Boschi e foreste ricoprono oltre il 30% del pianeta e costituiscono i polmoni della Terra, oltre che l’habitat di numerosissimi esseri viventi. La loro scomparsa sarebbe deleteria per l’intero pianeta. Distruggere una foresta significa ridurre drasticamente l’ossigeno disponibile nell’atmosfera e condannare all’estinzione migliaia di specie animali e vegetali, un danno alla biodiversità devastante che si andrebbe a ripercuotere su tutta la catena alimentare. Inoltre, in caso di forti intemperie, gli alberi assorbono l’acqua e frenano l’erosione del terreno.
A questo bisogna aggiungere che la deforestazione facilita il propagarsi di malattie nuove tra le comunità umane poiché mette a stretto contatto le zone antropizzate e quelle “selvagge”, permettendo a virus e batteri prima sconosciuti agli umani di proliferare colpendo chi non ha ancora delle difese immunitarie adeguate; secondo molte voci, queste è l’origine del passaggio dai pipistrelli agli umani del coronavirus.
Per foresta primaria si intende una foresta millenaria e non (ancora) toccata dalle attività umane. Dunque, non si possono considerare come tali le aree verdi dovute al rimboschimento artificiale.
Non vi sono più foreste primarie in Europa. Urbanizzazione, industrializzazione, agricoltura e allevamento, nel corso degli ultimi secoli, hanno gradualmente fatto sparire quasi tutte le aree boschive del vecchio continente, che alcuni millenni fa era praticamente costituito da un’unica foresta.
Le foreste primarie del pianeta sono cinque: queste si trovano in Amazzonia, nel bacino del Congo, in Indonesia, in America settentrionale e in Siberia (vedi cartina).
Oggi sono tutte seriamente minacciate.
Un’area di foresta grande come sette campi da calcio scompare ogni quindici secondi.
Quali sono le cause di questa catastrofe?
La maggior parte della deforestazione mondiale è dovuta all’industria alimentare, e in particolare ai prodotti di origine animale. Solo tra il 1960 e il 2010, la produzione di
cibo di origine animale è stata responsabile di oltre il 65% del cambio d’uso del suolo
su scala mondiale.
Il caso più grave è quello della foresta amazzonica (situata tra Brasile, Bolivia,
Paraguay, Perù e Colombia): ad oggi, più di un quinto della sua superficie è già stato distrutto per ospitare piantagioni di soia e pascoli. Solo il 10% della soia amazzonica è utilizzato per produrre cibi vegani e bevande alternative al latte, mentre il restante 90% è destinato ai mangimi per mantenere gli animali rinchiusi negli allevamenti intensivi europei e nordamericani.
Un’alternativa apparente all’allevamento intensivo europeo è quello estensivo sudamericano: anziché essere rinchiusi nelle gabbie degli stabilimenti industriali dei Paesi ricchi, gli animali pascolano dove un tempo si trovavano ettari di foresta. Quando vediamo le foto pittoresche dei campesinos sudamericani con il poncho sulle spalle che portano i lama e i bovini al pascolo, ci dobbiamo ricordare che sotto quelle terre ci sono fette di foresta amazzonica date alle fiamme per mantenere la futura carne da macello. E, di conseguenza, che gli incendi sempre più frequenti in Sud America non sono
affatto accidentali.
I due esempi più tragici ci sono forniti dal Cerrado e dal Pantanal brasiliani. Il primo ha già perso il 50% del proprio territorio a causa della produzione di soia. Il secondo, solo tra il 1985 e oggi, ha perso il 12% della vegetazione a causa dell’allevamento bovino; inoltre, la deforestazione nel Pantanal ha causato un calo del 25% dell’umidità e del 60% delle precipitazioni in quella che era la principale zona umida del pianeta, senza contare che, solo nel 2020, gli incendi, autorizzati dall’ex presidente Bolsonaro (non è certo l’unico, ma durante il suo governo sono aumentati del 145%) hanno divorato il 30% della sua superficie totale.

Bisogna tenere a mente che la maggior parte delle carni e della soia per gli allevamenti, prodotte in Sud America a danno delle terre e delle popolazioni povere locali, vanno a soddisfare principalmente i consumi europei e nordamericani. L’Unione Europea è il secondo importatore mondiale di soia a causa della presenza di numerosissimi allevamenti intensivi. Il trattato commerciale tra l’Unione Europea e il Mercosur (unione commerciale tra Cile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia, Venezuela e Brasile), varato nel 2019, favoreggia il commercio di soia, quindi la deforestazione, scavalcando completamente l’urgenza di tutela ambientale. La nuova normativa europea che vieta l’acquisto di prodotti frutto della deforestazione (aprile 2023) non ha incluso gran parte delle aree a rischio tra le zone da proteggere, tutelando più i profitti che i diritti e lasciando ancora il pianeta sotto scacco.

L’industria agroalimentare miete ingenti danni anche al di fuori del solo ambito della carne e dei suoi derivati. Nelle zone calde del pianeta, le foreste tropicali sono messe in pericolo da aziende che producono dolciumi e prodotti per l’igiene personale. La foresta indonesiana è gravemente a rischio a causa della produzione di caffè, cacao e olio di palma, frutto di alberi piantati artificialmente nelle zone disboscate.
L’olio di palma è un ingrediente usato per quasi tutti i dolci di origine industriale e per saponi liquidi, shampoo e cosmetici dalla consistenza cremosa.
Molte aziende giustificano la deforestazione compiuta dicendo che hanno comunque piantato alberi (le palme da olio o le piantagioni di cacao), che però non ricostruiscono l’ecosistema distrutto, dato che una foresta non è solo un insieme di alberi ma un complesso habitat di centinaia di migliaia di specie animali e vegetali: come in Amazzonia, una piantagione non rimpiazza una foresta. Oltre alla forte emissione di CO2 causata dagli incendi, la deforestazione nel Sud-Est asiatico e il bracconaggio finalizzato al mercato nero stanno causando anche la rapida scomparsa di migliaia di specie di piante rare e di animali come l’orango-tango, in via d’estinzione a causa delle attività umane: ne vengono uccisi e venduti illegalmente 25 al giorno secondo le stime ufficiali (quindi probabilmente molti di più).
Nel 2010, in seguito a una campagna internazionale di boicottaggio indetta da Greenpeace, la Nestlé ha promesso di rinunciare all’olio di palma di provenienza indonesiana; anni dopo (dati del 2019), l’azienda era ancora responsabile della produzione di 455mila tonnellate di olio di palma, costate al pianeta mille casi di deforestazione al giorno e l’abbattimento di 24mila ettari di foresta tropicale.

Un altro importante problema all’origine della deforestazione è l’esportazione di legname esotico, usato per costruire mobili pregiati. È questa la causa della deforestazione nel bacino del Congo (situato tra Cameroun, Gabon, Congo e Repubblica Democratica del Congo).
Il commercio del legname è uno dei meno controllati al mondo insieme a quello delle armi e delle droghe. Pur regolamentando il legno che entra in un Paese, è difficile verificare quanto e quale legname esce quotidianamente da una foresta.
Di nuovo, la maggior parte dei danni ambientali perpetrati nei Paesi meno sviluppati sono a vantaggio delle zone più ricche. Nel 2013 l’Unione Europea ha istituito il divieto di importare legname proveniente dalle foreste primarie, ma non tutti i Paesi rispettano la nuova norma, anzi, vedendo la situazione ambientale a dieci anni di distanza, si può affermare che tale provvedimento sia stata un buco nell’acqua.

Anche il settore cartaceo è responsabile dell’abbattimento di numerosi alberi: questo è il caso della foresta nordamericana, che si trova principalmente in Canada ed è la più giovane tra le cinque foreste primarie terrestri.
Ciò avviene non tanto per produrre la carta “dura”, quella che usiamo per scrivere, che è abbastanza duratura e facile da riusare e riciclare (oggi moltissime case editrici europee stampano soltanto su carta riciclata), quanto per quella “morbida” di uso domestico (carta igienica, fazzoletti e tovaglioli), che, oltre a essere carta monouso, viene ricavata da alberi giovani e prodotta in quantità enorme. Il numero di rotoli di carta igienica venduti ogni giorno è di gran lunga superiore al numero di armadi; e, trattandosi di un prodotto non duraturo, la produzione è costante.

L’altra importante foresta primaria si trova in Siberia.
Oltre alla produzione di carta e di legname, quest’ultima è danneggiata soprattutto dalla ricerca di carbone, gas e petrolio, usati poi come carburante e come fonte di energia elettrica, sebbene siano ormai evidenti e disponibili le alternative ai combustibili fossili.
Costruire una miniera di carbone richiede un’enorme quantità di benzina per scavare le gallerie e di legna per sostenerle: è quindi impossibile estrarre combustibili fossili senza danneggiare ulteriormente boschi e foreste.
È bene sapere che, nonostante la propaganda televisiva dica altro, l’Unione Europea commercia ancora con la Russia e i suoi alleati, proprio per acquistare l’uranio del Kazakistan (per i Paesi che hanno le centrali nucleari) e il petrolio, il carbone e il gas della Siberia (per tutti gli altri): sono, di nuovo, tutti prodotti che vanno a soddisfare i consumi europei.

È importante quindi che siano le abitudini di vita dei Paesi più sviluppati a modificarsi per il benessere di tutto il pianeta e per i diritti di tutti i suoi abitanti. Seppure possano sembrare difficili, le soluzioni non mancano.
Alcune aziende europee (come ad esempio Ikea) vendono legno di provenienza certificata e piantano ogni volta più alberi di quanti non ne abbiano abbattuti: questa buona pratica è sufficiente solo in parte, dal momento che una foresta contiene un ecosistema ben più grande di una serie di alberi. Per tutelare le foreste primarie extraeuropee, i Paesi ricchi devono attuare delle serie misure di protezionismo e istituire un rigido controllo volto a impedire effettivamente l’accesso e l’acquisto di legname non certificato e non autorizzato e sanzionare le aziende che abbattono illegalmente alberi rari e millenari.
Non è tutta la carta che va eliminata ma solo quella “usa e getta” come i fazzoletti: l’impatto ambientale di un libro, ad esempio, è invece minimo, dal momento che questo può durare decenni, se non addirittura secoli. Se la carta “dura” è facilmente riutilizzabile e riciclabile, non si può dire lo stesso per quella “morbida” di uso domestico. Come si faceva una volta, è sufficiente usare fazzoletti e tovaglioli di stoffa, lavabili e riutilizzabili, al posto di quelli di carta monouso e utilizzare per l’igiene personale l’acqua al posto della carta. Come per la plastica, l’obiettivo non è arrivare a produrre rifiuti compostabili e biodegradabili, quanto non produrne affatto, abolire del tutto il concetto di “monouso”.
Quanto al petrolio, e in generale a tutti i combustibili fossili (carbone, petrolio e gas), responsabili non solo della deforestazione ma soprattutto del surriscaldamento climatico, le alternative sono evidenti: le energie rinnovabili. Solare e fotovoltaico, fluviale e marino, eolico e geotermico, sono fonti che, unite e combinate tra loro, possono dare totale autosufficienza. Quando una di queste non funziona o non basta, ce ne sono sempre delle altre pronte a rimpiazzarla: non esiste un’area del pianeta che non abbia mai né sole né vento né movimenti d’acqua né calore della terra.

Per affrontare il problema principale, è necessaria e urgente una drastica diminuzione del consumo di carne di origine industriale (senza con ciò bandire né la cacciagione né la carne proveniente da allevamenti biologici e rispettosi dell’ambiente e degli animali): per arrivare a tale risultato sono soprattutto l’Europa e il Nord America a dover cambiare le proprie abitudini. A livello internazionale, l’Unione Europea deve assolutamente cancellare i trattati commerciali che non tengono conto della tutela del pianeta e impedire l’accesso sul territorio comunitario a tutti i prodotti alimentari frutto di danni ambientali gravi. A livello individuale, l’alimentazione vegana è senza dubbio la meno nociva per l’ecosistema terrestre da tutti i punti di vista, salute umana inclusa, ma anche scelte intermedie possono essere positive.

Per quanto riguarda l’agricoltura, bisogna andare verso un modello ecologico di produzione e con un impatto ambientale minore possibile. A questo proposito, occorrono dei chiarimenti. Che cos’è l’agricoltura ecologica? L’agricoltura biologica è davvero ecologica? Dipende. Per agricoltura “biologica” si intende semplicemente che un frutto o una verdura è stata coltivata senza prodotti chimici (pesticidi e conservanti) e che non contiene organismi geneticamente modificati. Per agricoltura “ecologica” si intende che lo stesso frutto o la stessa verdura è stata prodotta in maniera rispettosa del territorio e delle relazioni sociali. Una verdura coltivata in India in maniera biologica e trasportata in Europa non è ecologica perché comporta l’uso di imballaggi non riciclabili e l’inquinamento dovuto ai trasporti. Agricoltura ecologica è quindi sinonimo di biologico a chilometro zero con commercio equo. Sull’artigianato il discorso cambia: un oggetto prodotto a mano in Africa e trasportato in Europa (sempre nel rispetto delle condizioni di lavoro e di un salario dignitoso) è più ecologico dello stesso prodotto fabbricato industrialmente in Europa perché l’industria inquina più dei trasporti.
Fermare la devastazione del pianeta non è impossibile. La responsabilità è principalmente delle grandi aziende che gestiscono il mercato e degli Stati che vi legiferano, ma in parte anche delle singole persone che lo influenzano scegliendo
cosa acquistare.
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Articolo di Andrea Zennaro

Andrea Zennaro, laureato in Filosofia politica e appassionato di Storia, è attualmente fotografo e artista di strada. Scrive per passione e pubblica con frequenza su testate giornalistiche online legate al mondo femminista e anticapitalista.
