centrale delle Nazioni Unite in un sistema internazionale in cui gli Stati sovrani cooperano per mantenere la pace e la sicurezza, per promuovere lo sviluppo sostenibile, per garantire la promozione e la protezione della democrazia, dei diritti umani e delle libertà fondamentali per tutti e per promuovere la cooperazione basata sullo spirito di solidarietà, rispetto reciproco, giustizia e uguaglianza».

Il blocco occidentale, purtroppo, continua a mantenere un atteggiamento di competizione con alcune delle potenze Brics, e significativamente con la Cina e la Russia. A questo proposito viene in aiuto un articolo di Carlo Rovelli, Attenzione a non ripetere gli errori dell’antica Roma, che ha recensito per La Lettura del Corriere della sera del 30 luglio 2023 il libro di due storici, Peter Heather, Direttore del Dipartimento di storia medioevale del King’s College di Londra e John Rapley, economista politico dell’Università di Cambridge. Why Empires fall. Roma, America and the Future of the West,questo il titolo del testo, indaga sulla caduta degli Imperi.
L’interpretazione dei due studiosi è sicuramente molto innovativa e offre elementi preziosi per capire il presente: sarebbe stata infatti la diffusione della ricchezza, non una depressione economica, a condurre verso la fine l’Impero Romano. Così ci spiega Rovelli, descrivendo ciò che accadde all’Impero Romano:«La produttività economica si sposta dalle zone centrali e si diffonde verso la periferia, dentro e fuori i confini, generando nuove ricchezze e quindi nuovi centri di potere. Il centro ha permesso l’arricchimento della periferia, ora deve fare i conti con l’arricchimento economico e politico di nuove élites. I Regni dei Vandali e dei Goti che prendono via via il sopravvento politico su Roma nel corso del V secolo, e la forza che vengono a trovarsi, sono il prodotto dell’influenza economica e culturale della stessa civiltà romana […]». Che cosa ci insegna, allora, la storia? Quali sono le analogie tra la caduta dell’Impero Romano e l’attuale posizione dell’Occidente nel mondo? Continua Rovelli nella sua recensione: «L’Occidente ha dominato il mondo durante i secoli del colonialismo. Ha continuato a dominarlo dopo la Seconda guerra mondiale, anche quando il suo centro si è spostato oltreoceano. Il predominio militare persiste, anzi si è esteso, ma la centralità economica si è ridimensionata radicalmente negli ultimi anni. Non perché l’Occidente sia in declino (la sua ricchezza aumenta, anche se ora meno equamente distribuita); il predominio occidentale si è ridimensionato, invece, per il vivacissimo sviluppo economico delle periferie. Poco dopo la fine della Seconda guerra mondiale l’Occidente generava la parte di gran lunga preponderante della ricchezza del Pianeta. Oggi la crescita economica della periferia — Cina, India, Brasile, Stati Arabi, Indonesia, Sudafrica, Est e Sud-est Asiatico e via via — ha ridotto l’economia occidentale a una componente tra le altre. […] L’Occidente mantiene il dominio planetario grazie al suo rimanente strapotere militare, ma non più appoggiato su una decisa superiorità economica: una situazione sempre più instabile.». È stato proprio il dominio economico e culturale dell’Occidente che ha consentito alle periferie di crescere, come nel Tardo Impero e di resistere alla dominazione coloniale su cui l’Occidente ha costruito la sua ricchezza».

Molti oggi temono uno scontro armato tra Occidente e Cina. Il Governo italiano, sorprendentemente tra i più atlantisti della nostra storia, manderà la portaerei Cavour al seguito degli Usa nel Mar della Cina. E qui le analogie continuano anche con l’Impero romano d’Oriente. I due Imperi, Romano e Persiano, intrapresero una guerra che li sfinì entrambi, facendoli cadere nella trappola del giovane potere arabo. L’impero persiano fu spazzato via e quello bizantino ridotto a un piccolo Stato. Ma i due studiosi sono ottimisti: l’Occidente ha la possibilità di un futuro prospero, purché faccia tesoro degli errori commessi dal Tardo Impero, accettando che l’emergere delle periferie sia un evento storico inevitabile. Costruire una cultura di collaborazione con la Cina (potenza molto meno bellicosa dell’Occidente e ormai tornata ad essere tra le maggiori superpotenze) e con il resto del mondo, cooperazione simile a quanto hanno fatto Europa e America tra loro, è la strada che può evitare catastrofi. Purtroppo, la leadership occidentale non sta andando in questa direzione. L’irrigidimento militare, la politica delle sanzioni (che peraltro sono servite a ben poco e non hanno fatto crollare la Federazione Russa) e il tentativo di frenare la richiesta dei Paesi emergenti di costruire un mondo più collaborativo e pacifico, avranno un esito rovinoso, reso ancor più grave dell’esistenza delle armi nucleari e dalla emergenza ambientale e climatica. «La storia non si ripete, ma insegna», ammonisce Rovelli. Riusciranno donne e uomini di buona volontà, nei vari Forum ma anche nelle ong e nei think tank che si occupano di relazioni internazionali e geopolitica, a intraprendere questa strada, più faticosa, ma più lungimirante?

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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.

2 commenti

  1. Sara carissima sai converire a lwggere di cose che mai avrei immaginatondi interesarmi. Lo fai con chiarezza e competenza. Due doti che camminano unite, ma non facili da avere. Grazie ogni volta che scrivi

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