Il nome di Ada Gobetti Marchesini è talmente noto che è quasi superfluo presentarla. Torinese, nata Prospero, vedova di Piero Gobetti (uno dei primi antifascisti perseguitati in Italia: morì venticinquenne in Francia, dove si era rifugiato, in seguito al pestaggio subito), dirigente del Partito d’Azione e impegnata durante la Resistenza nell’organizzazione delle bande partigiane in Valle di Susa, fu nominata vicesindaca di Torino dal Cln all’indomani della Liberazione.
Il suo Diario partigiano è una miniera di informazioni che ci immergono nel clima di un paese in guerra, permettendoci di valutare l’importanza della fitta rete di legami personali e politici fra le persone impegnate nella lotta antifascista in Piemonte. Tornano spesso, nel libro, nomi conosciuti, Vittorio Foa, Altiero Spinelli, Bianca Guidetti Serra, Franco Venturi, Duccio Galimberti, Mario Andreis, Emanuele Artom, Giancarlo Pajetta, Ferruccio Parri, Giulio Bolaffi e tanti altri, e fra loro vi fu chi non arrivò purtroppo a vedere il risultato della propria azione. Ma il diario è anche una preziosa testimonianza da una parte dell’impegno che l’autrice profuse a favore delle donne, dall’altra del modo in cui i partiti politici si rapportarono con la “questione femminile”.
Colpisce come Ada inizia a occuparsi delle donne, anzi delle “donne”, con tanto di virgolette, come inizialmente scrive lei, con una presa di distanza che subito incuriosisce. Siamo nel novembre del 1943, da due mesi e mezzo si stanno creando le bande partigiane e a questo scopo Ada fa la spola tra la sua casa nel centro di Torino e Meana, in Valsusa, insieme al figlio Paolo, diciottenne. Viene a trovarla un tizio, un democristiano che conosce da vent’anni, proponendole a nome de Cln regionale piemontese di occuparsi di un’organizzazione femminile che ha lo scopo di attivizzare le donne nella lotta contro i fascisti e gli occupanti tedeschi. La proposta non la entusiasma affatto, è dalla lontana adolescenza, dai tempi del movimento suffragista, che non si interessa di «cose femminili». Forse si sente sminuita, anche se non lo dice, e si chiede addirittura se esista veramente una questione femminile: «Il voto ce lo debbono dare e ce lo daranno: è nella logica delle cose. Quanto al resto, mi pare che i problemi d’oggi, la pace, la libertà, la giustizia – tocchino allo stesso modo uomini e donne». Insomma non si sente adatta a occuparsi «di queste cose» e rifiuterebbe se Mario Andreis, rappresentante del Partito di Azione nel Cln piemontese, non le dicesse che deve accettare, «per qualche oscura ragione politica», pensa lei che disciplinatamente obbedisce.
L’approccio dei dirigenti politici – l’uso del maschile è voluto e in questo caso adeguato – al problema del lavoro rivolto alle donne appare francamente opportunistico, e non deve stupire se anche una donna come Ada Gobetti, della cui sensibilità e statura morale non si può dubitare, adotta il punto di vista maschile sulla questione («il voto ce lo devono dare e ce lo daranno»). Vent’anni di fascismo avevano lasciato il segno. E tuttavia, se all’inizio la sua reazione rispetto all’incarico propostole è di fastidio, se non proprio di rifiuto, presto lascia il posto a una consapevolezza più matura. Frutto sicuramente del rapporto di Ada con donne come Frida Malan («Frida mi parlò a lungo della questione femminile, su cui ha idee senza dubbio originali», p. 82) e Silvia Pons, della quale aveva grande stima, donne che su questo piano erano più avanti. Sta di fatto che qualche mese dopo (siamo nel marzo del ’44) Ada ha l’occasione, a Torre Pellice, di parlare a un gruppo di signore invitate a questo scopo a casa di Rita Rollier e il tono del suo discorso è molto diverso: «Parlai loro del lavoro tra le donne ma le trovai poco entusiaste e leggermente diffidenti. Non potevo dar loro torto, ripensando alle reazioni da me avute le prime volte che me ne avevan parlato. Le donne intelligenti e colte […] difficilmente capiscono l’istintiva solidarietà delle donne semplici, in quanto donne e madri. Eppure proprio su questa solidarietà e sulla coscienza, risvegliata appena, della loro forza e della loro potenza, pensavo che si potesse fondare tra le donne un movimento di redenzione, simile ai grandi movimenti che hanno sconvolto il mondo, e capace di cambiare la faccia della terra. Tentai di spiegare loro queste mie idee, ancora per me stessa abbastanza confuse, cercando di compensare la scarsa chiarezza con l’entusiasmo di chi crede, sia pure ancor faticosamente cercandola, in una strada nuova». È evidente il grosso passo avanti che Ada ha compiuto.
Ada Gobetti si impegna, quindi, con abnegazione nel lavoro organizzativo – la sua specialità – dei Gruppi di difesa della donna, rivelando una capacità di lavoro sorprendente e un indubbio coraggio. Tutto un andare e venire tra Torino e la Valle di Susa con ogni mezzo, il treno quando è possibile, in bicicletta, a piedi per lunghi tratti, con mezzi di fortuna in momenti in cui i trasporti erano precari per i ponti fatti saltare dai partigiani stessi, per i bombardamenti degli Alleati, i posti di blocco dei tedeschi e dei fascisti, il pericolo costituito dai delatori. Epica l’impresa, cui volle partecipare per prendere contatto con le organizzazioni femminili nella Francia liberata, in pieno inverno, attraverso un valico alpino a 2500 metri, nel dicembre del ‘44. Il ritorno, dopo più di un mese nel Delfinato, fu una cosa pazzesca: 67 ore di cammino, tre giorni e tre notti senza quasi dormire e mangiando solo cioccolata.
Nello stesso tempo lavorava instancabilmente per stabilire i contatti fra i gruppi partigiani di diverso orientamento. Nonostante lo scarso interesse che alcuni, nel suo stesso partito, rivelavano per l’azione rivolta alle donne, Ada continuò a impegnarsi anche per il Movimento femminile di Giustizia e Libertà, legato al PdA, e per il giornale che ne diffondeva le idee, La nuova realtà. «Se Silvia Pons si impegna potrà farne una cosa ottima» scrive in proposito «La nuova realtà è proprio quella che tutti, uomini e donne, vogliamo creare per il domani» (p. 161). Il titolo del giornale, deciso dopo una lunga discussione a casa di Frida, le piace. Non le piace invece il nome dei Gruppi per la difesa della donna e l’assistenza ai combattenti della libertà. Troppo lungo, pensa, e non si può che darle ragione, e non capisce il senso di quell’espressione “difesa dalla donna”. Si tranquillizza quando capisce che si tratta di lavorare per cose concrete e su questo piano Ada è bravissima. Non le piace nemmeno troppo che i Gruppi, pur essendo pluripartitici, rischino di essere monopolizzati dalle donne comuniste, pur sapendo che sono nati per iniziativa del Partito comunista, e ha la netta impressione che i dirigenti del suo partito sottovalutino questo rischio. Leo Valiani, cui ne parla, non le dà troppo retta. Evidentemente l’organizzazione politica delle donne era a suo parere un elemento trascurabile. Ada ne soffre, ma sembra che impedisca a sé stessa di attribuire questo comportamento a una sottovalutazione dell’azione femminile. Oppure, se lo pensa, si autocensura.
Non è l’unico caso in cui Ada deve fronteggiare atteggiamenti che oggi noi non facciamo alcuna fatica a definire francamente maschilisti. L’incontro, subito prima dell’insurrezione di Torino, con i due colleghi che saranno incaricati insieme a lei di ricoprire la carica di vicesindaco, è più che deludente. Ada Gobetti esce «scoraggiata e umiliata» dal luogo dove era avvenuto l’abboccamento con il socialista Chiaramello e il suo omologo democristiano Quarello. Non solo non è riuscita a parlare dei problemi concreti che dovranno affrontare (il ritorno dalla prigionia, le case per le persone rimaste senza tetto, le scuole, l’assistenza alle famiglie delle vittime politiche…) e che agli altri due non sembrano interessare, ma viene trattata con un’aria di benevola superiorità, e addirittura Chiaramello, forte di un’antica amicizia, si permette di darle affettuosi colpetti sulla testa dicendo: «Ma guarda un po’ che idee rivoluzionarie si messa in testa la nostra Ada! Ah ah, testolina bizzarra!».
Fu il primo contatto di Ada con il mondo della politica. In seguito, per fortuna, incontrerà il sindaco Roveda, uomo di tutt’altra pasta, con il quale si troverà in perfetta sintonia. Tuttavia la sua esperienza politica in senso stretto terminò presto, limitandosi al periodo dell’immediato dopoguerra. L’aria che si respirava negli ambienti della politica attiva non permetteva a una donna di mettere davvero a frutto le proprie doti. Ada Gobetti Marchesini aveva avuto, come abbiamo visto, più di una prova di quanto fosse difficile, anche per una donna della sua levatura, combattere il maschilismo di tanti personaggi politici, evidente anche se travestito da indulgente bonomia. Le parole che l’autrice usa («scoraggiata e umiliata») per descrivere il suo stato d’animo dopo il suo incontro con quelli che sarebbero stati i suoi colleghi al Comune di Torino sono, nella loro sobrietà, eloquenti. I tempi non erano ancora maturi per la partecipazione delle donne alla politica attiva, anche se di lì a poco se ne riconoscerà il diritto.

Ada Gobetti
Diario partigiano
Einaudi, Torino, 1956
p.444
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Articolo di Loretta Junck

Già docente di lettere nei licei, fa parte del “Comitato dei lettori” del Premio letterario Italo Calvino ed è referente di Toponomastica femminile per il Piemonte. Nel 2014 ha organizzato il III Convegno di Toponomastica femminile, curandone gli atti. Ha collaborato alla stesura di Le Mille. I primati delle donne e scritto per diverse testate (L’Indice dei libri del mese, Noi Donne, Dol’s ecc.)
