Piazza del Risorgimento n°14. Qui ha vissuto Maria Michetti

Lo ammetto, sintetizzare in un solo articolo la figura di Maria Michetti è stato impossibile. Troppo vasta la sua esperienza, troppo complesse le vicende della sua vita, troppo profondo il suo impegno politico sempre nutrito, come è stato efficacemente notato, di una forte tensione tra eresia e senso di appartenenza. L’impegno costante ha assunto nel corso della vita forme diverse, lasciando però intatti il valore della responsabilità e della condivisione, la passione, il profondo legame di appartenenza col suo partito ‒ il Pci, inteso come comunità di persone e di ideali e non come apparato di potere ‒ e col mondo femminile. Il tutto arricchito da una spiccata attenzione e un forte rispetto verso ogni forma di intelligenza critica ed espressione di dissenso.

Piazza Risorgimento n°14. Foto di Marco Marroni

Quindi ecco un’altra immaginaria targa commemorativa, da collocare questa volta all’ingresso del numero 14 di piazza del Risorgimento, là dove Maria ha abitato con la sua famiglia ‒ il marito Marcello Marroni, il figlio Marco ‒, la casa della maturità, quella dei dolori profondi e incancellabili ma anche dei riscatti e delle nuove prospettive ritrovate.
Quando Roma viene liberata nel giugno del ’44 Maria ha ventidue anni, l’università da terminare e la propria esistenza da progettare. Dietro di lei macerie, dolore e morte, davanti un mondo da ricostruire. Maria non si tira indietro neanche questa volta, mette di nuovo da parte gli studi universitari e riparte da dove aveva lasciato, dalla politica e dalle donne.  

Deve essere ricostruito il Pci, questa volta nella legalità. Maria comincia a lavorare nella Federazione romana del partito, a impegnarsi in ruoli significativi e anche a viaggiare in giro per il mondo. Nell’autunno del 1945 parte per la Jugoslavia e partecipa a una riunione della gioventù comunista, l’anno successivo si reca con la delegazione ufficiale del Pci in Unione Sovietica, primo di numerosi altri viaggi in Urss.

A dimostrazione del crescente peso nella struttura del partito ‒ Maria a Botteghe Oscure lavora nella Commissione femminile diretta da Nilde Jotti, fa parte della Commissione centrale di controllo, ha svolto incarichi istituzionali e altri si profilano all’orizzonte ‒ nel 1959 è l’unica donna presente nella prima delegazione ufficiale del Pci che si reca nella Repubblica di Cina per incontrare i membri del Comitato centrale del Pci. Nelle relazioni scritte da Maria durante quelle settimane, tra le altre cose, affiora una sorta di disagio personale che, con un moto di critica severa verso se stessa, attribuisce al proprio carattere: «La difficoltà vera non è con gli altri compagni, ma è con me stessa […]. Taciturna, chiusa, sto facendo di tutto per adattarmi meglio, per sentirmi più a mio agio […]. Eppure non voglio essere un elemento folkloristico o sovrastrutturale della delegazione. Bisognerà che da domani mi sforzi di più». Lavorare per le donne e con le donne è un’altra cosa.

Maria Michetti (a destra) insieme alla delegazione del Pci con Mao Zedong al centro, Pechino 1959

Impegno e politica per Maria Michetti significano occuparsi delle cose di fondo senza avvitarsi in questioni ideologiche astratte, restare alla concretezza delle condizioni di vita delle persone che, come ha detto Alessandro Portelli in un’intervista, restano per lei alla base dei rapporti di classe. Nel periodo della Resistenza il lavoro capillare tra le donne dei quartieri popolari di Roma, l’attenzione ai loro bisogni concreti e primari, la vicinanza e la solidarietà erano state modi per conquistare spazi di iniziativa politica capaci di giungere a iniziative importanti; questi stessi fondamenti, nel dopoguerra, diventano il punto di partenza per un nuovo impegno e nuove azioni.  
Ripartire dai diritti e dai bisogni delle donne è cosa naturale e obbligata per Maria Michetti, una delle madri fondatrici dell’Udi. Il diritto di voto in primo luogo, un’esigenza che diventa un punto centrale nel dopoguerra. Riandando a quella battaglia anni dopo, con lo sguardo critico che la contraddistingue, Maria non nega il peso dell’insoddisfazione per aver perduto un’occasione: «Da ciascuno degli schieramenti politici concorrenti le donne furono viste come una preziosa “riserva di caccia”, perché i guadagni conseguiti nell’elettorato femminile si traducevano in spostamenti significativi dei rapporti di forza. […] Non ci volle molto che avvertissimo che, attraverso la chiamata all’obbligo di voto, si era data legittimità a pesanti forme di autoritarismo, di patriarcalismo, di costrizione. Sentimmo mortificato il nostro ruolo e quello delle altre donne. Non eravamo più, come avremmo desiderato, messaggere tra le nostre sorelle per incoraggiarle alla politica; in quella atmosfera, invece, avemmo netta la percezione di scendere in campo forzando i tempi di una loro autonoma presa di coscienza perché quello che più ci urgeva era conquistare parte del loro voto. […] Noi donne scontammo da sole la divisione drammatica e l’esserci trovate schierate in due fronti contrapposti. Il nostro comune essere donne non aveva costruito comunicazione tra noi».

Maria Michetti al II Congresso dell’Udi, 5 luglio 1947

Comprende che in quell’occasione, come in ogni altra lotta per i diritti, le donne devono essere protagoniste e unite tra loro perché gli uomini, salvo rare eccezioni, non raccolgono le stesse sfide, né combattono le stesse battaglie.  
1945: Maria, insieme ad altre compagne dell’Udi, su indicazione di Laura Lombardo Radice, si reca nella provincia di Frosinone dove durante la Seconda guerra mondiale sono stati compiuti decine di migliaia di atti di violenza, scempio e orrore, soprattutto sul corpo delle donne. Quello che Maria trova, entrando nelle case e vincendo le ritrosie e l’ostilità delle famiglie, è un’umanità femminile dolente, che vive nascosta, marchiata dalle violenze fisiche ma anche dai giudizi di chi le considera donne “perdute” e “contaminate”; una comunità di donne di ogni età soffocate dalla vergogna, sopraffatte dalle sevizie di allora e piagate ora dalle malattie veneree contratte; parla con loro ma soprattutto ascolta, anche i silenzi, che devono essere frequenti ma che lei comprende perché è una donna. Per loro Maria, insieme all’Udi, si impegna perché tutte possano ricevere gli aiuti e le cure mediche ginecologiche necessarie negli ambulatori e nei presidi ospedalieri della Ciociaria, evitando così spostamenti difficili, faticosi e onerosi. Con l’Udi dà il via alla battaglia ‒ perché di vera battaglia si tratta, visto che il governo nasconde i fatti, li ridimensiona e intende considerare ciò che è accaduto alle donne di Ciociaria uno dei tanti “effetti collaterali” della guerra ‒ affinché le donne possano ricevere dallo Stato la pensione di vittime civili. Nel 1951 a Pontecorvo viene organizzato un convegno per dare voce a quei silenzi di sofferenza. Arrivano 500 donne in rappresentanza delle decine di migliaia di vittime stimate che hanno presentato la domanda di pensione. Ricorda Maria Maddalena Rossi, Madre costituente e in quegli anni Presidente dell’Udi, che queste donne, pur di essere presenti, affrontano fatiche notevoli: «Molte avevano camminato per ore e ore a piedi per arrivare in tempo a Pontecorvo, e non avevano certo mai partecipato in vita loro a una riunione né tanto meno parlato da una tribuna. Né, credo, queste contadine, queste montanare, che ricordano ancora coi loro costumi le ciociare di un tempo, così ritrose e fiere, avrebbero mai voluto parlare addirittura in un convegno di fronte a tutti della loro mostruosa disgrazia. Invece sono state costrette a fare così. E con quale serietà esse hanno esposto i loro casi dolorosi!». Una battaglia lunga anni, con le donne che devono dimostrare la propria buona condotta morale per ottenere il risarcimento per il quale, nel caso siano già sposate, è previsto perfino un decurtamento dell’importo! Per molti anni la militanza di Maria Michetti è strettamente intrecciata tra Pci e Udi. [9. Maria Michetti, Assessora ai Servizi sociali della Provincia di Roma, insieme ad altri colleghi assessori, 1952, Archivio privato Marco Marroni] I temi politici di cui avverte l’urgenza sono al centro delle sue attività nelle istituzioni pubbliche, dal 1952 al 1956 come Assessora ai Servizi sociali nella Provincia di Roma, e dal 1956 al 1971 nel Consiglio comunale capitolino. Sono tematiche importanti per tutta la popolazione ma soprattutto per le donne, sulle quali ricadono sia gli impegni lavorativi che gli obblighi di organizzazione e cura della famiglia: il diritto alla casa, il sostegno alle categorie sociali più deboli che abitano in baracche fatiscenti nelle aree periferiche della capitale, il risanamento delle borgate prive di strade, di rete idrica e fognaria, di pubblica illuminazione, dei più banali servizi igienici; il diritto al lavoro per le donne e contemporaneamente il diritto ad avere maggiori servizi sociali in grado di aiutarle nell’opera di conciliazione dei tempi di lavoro e di cura. Maria si batte in favore di un’adeguata organizzazione scolastica pubblica e laica già dai primi anni d’età, con asili nido efficienti e diffusi, scuole elementari e medie senza doppi e tripli turni. Tutti temi ancora oggi attuali e non risolti. 
Durante gli anni Sessanta nel gruppo Pci in Campidoglio, dove Maria gioca ruoli di primo piano, è forte anche la volontà di salvaguardare il verde pubblico. Ci si oppone al cosiddetto “sacco di Roma” e al Piano Regolatore voluto dalla Democrazia cristiana, che apre agli interessi speculativi delle grandi imprese edili e di enti e ordini religiosi. Se noi oggi passeggiamo a Villa Torlonia, a Villa Chigi, a villa Doria-Pamphili ‒ nonostante lo “sventramento della via Olimpica ‒ in parte dell’Appia Antica e della valle dell’Aniene, se una parte della macchia mediterranea costiera è salva lo dobbiamo al suo impegno e a quello delle persone che siedono al suo fianco sugli scranni del Consiglio comunale.

Maria Michetti accanto ad Anna Magnani in occasione del ventesimo anniversario della Liberazione e della realizzazione del film Roma città aperta di Roberto Rossellini, 1965, Archivio privato Marco Marroni

La doppia militanza Pci-Udi prosegue fino alla fine degli anni Sessanta quando il profondo legame con il Partito comunista si incrina. La crisi, già latente, si aggrava nel 1969 quando Maria Michetti si astiene nella votazione di ratifica della decisione del Comitato Centrale di radiare il cosiddetto gruppo del Manifesto. Per lei, come scrive in una successiva lettera a Enrico Berlinguer, «[…] non può essere valutata attività frazionistica l’esprimere chiaramente le proprie opinioni sulla politica del partito […]. A me sembra che, quando il dissenso viene espresso senza reticenze non si abbiano ragioni fondate e sufficienti per un’accusa di frazionismo; più fondata mi pare una ipotesi di frazionismo, quando un’unità formale ‒ dietro cui resti dissimulato il dissenso ‒ possa essere utilizzata per mascherare anche azioni di gruppo». Maria, che il sociologo Franco Ferrarotti ha definito «una minoritaria nata», subisce un crescente isolamento nel partito. L’emarginazione è resa ancora più dolorosa dal silenzio con cui sono accolte le sue richieste scritte di un confronto diretto e franco con i vertici politici. Su di lei grava come un macigno l’idea che ci sia «uguaglianza tra il permanere del dissenso e l’azione anti-partito». Il pesante clima di emarginazione politica prosegue per mesi e il 26 ottobre 1970 Maria, nel corso di una riunione del Comitato federale del partito romano, legge una lunga dichiarazione che ha il sapore amaro dello strappo finale e che si conclude con un’affermazione che non ammette repliche: «[…] Il compagno che dissente su specifici problemi e in determinate situazioni, ma mantiene la tensione morale e non risparmia se stesso nel lavoro e nell’impegno, non deve essere considerato un colpevole […] è un militante come tutti gli altri al quale si chiede però uno sforzo maggiore, perché in lui è presente un dubbio sulla giustezza delle scelte operate». All’inizio del 1971 Maria Michetti cessa ogni rapporto lavorativo con Botteghe Oscure, si dimette dagli incarichi ma non lascia il partito. Ci sono le elezioni amministrative in quell’anno e Maria, pur candidata nelle fila del Pci ma senza ricevere l’adeguato sostegno delle posizioni bloccate in lista, partecipa alle elezioni per il Campidoglio. Sfiora a sorpresa la rielezione: quei numerosi voti ottenuti sono tutti “suoi”, frutto dell’impegno pluridecennale nel territorio cittadino, segno inequivocabile della fiducia conquistata lavorando in mezzo alla gente.

Antonietta Raphael Mafai, Ritratto di Maria Michetti, 1954, Archivio privato Marco Marroni

Ricostruire un percorso di vita ora non è cosa semplice, ma Maria Michetti riparte da dove si era fermata molti anni prima, dall’università sospesa nel primo dopoguerra. Si laurea in Lettere nel 1974 e comincia a collaborare con la cattedra di Franco Ferrarotti nella Facoltà di Sociologia. Protesa sempre verso il mondo delle borgate e le parti più fragili della popolazione, ora volge lo sguardo verso un fenomeno nuovo, quello delle prime forme di immigrazione straniera. Grazie a lei le ricerche sociologiche si aprono al confronto diretto con le periferie e, sempre grazie a lei, la diffidenza delle persone delle borgate nei confronti del mondo accademico si scioglie: i recinti si aprono, gli steccati si smontano. Nel corso dell’XI Congresso del 1982, le donne dell’Udi decidono di voltare pagina e procedere in autonomia rispetto al Pci, individuando nel separatismo l’unico modo per dare un nuovo percorso al movimento: «L’autonomia che manca ‒ scrivono Michetti, Margherita Repetto e Luciana Viviani ‒ è nei contenuti e nella collocazione dell’Udi che in parecchie situazioni non era altro che una sigla che serviva a femminilizzare direttive e iniziative delle formazioni politiche della sinistra, in particolare del partito comunista». Maria, tra le prime a interpretare la sigla Udi come l’unione di tutte le donne in Italia, straniere e migranti comprese, aderisce con entusiasmo a questa nuova fase che la occupa ininterrottamente per circa due decenni. Come afferma nel 1990, l’Udi è stata «un luogo scelto, nel quale si è venuta maturando la mia presa di coscienza e il mio impegno nel movimento delle donne e nel femminismo». [12. Maria Michetti alla presentazione dell’Archivio nazionale dell’Udi, Ravenna 1994, Archivio privato Marco Marroni] 
Nasce l’esigenza di dare ordine e struttura all’immenso patrimonio storico-culturale dell’Udi creando un grande archivio di tutti i documenti, capace di contenere la storia e preservare la memoria delle donne in Italia. Un lavoro immenso e intenso, durato più di un decennio, che Maria conduce con passione insieme a Marisa Ombra e a Luciana Viviani. Come ha ricordato suo figlio Marco nel corso di una cerimonia di commemorazione di Maria Michetti, morta a Roma l’8 settembre 2007, «l’attività nel movimento femminile e femminista, nell’Udi e non solo, ha rappresentato per mia madre l’unico, autentico fil rouge della sua vita, paradossalmente più della sua vita nel partito […]».

Maria Michetti al Festival dell’Unità, 1998

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Articolo di Barbara Belotti

Dopo aver insegnato per oltre trent’anni Storia dell’arte nella scuola superiore, si occupa ora di storia, cultura e didattica di genere e scrive sui temi della toponomastica femminile per diverse testate e pubblicazioni. Fa parte del Comitato scientifico della Rete per la parità e della Commissione Consultiva Toponomastica del Comune di Roma.

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