Via del Casaletto n°202-204. La casa di Maria Michetti

Maria Antonietta Michetti ‒ più semplicemente Maria per familiari e conoscenti ‒ è stata una partigiana, una politica, una sociologa, una pacifista e una femminista romana. Una donna che è stata tante cose, raccontate sempre con estrema parsimonia, desiderosa di restare lontana da clamori e riflettori, di non comparire e di non parlare di sé. Ho imparato a conoscere Maria attraverso le testimonianze, orali e scritte, di chi l’ha frequentata, amata e apprezzata, a partire dal figlio Marco Marroni e dalla mia amica Giulia Trevisani per arrivare ai racconti di Alessandro Portelli, di Luciana Castellina, del professor Claudio Natoli, della sociologa Maria Immacolata Macioti che ha curato, per la casa editrice Ediesse, il libro Maria Michetti. Volevo un mondo migliore. La targa immaginaria è il mio modo di tributare un omaggio a una donna coraggiosa, combattiva, dal pensiero sempre moderno e coerente, «una disciplinatissima irregolare» come è stata definita in modo efficace.
La targa commemorativa in onore di Maria Michetti dovrebbe trovare posto all’entrata di quella che era la villa Filippini-Lera, per molti anni abitazione sua e della sua famiglia. L’elegante edificio, contrassegnato allora dal numero civico 78 di via del Casaletto, e il vasto giardino si aprivano verso i fondi agricoli dell’Agro Romano di proprietà di famiglie nobili romane e di alcuni ordini religiosi; l’Agro Romano ormai non esiste più intorno a via del Casaletto, divorato dall’intenso sviluppo edilizio e urbanistico di Roma come dimostrano gli attuali numeri civici 202-204 dell’edificio.

Villa Filippini-Lera in via del Casaletto 202-204. Foto di Marco Marroni

Maria abita qui a partire dal 1925 con il padre Luigi, ufficiale dell’esercito, e la madre Anna Rinolfi, insegnante elementare, che prendono in affitto alcune stanze al primo piano della villa per permettere ad Anna di svolgere il suo lavoro di maestra; nel tempo vengono al mondo un fratello e altre quattro sorelle. Nata il 5 gennaio del 1922, Maria vive circondata dal verde, gioca con le figlie e i figli delle famiglie contadine impegnate nella conduzione dei fondi agricoli, bambine e bambini che di giorno siedono tra i banchi di legno in una stanza della villa, organizzata come una classe, per seguire le lezioni tenute da sua madre.
Gli anni dell’adolescenza e della giovinezza corrispondono al periodo in cui si consolida il regime fascista ma, come ha affermato lei stessa, la sua famiglia, pur non essendo fascista e nemmeno antifascista militante, esprime una sorta di lontananza culturale dal regime. Sono le braccianti dei fondi agricoli del Casaletto a impartirle una prima e spontanea forma di consapevolezza quando un giorno l’avvisano che la mattina seguente l’anarchico Schirru verrà fucilato nel vicino Forte Bravetta. Maria ha sempre ricordato con molta emozione questo episodio: «Mi sono alzata all’alba, potevo avere undici anni, dodici, non so. Loro stavano già al lavoro, nell’orto. Esco di casa e trovo di sotto questi uomini e donne che aspettano lo scoppio delle fucilate. Si sente benissimo il crepitio dei colpi, le donne si inginocchiano e pregano; gli uomini bestemmiano. E mi è rimasta impressa per tutta la vita questa scena». In realtà Maria confonde i nomi, non si tratta dell’esecuzione dell’anarchico Schirru, giustiziato a Forte Braschi nel 1931, ma più probabilmente di quelle dell’anarchico Angelo Sbardellotto e dell’antifascista Domenico Bovone fucilati il 17 giugno 1932 a Forte Bravetta. Ma il tremendo ricordo delle scariche di fucile marchia per sempre la sua anima.

Maria Michetti con le sorelle e il fratello nell’ottobre del 1941. Maria è la più alta sulla destra.
Archivio privato di Marco Marroni

In seguito è la scuola a permetterle di dare forma solida e intenzionale alla sua coscienza critica e politica: «Io ho frequentato il liceo classico » ha più volte ricordato Maria «[…] il più vecchio liceo romano che si chiama Visconti […]. Sono entrata al liceo nel 1936, nel periodo in cui il fascismo era più forte. Ne sono uscita nel giugno del 1940, all’entrata in guerra dell’Italia. In questa scuola che cosa mi è successo? Mi è successo che avevo dei buoni professori, anche tradizionali. Però, sapete com’è? La cultura invita anche a riflettere, a pensare a molte cose. C’era una certa contraddizione fra questi fascisti che incombevano, che volevano ordinarci di andare alle sfilate, che volevano si indossasse sempre la divisa e poi i professori che ti facevano leggere libri, autori, la storia, studiare la filosofia nella quale si era invitati a una critica del pensiero, a una critica della società, sia che lo volessero o che non lo volessero, qualche volta. […]»; e ancora: «[…] I professori che ho sono antifascisti ma portano la cimice [il distintivo del Partito nazionale fascista N.d.R]. Il professore mio, Guido Gigli, allievo di De Ruggiero, porta la cimice però non vuole darci testi di filosofia, e ci detta lui la filosofia, se vuoi alla crociana, ma con uno spessore serio, critico. C’era il professore d’italiano, Cirillo Berardi, violentemente anarchico e antifascista […] don Primo Vannutelli che tutti sappiamo che è un antifascista, un personaggio incredibile, eccezionale […] Raffaele Persichetti [docente di storia dell’arte N.d.R.] che muore a San Paolo l’8 settembre.» Poi l’impatto con le leggi razziali del 1938 in seguito alle quali due suoi compagni di classe sono improvvisamente costretti a lasciare la scuola: il cambiamento di visione si fa definitivo, l’ingiustizia e la prepotenza di cui è testimone lasciano il segno di una forte avversione per il regime.

Tesserino dell’Accademia Germanica di Roma per l’anno 1940-1941. Archivio privato di Marco Marroni

Dopo la scuola si iscrive alla Facoltà di Lettere della Sapienza, animata in quegli anni da un gruppo di giovani antifascisti/e che vedono nel professor Natalino Sapegno una figura di riferimento morale e politico; entra così in contatto con alcuni giovani comunisti e dal 1942 comincia a lavorare nelle organizzazioni antifasciste, raccogliendo fondi e diffondendo l’Unità clandestina: «Mi fanno leggere l’appello unitario emesso a Parigi, in cui comunisti e socialisti e altre forze si rivolgevano agli italiani perché agissero contro il fascismo, cominciassero a fare qualcosa contro il fascismo. Questo fare qualcosa mi piacque e dissi che ero disponibile […]». L’adesione alla Resistenza è la conclusione di un percorso tracciato che Maria accetta consapevolmente ma con un punto fermo: il suo profondo rispetto per la vita umana non le consente di imbracciare armi, le sue azioni non saranno mai azioni di fuoco. Dopo il 25 luglio del 1943 l’impegno si fa sempre più pressante. Maria, che è entrata nella struttura clandestina del PCI, si occupa di logistica e di collegamento tra il gruppo politico centrale e il territorio della città. Tutte le mattine porta notizie, ordini, informazioni, lo fa con qualunque mezzo, quando può in bicicletta, qualche volta in autobus ma per lo più a piedi, attraversando Roma in lungo e in largo: di fatto svolge il lavoro di preparazione per le azioni militari.
Un altro compito fondamentale è quello di estendere l’appoggio alla Resistenza a tutta la popolazione cercando di far crescere il consenso nei quartieri della città, in primo luogo quelli popolari dove l’adesione al regime diminuisce man mano che le condizioni di vita si fanno più difficili. È necessario avvicinare le donne che ogni giorno lottano per la sopravvivenza delle loro famiglie, parlare, comprendere le loro necessità, legate soprattutto all’imperativo di trovare cibo. Maria le incontra a Trastevere, la zona in cui opera maggiormente, ma anche a Trionfale e a Valle Aurelia, donne del popolo molto diverse da lei che è una giovane studente. «Le più scatenate ‒ ricorda Maria ‒ erano le donne coi figli. […] In tutte la case di Trastevere abbiamo fatto riunioni, io ne ho fatte proprio tante. Le facevo raccontare: “Che cosa avete fatto oggi? Avete trovato qualcosa da mangiare?” […] Ora mi chiedo se non era un po’ crudele questo metodo». Diventa fondamentale coinvolgere quante più donne possibile in forme di disubbidienza attiva ‒ per esempio nascondere un soldato o giovani della Resistenza, aiutare gruppi di persone ebree ‒ ma anche farle partecipare a forme di attacco: «[…] c’è stato un incontro molto molto importante tra masse considerevoli di donne dei ceti popolari e gruppi di giovani studentesse come potevo essere io. Che forme ha preso questo attacco delle donne? Ha preso, se volete, la forma più elementare che era la lotta per il pane, l’assalto ai forni dove si sapeva che si faceva borsa nera, l’assalto ai magazzini di farina che le truppe tenevano per sé».

Roma, lapide commemorativa in onore di Caterina Martinelli uccisa il 2 maggio 1944 durante un assalto al forno in zona Tiburtino III. Foto di Barbara Belotti

La Resistenza diventa parte della città: centinaia e centinaia di donne in tutta Roma sono pronte ad agire per prendere quanti più generi alimentari, farina e pane possibile per poi redistribuirli. Sono azioni di “guerriglia urbana” tutta al femminile alle quali, talvolta, si aggiungono alcuni ragazzi. Maria, senza che nessuno la informi, capisce che sono i giovani dei GAP armati di rivoltella per proteggerle.
Roma è di fatto una città assediata, in guerra continua contro fascisti e tedeschi, non è la città aperta che si vuole far credere. Vengono organizzate manifestazioni politiche contro le frequenti carcerazioni da parte del comando fascista e di quello nazista, come quella in viale Giulio Cesare del 3 marzo 1944 in cui trova la morte Teresa Gullace. Maria è a pochi passi da lei, insieme a una moltitudine di altre donne che urlano e premono per cercare di liberare i prigionieri, difese da una cintura di partigiani e partigiane dei GAP.

Teresa Gullace, 1943 circa

Per denunciare il clima di guerra armata in cui versa l’intera città, Maria decide di scrivere un appello da consegnare a papa Pio XII. È il marzo del 1944 e questo è il suo primo atto come dirigente politica in clandestinità. L’appello rivolto al pontefice, firmato poi da altre 3000 donne, chiede con forza che Roma sia considerata “città aperta”. Maria e le sue compagne non riescono a farsi ricevere in Vaticano e si devono accontentare di consegnare la petizione a casa di un nipote del papa. Ma non si fermano. In occasione dell’anniversario dell’elezione al soglio pontificio di papa Pio XII, è tra le promotrici della manifestazione in piazza San Pietro per rivendicare che Roma sia considerata realmente città aperta. Accorrono migliaia di persone, soprattutto donne molte delle quali accompagnate da figli e figlie. Distribuiscono volantini, danno vita a un corteo che si muove dalla piazza e si sposta verso il Tevere, gridano pace con tutta la forza che hanno: «[…] si vuole far intendere a tutti,» testimonia ancora Maria «anche agli Alleati che non arrivavano mai a Roma, che si attardavano a poche decine di chilometri dalla città, che Roma non era una città aperta, che Roma è una città assediata, governata dal terrore […]».
Durante il periodo della Resistenza spesso non torna a casa in via del Casaletto; quando lo fa, soprattutto negli ultimi mesi dell’occupazione nazifascista, avvisa con brevissime telefonate la famiglia. Sua madre, allora, esce nella notte per andarle incontro in un luogo convenuto e fare il tratto di strada insieme. Maria ha talvolta con sé del pane e, per la sorellina di due anni, delle confezioni di latte in polvere; spesso non dorme nella sua camera e nel suo letto, sceglie di stare nella stanza che funge da aula scolastica al piano terra della villa, come ricorda sua sorella minore Giosi, una sorta di «via predisposta alla fuga». In qualsiasi momento può scattare il pericolo: in un edificio accanto c’è un comando tedesco e più volte Maria o il padrone della villa, Alberto Filippini-Lera, danno ospitalità a giovani della Resistenza e a persone di religione ebraica.
Di quei mesi Maria ha spesso ricordato l’impegno, le azioni svolte ma anche la fame patita e le trasformazioni del suo corpo che sembra ribellarsi. In un’intervista ad Alessandro Portelli confessa di aver quasi timore a parlare di quel periodo per «paura di ricordare quanto ti abbrutiscono certe sofferenze fisiche, la fame è terribile, veramente terribile. […] perché senti che il tuo corpo ti pesa, che il corpo esige che tu mangi, ché tu non hai da mangiare e, diciamo così, per fortuna non lo trovi da mangiare, perché probabilmente saresti disposto a fare anche delle cose non giuste. […] A me durante l’occupazione tedesca ‒ ero una giovane donna ‒ è successo quello che è successo alle compagne dei campi di concentramento, cioè mi si sono bloccate le regole mestruali. […] è un forte scompenso ormonico, ad altre mie amiche tornate dai campi di concentramento so che è successo lo stesso […]. È una difesa direi stupenda del corpo femminile il quale, soggetto a questa cosa, non si predispone più alla maternità, all’eventuale maternità; e deriva proprio dalle carenze alimentari, non è che derivi da altro».
Fino alla liberazione di Roma Maria non smette il suo ruolo di staffetta partigiana e di dirigente politica in clandestinità, dopo prosegue il suo impegno nel PCI, nell’UDI ‒ che contribuisce a far nascere ‒ sempre con uno sguardo particolare al mondo femminile.

Maria Michetti (a sinistra) al Congresso di fondazione dell’UDI, novembre 1944, foto dell’agenzia di stampa US Army.
Archivio privato di Marco Marroni

Quando le chiedono, in tempo di pace, cosa ha appreso e ha portato con sé del periodo della Resistenza, Maria risponde così: «Che cosa mi ha insegnato questo periodo? E, in particolare, cosa mi ha insegnato il modo in cui tante donne, che ho conosciuto, hanno partecipato a queste azioni? […] Mi pare che quando le donne partecipano ad attività politiche in situazioni così difficili emergano in loro due elementi. Primo. La lotta che si deve fare è per la vita. Il problema non è tanto offendere l’altro, quanto di resistere a vivere. […] Non la volontà di essere eroine per gli altri ma per difendere la vita. La prima affermazione della propria libertà è nel fatto di vivere, considerare la vita un valore, non la morte. […] resistere per vivere. […] Seconda questione. Se si lotta per vivere, allora il problema è di capire che questa difesa deve avvenire attraverso forme elementari di società. […] Molto spesso la grande istituzione non ci aiuta a vivere. Quello che ci aiuta a vivere è il piccolo gruppo, la famiglia, il gruppo di amici. […] Questo mi hanno insegnato le donne: nel momento in cui non c’era più lo Stato, non c’erano eserciti e anche la Chiesa non poteva fare molto, la vera Resistenza è avvenuta dentro le case, nei piccoli gruppi, in famiglia, gruppi di amici, persone […] in cui la solidarietà diventava elementare e la vita di uno era la vita di tutti».

Maria Michetti (al centro) durante il II Congresso dell’UDI, 1947. Archivio privato Marco Marroni

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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.

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