Catherine Coquery-Vidrovitch, storica e africanista francese di fama internazionale, nel suo saggio Afrique noire del 1985 prefigurava il rischio della «periferizzazione» del continente da parte della globalizzazione dei mercati. Effettivamente oggi i potentati stranieri contribuiscono a protrarre la debolezza economica dell’Africa con le loro strategie neocolonialiste, mentre i mercati percepiscono i Paesi africani, molto diversi tra loro, alla stregua di una terra di conquista, come ha ricordato anche Papa Francesco nella sua visita a Kinshasa. Per non parlare del grave problema del debito. Per il futuro dell’Africa, con vantaggi anche per l’Unione Europea, è estremamente interessante la proposta formulata nel 2021 dalla rete Link 2007, denominata Release G20, che associa alcune tra le più importanti organizzazioni della società civile dedite alla cooperazione internazionale per lo sviluppo e all’azione umanitaria. Ne scrive dettagliatamente Giulio Albanese.

Un articolo che merita di essere letto con attenzione, anche per conoscere meglio la situazione tunisina a cui siamo interessati come Nazione in seguito agli accordi della Premier Meloni con il Presidente Saïed sulla questione migratoria, accordi rivelatisi fallimentari rispetto agli obiettivi del Governo italiano, è quello di Ester Sigillò, La Tunisia di Saïed guarda ai Brics, in cui si riportano le seguenti dichiarazioni del Presidente succeduto a Ben Alì: [la Tunisia] «non è la guardia di frontiera dell’Europa e non accetta di diventare un paese rifugio». Dichiarazione che rivela, secondo l’autrice, il timore che la Tunisia diventi bacino di «sostituzione etnica» a vantaggio dei migranti subsahariani, dipinti come una minaccia all’identità arabo-islamica del paese. Riferendosi all’arrivo di «orde di immigrati clandestini», continua Sigillò, Saïed ha sostenuto che questa immigrazione fa parte di un’«impresa criminale» volta a modificare la composizione demografica della Tunisia per offuscarne il carattere arabo-musulmano.

Della seconda parte, Occidenti sbandano, Russia gode, Turchia profitta, l’articolo che vorrei segnalare è quello di Orietta Moscatelli, Il senso di Putin per l’Africa, che ha anche un’interessante appendice: Ritorno sui banchi a Mosca nel nome di Lumumba, che è utile leggere, soprattutto a scuola, sia per approfondire insieme alle classi la storia dell’assassinio di Lumumba, sia per approfondire la penetrazione culturale africana nelle diverse fasi della storia del Novecento e attuale da parte della Russia. «Per un’ampia parte dell’Africa che non ha mai smesso di accumulare risentimento verso le ex potenze coloniali — scrive Moscatelli—. Mosca è una sponda naturale, se non un faro. La Russia in totale rottura con l’ordine americano è l’anti-Occidente, concetto incerto eppure magico nel cosiddetto Sud Globale. Le invettive del Cremlino catalizzano l’attenzione di un gruppo di paesi disomogeneo ma unito nel sospetto per qualsiasi cosa faccia il club dei ricchi timorosi di perdere potere, ora in particolare la Francia». Un fattore cruciale è il collegamento ideale al passato sovietico, quando Mosca era il principale sponsor della decolonizzazione tramite aiuti economici e militari ai movimenti d’indipendenza o a governi in difficoltà. Dopo un excursus sulla presenza sovietica nelle varie parti dell’Africa, Moscatelli ricorda che Putin iniziò a guardare all’Africa già dai primi anni al Cremlino partendo da dove l’Urss era stata più forte. Nel marzo 2006 annullò all’Algeria 4,7 miliardi di debiti di epoca sovietica. Due miliardi furono convertiti in forniture di armi e da allora Algeri è tra i primi importatori di attrezzature belliche russe, mentre Gazprom conclude accordi con la major Sonatrach, ampliati l’anno scorso con nuovi progetti.

Fu poi la volta del Sudafrica, in cui Putin si recò con un a delegazione di uomini d’affari interessati all’estrazione di diamanti e metalli. Moscatelli enumera molte relazioni proficue di Putin con altri Paesi africani. L’attività si intensifica dopo l’annessione della Crimea nel 2014 e diventa sistematica con l’intervento in Siria, Dal 2016-17 gli uomini della Wagner prestano servizio in Libia, Repubblica Centrafricana, Mali, Sudan e limitatamente in Mozambico e secondo fonti russe sono presenti in scala minore anche in Burkina Faso. Un altro importante aspetto è la cooperazione in sede Onu: «la Federazione Russa appoggia o blocca risoluzioni di rilievo per gli alleati africani, i quali bocciano o si astengono nelle votazioni più delicate per Mosca. Così per le due risoluzioni Onu di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina, approvate nel 2022 e nel 2023 da ampie maggioranze, ma con una raffica di paesi africani tra i contrari (sette) e gli astenuti (oltre trenta)». Alcuni accenni e critiche al cosiddetto Piano Mattei suggerito da Draghi e fatto proprio da Meloni sono contenuto nell’articolo di Maronta, mentre Giorgio Cuscito analizza le conseguenze del golpe in Niger per la Cina, che ha comunque avuto un approccio all’Africa centrato sugli investimenti e la costruzione di infrastrutture, con grande lungimiranza. Un’altra figura femminile, quella della Rappresentante Speciale dell’Ue per il Sahel, Emanuela C. Del Re, nella sua conversazione con De Ruvo e Caracciolo, dice cose molto importanti nell’intervista Non abbiamo capito che l’Africa è cambiata: «L’Africa di oggi non è l’Africa di trent’anni fa. Le nuove generazioni africane sono molto avvertite, preparate e consapevoli, ma purtroppo continuano a restare escluse dal dibattito globale perché non hanno strumenti adeguati, che invece bisogna garantire loro. Scalpitano. Nelle aree urbane è soprattutto la nascente classe media a chiedere un’accelerazione della storia. Dovendoci occupare delle emergenze legate al terrorismo, alle migrazioni irregolari e alla crisi economica, abbiamo trascurato questa dimensione, che però è fondamentale. Dobbiamo radicalmente cambiare il nostro modo di entrare in relazione con l’Africa. Dobbiamo sviluppare un linguaggio euro-africano o africano-europeo…» E soprattutto dobbiamo prendere atto che i 54 Stati africani hanno una loro storia, una loro lingua, delle loro tradizioni, che non sono quelle che hanno loro imposto i colonizzatori europei e che adesso gli africani dei diversi Stati legittimamente rivendicano.

La terza parte è un vero e proprio Dossier su L’Algeria, nostro vincolo interno. Che l’Algeria sia di fatto diventata uno “Stato caserma”, in mano alle Forze armate, ce lo ricordano Kader A. Abderrahim, Tarik Mira, Già deputato del parlamento algerino per il partito Raggruppamento per la cultura e la democrazia (Rdc) e Marcella Mazio, tirocinante di Limes, che ci racconta la storia di questo Paese del Maghreb. Estremamente interessante l’approfondimento di Mouloud Hamai, Ambasciatore d’Algeria in pensione. Dottore di ricerca all’Università Paris 2, che descrive gli ottimi rapporti tra Italia e Algeria, che ai tempi di Mattei appoggiò non solo con le armi la resistenza algerina contro la Francia. Questo articolo è estremamente utile a capire i legami che ci legano a questo Paese e sarebbe efficace anche in una lezione di Geopolitica nelle ore di Economia Aziendale e Geopolitica o di relazioni internazionali.
Riprendiamo l’editoriale del Direttore di Limes nella parte in cui ci rammenta qualcosa che difficilmente troveremo nei Manuali delle nostre scuole quando trattiamo della nascita delle Comunità europee. Negli ideali europeisti dell’Europa dei fondatori, Italia, Francia, Germania Federale e Benelux, era ben presente l’idea di Eurafrica, «Il più protetto fra i segreti dell’europeismo». La cartina che segue è ufficiale e chi avrà la curiosità di leggere questa storia probabilmente si stupirà. Secondo il rivoluzionario saggio Eurafrica: alle origini coloniali dell’Unione Europea dei politologi svedesi Peo Hansen e Stefan Jonsson «l’Unione Europea non sarebbe mai nata se non fosse stata concepita come un progetto per europeizzare il colonialismo». Tralasciando i passaggi storici, peraltro ben evidenziati dal direttore di Limes, basterà qui ricordare che «i protagonisti dei negoziati che porteranno ai trattati di Roma (25 marzo 1957), da Adenauer a Schuman, da Spaak a Monnet, un po’ meno De Gasperi, sono paneuropeisti convinti[…] Perciò eurafricanisti. Ciascuno con i suoi retropensieri, le sue ambizioni di potenza. La posteriore censura europeista investe nientemeno che Schuman. Il quale nella celebre Dichiarazione del 9 maggio 1950, ispirata da Monnet, stabilisce: «L’Europa potrà, con mezzi accresciuti, perseguire la realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano». Passaggio ritoccato od omesso in alcune edizioni ufficiali del documento, tanto che lo storico Étienne Deschamps denuncia «il silenzio assordante» dei colleghi su «Schuman, dimenticato apostolo dell’Eurafrica».

I colpi di Stato in Africa, come ha recentemente ricordato Alfredo Somoza nella puntata del 23 settembre scorso del programma Esteri di Radio popolare, intitolata Golpismo africano, ci sono sempre stati, ma raramente i media occidentali si degnavano di prestare loro attenzione, soprattutto perché avvenivano per ordine di qualche metropoli coloniale o in seguito a rivolte intestine all’esercito che puntavano a portare al potere personaggi graditi a Parigi o a Londra. Eppure, dal 1950 al 2022 ci sono stati in Africa 214 tentati colpi di Stato, di cui 106 riusciti e 108 falliti contro i 146 della Latino-America. Secondo Caracciolo sarebbero stati almeno 500. Gli 8 colpi di Stato avvenuti negli ultimi 3 anni, soprattutto in Sahel, ma anche quelli dell’Africa centrale francofona come il Gabon e la Guinea, dimostrano che è finto il modello degli Stati indipendenti sulla carta ma a sovranità limitata e dipendenti dalle potenze ex coloniali, modello che non ha portato né benefici economici né democrazia in questi Paesi. «La presenza cinese — sostiene Somoza—ha spezzato lo storico monopolio economico e politico francese e, nella nuova situazione, per la prima volta i Paesi africani hanno avuto la possibilità di scegliere come posizionarsi […] Sono soprattutto i giovani che stanno dicendo basta allo storico allineamento con un’Europa preoccupata soltanto di tamponare l’espansione dello jihadismo e di frenare le migrazioni […]. L’Africa chiede di più, molto di più. Sicurezza alimentare e ambientale, opportunità di impresa e di lavoro, libertà di parola e democrazia, istruzione e sanità. Che questi temi possano essere soddisfatti dai momentanei vincitori sino-russi è molto dubbio. Che la voglia di democrazia e partecipazione rischi di essere velocemente soffocata appare molto probabile. Ma va registrato che, almeno per una volta, Paesi modellati dal colonialismo europeo dicono basta, mandando un messaggio chiaro a tutti. L’Africa non è solo emergenza, non è solo un problema, è anche e soprattutto un’opportunità e una risorsa per chi la vuol cogliere. Una risorsa che però non deve essere più predata, ma coltivata e condivisa».
Su quanto sta succedendo in Africa segnalo anche il libro di Federico Rampini, La speranza africana, pubblicato per i tipi di Mondadori, saggio che ha il pregio di dare voce a tanti africani e al loro punto di vista sul mondo e sull’Occidente. Per aiutarci a vincere il nostro eurocentrismo e a dilatare il nostro sguardo, come ci insegna a fare, ogni mese, la rivista di geopolitica Limes, che in questo numero ospita ben quattro firme femminili, oltre alle bellissime carte di Laura Canali, che questa volta ha superato sé stessa.
Ecco il link alla spiegazione di Laura Canali sulla copertina e su alcune carte del numero Africa contro Occidente.
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Articolo di Sara Marsico

Giornalista pubblicista, si definisce una escursionista con la e minuscola e una Camminatrice con la maiuscola. Eterna apprendente, le piace divulgare quello che sa. Docente per passione, da poco a riposo, scrive di donne, Costituzione, geopolitica e cammini.
