Il primo incontro di Genere e diversità all’origine di violenze e discriminazionie, il nuovo corso della Società italiana delle storiche, si intitola Discriminazioni e violenze di genere nella storia: introduzione al tema e viene presentato da Simona Feci e Nadia Filippini. Prima di iniziare, la Sis ribadisce il suo impegno a porre l’attenzione sui soggetti che fanno storia e alle donne e alle relazioni di genere come oggetto della ricerca, promuovendo la divulgazione del patrimonio scientifico e culturale per ridurre il divario esistente tra il mondo accademico e il pubblico generalista, passando attraverso la formazione degli/delle insegnanti e invitando le istituzioni ad approvare linee guida più inclusive e che sappiano intrecciare parità e differenza. Il corso, che è gratuito, fa parte del progetto La storia siamo noi ed è finanziato dai fondi “Otto per mille 2022 della Chiesa Valdese”.
La prima relatrice è Simona Feci, professoressa di Storia del diritto medievale e moderno presso l’Università di Palermo, che si occupa di storia della condizione giuridica delle donne con particolare riguardo ai diritti di proprietà, di violenza di genere, alla criminalità e alla giustizia. Feci inizia parlando di ‘uguaglianza’, una parola che viene spesso messa in opposizione a ‘disuguaglianza’ e affiancata a ‘similitudine’. Il perché di questa concezione è presto detto: gli individui più che uguali tra di loro sono simili, sempre e comunque contraddistinti da delle differenze e delle alterità che impediscono una reale uguaglianza; questa è garantita dal diritto. Il giurista Paolo Cedon afferma l’esistenza di soggetti non deboli in quanto tali ma indeboliti da fattori esterni, tra i quali c’è anche la legge, che può essere usata – e spesso lo è stata – come arma di oppressione: si veda la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 che afferma: «Gli uomini nascono liberi e uguali nei diritti» eppure esclude completamente le donne dalla vita pubblica. Come si arriva a una situazione così paradossale per cui a metà di una popolazione vengono negati i diritti? Per trovare la risposta dobbiamo tornare ai tempi degli antichi romani. La funzione dello ius, il diritto romano, era quella di garantire l’eguaglianza nelle relazioni tra privati cittadini, come nel caso di una compravendita, e non tra di loro intendendoli come soggetti aventi pari diritti. Per la cultura romana l’uguaglianza risiedeva nello status: forme astratte della singolarità che, per esempio, trasformano il comune e ordinario acquirente in un compratore; ciò va a creare un diritto eguale ma non soggettivo, che tutela nel corso della trattativa. È completamente assente l’idea di individui aventi diritti. Si andò così a creare una interpretazione della realtà che aveva lo scopo di disciplinare il pubblico e trasformare atti come la compravendita, i matrimoni e altre relazioni tra privati in schemi formali di atti e comportamenti. Con l’avvento del Cristianesimo si aggiunsero nuove fonti a questo pensiero: grazie ai racconti della Creazione e all’interpretazione della Genesi l’individuo si scopre a immagine e somiglianza di Dio, e per questo eguale a tutte e a tutti seppur nella differenza, condividendo lo status di creatura. Tuttavia, la teologia cristiana iniziò quasi da subito a far emergere le prime contraddizioni: nelle lettere ai Galati 3:28 Paolo affermava: «Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». In Efesini 5:22 però scriveva: «Le mogli siano sottomesse ai loro mariti come al Signore, perché il marito è capo della moglie come anche il Cristo è capo della congregazione, essendo egli il salvatore di questo corpo» e ancora in Timotei 2:11-15: «La donna impari in silenzio con piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di esercitare autorità sull’uomo, ma stia in silenzio. Poiché Adamo fu formato per primo, poi Eva. E Adamo non fu ingannato, ma la donna fu completamente ingannata e si trovò in trasgressione». Se da un lato Paolo superò le differenze di genere in quanto tutte e tutti noi ci ritroviamo creature in Cristo, dall’altro la condizione minoritaria della donna venne fatta passare come causata dalle colpe insite nel peccato originale. Questa contraddizione ha influenzato anche il diritto medievale: il giurista Azzone di Bologna affermava che dopo quella tra liberi e schiavi la più grande differenza di status era quella tra uomo, donna ed ermafroditi. Il diritto civile e quello canonico individuarono dei limiti alla capacità delle donne per giustificarne la subalternità che si sono protratti nei secoli. Una condizione negativa che le affliggeva nella famiglia, nel pubblico, nella religione e nel campo della legge: non potevano testimoniare, sporgere denuncia da sole, furono escluse dai pubblici uffici, non potevano agire o negoziare a titolo privato. Il canonista Guglielmo Durante individuò 37 ambiti in cui la condizione femminile era oggettivamente peggiore di quella maschile. C’erano certo delle eccezioni, come nel caso della possibilità che una donna testimoniasse in processi per reati gravi come il regicidio o per una consulenza in campi in cui erano esperte, come nel caso delle ostetriche. Nel corso dei secoli si è sempre tenuto conto della vita reale e ordinaria delle cittadine medievali; tuttavia, la subalternità femminile non fu mai messa in discussione o contestata.

La costruzione di un’idea di eguaglianza va di pari passo con la definizione delle differenze che delineano ruoli in cui si è inclusi o esclusi a seconda delle proprie caratteristiche. Le donne sono metà della popolazione; eppure, il loro posto all’interno della società rimase per molto tempo fisso e immutabile in virtù del sesso con cui erano nate. Una condizione che a partire dal XVII secolo iniziò a essere colta dalle intellettuali: Mary Astell (1666-1731) fu una delle più preminenti pensatrici del suo tempo, famosa soprattutto per la sua critica al matrimonio in Some Reflections upon Marriage dove si scagliava contro l’autorità del marito sulla moglie e sullo status servile della donna nel nucleo familiare. Astell argomentava che le gerarchie sessuali non facessero parte dell’ordine divino o avessero una qualche base nella natura, ma che fossero state imposte e perpetrate da una specifica educazione impartita alle donne per mantenerle ignoranti e succubi.
In tempi recenti la studiosa Karen Green ha dimostrato come il linguaggio e gli argomenti usati per promuovere i diritti dell’uomo fossero ispirati da opere come quelle di Astell, invocanti l’autodeterminazione delle donne a livello morale e l’eguaglianza tra i sessi due secoli prima dell’avvento del femminismo. La tesi di Green espressa in The Rights of Woman and the Equal Rights of Men è che i discorsi attorno alla eguale capacità delle donne di autodeterminarsi e alla loro soggezione nel matrimonio abbiano influenzato l’evoluzione politica che porterà alla Rivoluzione francese, come si evince dai discorsi sull’incompatibilità tra equi diritti per tutti in virtù dell’essere uomini – le donne non sono contemplate – e la soggezione politica sotto un re al potere per diritto divino di quel periodo. In Sono normale? Sarah Chaney affronta poi la questione della ‘normalità’, un termine entrato in voga nel XIX secolo e che avrà un’enorme influenza nei dibattiti attorno al tema dell’uguaglianza, nonché nel giustificare molti dei soprusi che avverranno nel secolo successivo e che avvengono tutt’oggi.
Il secondo intervento è di Nadia Filippini, che ha insegnato Storia delle donne alla Ca’ Foscari, e si concentra sul mettere a fuoco il concetto di differenza e su come esso abbia influito sulle disimmetrie di genere a partire dal secondo Settecento. Con l’Illuminismo si delinea una nuova definizione dei rapporti tra individuo e Stato grazie all’introduzione del concetto di contratto sociale – che condurrà poi alla Rivoluzione francese. Ciò portò anche ad una ridefinizione dei rapporti di genere e dei generi stessi – nonché delle dinamiche etniche/razziali – dove un ruolo importante fu giocato dalla medicina e dalla scienza. A oggi grazie alla prospettiva intersezionale sappiamo bene che nella gerarchia sociale una donna bianca appartiene a una classe subalterna in virtù del suo sesso e a una dominante in virtù della sua etnia, mentre è vero il contrario per un uomo appartenente a minoranze etniche come quella afroamericana. Ciò è dovuto a un processo di naturalizzazione dello schema corporeo attuato dal mondo medico a partire dal XVII secolo e di cui risentiamo ancora oggi. Fino ad allora la differenza sessuale tra uomo e donna non era intesa come differenza tra organi riproduttivi primari e secondari: il corpo femminile era studiato a partire dal presupposto che fosse una copia imperfetta di quello maschile, secondo le teorie di antichi come Aristotele e Galeno – le ovaie erano infatti chiamate ‘testicoli interni’ o ‘femminili’. Si tendeva a enfatizzare la differenza dal corpo dell’uomo, considerato il prototipo ideale, e da qui elencare tutta una serie di ragioni per cui le donne dovevano rimanere in una posizione subalterna. Grazie al microscopio e alla rivoluzione scientifica, però, avvennero importanti cambiamenti: le ovaie non erano più ‘testicoli femminili’ ma un organo a sé stante, mentre la scoperta di ovuli e spermatozoi costrinse a una totale riformulazione delle teorie sulla generazione e del ruolo che la donna aveva nel processo riproduttivo – fino a quel momento si credeva che essa fosse mero recipiente del seme maschile, considerato l’agente che permetteva la formazione del feto; ciò portò a considerare l’uomo parte attiva del processo mentre la donna si ‘limitava’ a ‘cuocere’ quanto le era stato ‘fornito’. La rivoluzione della medicina nell’ambito della definizione dei generi non è immediata, ma è fondamentale chiave di lettura della ricerca scientifica ottocentesca e novecentesca, e ha ancora oggi una fortissima influenza specie nella cultura popolare. Essa diede fondamento al determinismo biologico e alla naturalizzazione dei ruoli sessuali e delle gerarchie etnico-razziali. Il corpo della donna non era più un semplice ‘forno’, ma era stato costruito dalla Natura stessa in quel modo per adempiere alla riproduzione: pertanto, una donna che volesse ricoprire altri ruoli sociali oltre a quello di moglie e madre era da considerare contronatura. Le implicazioni del pensare che fosse la Natura a ‘determinare’ i ruoli sociali sono intuibili: venne creato un intero impianto teorico che sulla base delle nuove ‘scoperte’ giustificasse l’esclusione femminile dalla cittadinanza, risolvendo il paradosso del dichiarare che i diritti sono per tutti, tranne che per metà della popolazione in virtù del proprio sesso. La donna che si lamentava di questa condizione aveva torto perché era stata la Natura, e non il costume sociale, a renderla adatta solo al ruolo di madre.

Quando scoppiò la Rivoluzione francese e le donne rivendicarono il loro ruolo la risposta alle loro richieste fu negativa, perché avrebbe significato andare contro Natura permettere che si immischiassero negli affari pubblici – non è un caso che donne come Olympe de Gouges vennero messe a morte con l’accusa di voler ‘essere uomo di Stato’, punite per aver dimenticato le virtù che convengono al proprio sesso. La donna ‘contronatura’ andava quindi severamente punita, anche con la morte se necessario; più spesso, però, le fu affibbiata l’etichetta di ‘pazza’ che andava ‘curata’ rinchiudendola nei manicomi o con procedure ‘mediche’ come isterectomia e lobotomia. Tutto questo ebbe, ovviamente, conseguenze anche a livello giuridico: i codici vennero infatti riscritti per assicurarsi che le donne non si allontanassero dal loro ruolo ‘naturale’, anche se ciò portava a sensibili peggioramenti della loro condizione. Fu resa legge la subordinazione della moglie al marito, l’impossibilità che essa stesse in giudizio senza l’autorizzazione del coniuge, il divieto di voto, si rese impossibile la responsabilizzazione dei padri quando una donna rimaneva incinta al di fuori del matrimonio, legalizzati il matrimonio riparatore e il delitto d’onore. Ci vorranno decenni prima che tutte queste leggi vengano abolite, togliendo le colonne portanti alle disimmetrie di genere in campo giuridico, ma la strada è ancora tanto lunga. Come i fatti di questa ultima estate ci hanno mostrato, se lo stupro non è più reato contro la morale ma contro la persona dal 1996, per molti e molte esso rimane un crimine in cui la prima colpevole è la vittima, evidenziando con quanta lentezza la mentalità cambi.
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
