Sul Kilimangiaro con May French Sheldon

Bebe Bwana significa Piccolo Capo ed è il nome con cui venne soprannominata May French Sheldon. Nata come Mary French il 10 maggio del 1847 a Beaver Country, in Pennsylvania, è nota principalmente per la sua eroica spedizione alla volta del Kilimangiaro. Si tratta di una donna di origini nobili, scrittrice ed etnologa, appassionata di viaggi e diversità, e con una spiccata curiosità nei confronti dell’alterità naturale e culturale. Acquisisce il secondo cognome dal marito Eli Lemon Sheldon, banchiere e scrittore che si rivelerà essere una fondamentale figura di supporto per la nostra esploratrice controcorrente. Insieme si trasferiscono a Londra nel 1876 e trascorreranno lì la loro intera vita, eccezion fatta per le fughe di piacere o di lavoro.

Dopo aver compiuto diversi viaggi già a partire dalla tenera età e aver ricevuto un’educazione molto variegata, si imbatte in una storia che inizierà ad abitare dentro di lei e sarà il motore della sua avventura. Nel 1890, infatti, incontra l’amico Henry Stanley di ritorno da una spedizione nella giungla africana. Ascolta il resoconto del viaggio con attenzione e, senza pensarci troppo, prende una decisione: partirà anche lei. Si sparge subito la voce e chiunque venga a sapere il suo piano cerca di dissuaderla. Come può una donna sola intraprendere un viaggio del genere? Come può essere tanto indipendente? L’unica persona che la supporterà dall’inizio alla fine, e anzi la incoraggerà ad iniziare l’avventura, è il marito. May, come amava farsi chiamare, non ascolta i dubbi di chi le sta intorno, non abbandona neanche per un momento l’idea di compiere un viaggio fino ad allora concluso solo da uomini. Chi ha scritto di lei ha sempre fatto riferimento alla determinazione come tratto principale del suo carattere, e sarà proprio la determinazione a permetterle di portare a termine l’impresa. Così, dopo alcuni preparativi, fissa la partenza nel 1891, un anno dopo aver ascoltato la storia dell’amico. Prima di tutto contatta il Sultano di Zanzibar, che si mostra molto interessato al viaggio, tanto da fornire alla nobildonna un gruppo di accompagnamento assai folto. Pare infatti che con lei ci fossero più di cento persone tra guide e servitù, tutte formate nell’ottica di rendere l’itinerario il più sicuro e confortevole possibile. All’età di quarantaquattro anni, dunque, parte in direzione del Kilimangiaro e, più in generale, dell’Africa orientale. Inizia il viaggio da Mombasa, in Kenya, con l’obiettivo di raggiungere il lago Chala ai piedi del Kilimangiaro al confine con la Tanzania. Stiamo parlando del monte più alto del continente africano e della montagna singola più alta del mondo, il cui raggiungimento era stato fino ad allora prerogativa maschile. Un vulcano inattivo composto da tre coni che attira così tanto la viaggiatrice, da superare tutte le difficoltà che comporta un simile percorso. Racconta infatti di aver subito degli incidenti che l’hanno costretta a delle lunghe soste, come quella volta che cadde durante l’attraversamento di un fiume e fu costretta a una paralisi temporanea. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, le guide erano in grado di spianarle la strada e aiutarla in ogni difficoltà. Un anno dopo scriverà queste parole proprio in riferimento alle condizioni di viaggio e dei luoghi attraversati: «Mi ritrovai a tentare di penetrare una cintura di alberi della foresta primordiale che qualche evento vulcanico aveva sbattuto contro la roccia e che appariva impenetrabile come una palizzata». 

Durante il viaggio che ha fatto sì che venisse considerata la prima esploratrice dell’Africa, incontra moltissime tribù, trentacinque per la precisione, e quasi sempre viene accolta con calore dai capi di ogni singolo lignaggio. Altre volte, invece, ha la comprensione necessaria per rispettare la volontà di alcuni gruppi non desiderosi di essere fotografati, o in qualche modo “studiati” da un’estranea. L’etnologa raccoglie infatti materiale di vario tipo, che sfocerà poi nella pubblicazione di un testo edito nel 1892 dal titolo Sultan to Sultan. Adventures Among the Masai and Other Tribes of East Africa. Attraverso lo studio di questa etnografia e la ricostruzione di racconti giornalistici del tempo, si è sviluppato un filone critico attorno alla figura di May French Sheldon, che vale quanto meno la pena citare. Sono stati fatti diversi studi che mirano a individuare e descrivere le dinamiche di potere in rapporto al genere nelle diverse epoche. All’interno della cornice di questi studi, la viaggiatrice americana è stata descritta come incarnazione viva del privilegio bianco. Come si è visto, in effetti, May si spostava con al seguito più di un centinaio di persone del luogo, tra le quali era l’unica bianca, e sulle quali esercitava un certo potere. Lo stesso soprannome che le è stato dato (è dubbia la sua provenienza dalla lingua swahili), indica una superiorità, riscontrata anche nelle descrizioni del suo rapporto con le guide e la servitù. Traducendo Bebe Bwana con parole quali master, boss, si posiziona immediatamente al di sopra delle persone di cui si stava servendo. Si definisce inoltre A White Queen in Darkest Africa, passando così per la ricca nobile bianca in una terra selvaggia. Nonostante questi elementi ― che è bene tenere a mente per guardare a certe figure in maniera critica, pur sempre inserendole nel loro contesto storico ― diverse fonti raccontano del suo opporsi all’idea che le tribù fossero composte da bestie da addomesticare. Si racconta anche della sua vicinanza, negli anni successivi al viaggio, alla popolazione oppressa del Congo belga. 

Un importantissimo riconoscimento è certamente l’ammissione, tra le prime donne al mondo, alla Royal Geographical Society, proprio per l’importanza del suo studio dei luoghi visitati. Quando smette di esplorare, comincia a viaggiare per raccontare, portando il suo libro in giro per l’America e l’Inghilterra con un instancabile desiderio di far conoscere la sua storia e la storia di coloro che aveva incontrato lungo il cammino. May French Sheldon muore a Londra nel 1936, e la sua figura controversa non verrà mai dimenticata. Ciò che più colpisce, e ciò di cui più si parla, è la totale fiducia in sé stessa, atipica per una donna dell’epoca. Nonostante sia cresciuta in una società che non solo scoraggiava le donne nella loro realizzazione, ma anzi le ostacolava, è riuscita a conquistare il proprio spazio. Non ha mai pensato di dover giustificare le sue azioni e il suo essere nei luoghi, ha invece preteso gli spazi fisici e sociali che le spettavano. Presentandosi come una scienziata e una voce da ascoltare, una sapiente narratrice e un’avventuriera, ha raggiunto dei primati fino ad allora impensabili. Se si pensa che ancora oggi le donne sono spesso costrette a dover legittimare le loro posizioni, allora la fierezza, la determinazione e la decisione di Mary French non possono che rappresentare un lascito dal valore inestimabile. 

In copertina: Mary Sheldon, al centro, vicino all’esploratore Henry Morton Stanley.

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Articolo di Emilia Guarneri

Dopo il Liceo classico, si laurea in Lettere presso l’Università degli Studi di Torino. In seguito si trasferisce a Roma per seguire il corso magistrale in Gestione e valorizzazione del territorio presso La Sapienza. Collabora con alcune associazioni tra le quali Libera e Treno della Memoria, appassionandosi ai temi della cittadinanza attiva, del femminismo e dell’educazione alla parità nelle scuole.

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