«Per la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo».
I primati di Aleksievič sono almeno due: è la prima persona bielorussa a ottenere il premio Nobel (2015) ed è la prima scrittrice a vedere riconosciuti il merito e la qualità del romanzo-inchiesta
Nata a Ivano-Frankivsk (Ucraina) il 31 maggio 1948, Svetlana (Svjatlana) Aljaksandraŭna è figlia di un bielorusso e di una ucraina; vive in Bielorussia dove i genitori insegnano nelle scuole rurali; dopo gli studi superiori svolge un periodo di praticantato prima di accedere alla facoltà di Giornalismo di Minsk. Finita l’università, lavora come giornalista e come insegnante, incerta sul suo futuro professionale.
La svolta avviene quando è assunta come inviata dal giornale a diffusione nazionale Sel’skaja gazeta, quindi diviene responsabile della sezione di critica e saggistica della rivista letteraria Neman.

Nel 1983 il suo libro appena concluso La guerra non ha un volto di donna rimane bloccato dalla censura; quando finalmente esce, vende due milioni di copie; altre opere vedono la luce e si susseguono gli adattamenti per il teatro e il cinema, nonché le traduzioni e i riconoscimenti ufficiali.
Nel 1989 viene stampata un’altra opera fondamentale, frutto di quattro intensi anni di ricerche: Ragazzi di zinco (con riferimento alle bare in cui venivano restituiti i corpi dei soldati morti) in cui racconta la guerra in Afghanistan. Viene accusata di nuovo di antipatriottismo e tendenziosità, ma in breve, anche per le pressioni internazionali, le accuse si smontano. Nel 1993 pubblica Incantati dalla morte.
È del 1997 il bellissimo Preghiera per Černobyl’ in cui tratta la tragedia della Bielorussia, coinvolta dal 70% della caduta radioattiva.
Nonostante i successi, la stima, la notorietà, Aleksievič ha vissuto dodici anni fra la Francia, l’Italia, la Russia, la Svezia per l’accusa, ovviamente falsa, di essere una agente della Cia; solo nel 2013 è ritornata a vivere a Minsk, ma già nel 2020 si è dovuta trasferire in Germania.
Il dato da evidenziare è senz’altro l’originalità della sua scrittura, non essendo una narratrice vera e propria: è piuttosto una testimone, una reporter, una “voce” del popolo che ha creato in lingua russa il genere del romanzo-inchiesta, detto pure “prosa epico-corale”, “letteratura non fiction”, come in Italia possiamo leggere Gomorra o Zero zero zero di Roberto Saviano. Alle vicende raccontate, ispirate a fatti e personaggi reali, si uniscono commenti, dati, interviste, frutto di lunghi e difficili viaggi in Russia e nel mondo, anche nelle vesti di giornalista.
Importanti nella sua formazione sono stati gli scrittori Alexandr Herzen e Ales’ Adamovič che già aveva sperimentato in lavori collettivi il nuovo modo di narrare riferendo della guerra e dell’assedio di Leningrado.
«Afferrare quanto vi è di autentico, ecco cosa volevo. E ho assimilato all’istante questo genere, fatto delle voci di uomini e donne, di confessioni, testimonianze e documenti dell’anima delle persone», ha affermato Aleksievič.

Già la prima opera (traducibile come: Monologhi di persone che abbandonano i luoghi natii) le aveva portato accuse di antipatriottismo. Dopo La guerra non ha un volto di donna (Bompiani 2015), sulle sovietiche al fronte durante la Seconda guerra mondiale, uscito sulla rivista Oktjabr e poi a stampa, pubblica un altro libro su quel periodo contenente cento storie di vita vissuta durante l’occupazione tedesca (Gli ultimi testimoni, Bompiani 2016). Anche qui compaiono delle novità: la guerra è infatti vista senza eroismo, attraverso lo sguardo stupito e sconvolto delle donne e di bambini e bambine.
I ragazzi di zinco (e/o 2003), che fa riferimento alla guerra in Afghanistan «tenuta per dieci anni celata al proprio popolo», racconta le vicende dei giovani caduti, ricordati attraverso le parole di madri, sorelle, mogli incontrate in tutto il Paese. L’effetto sull’opinione pubblica fu dirompente. Nel 1993 altra tappa, che va di pari passo con il crollo dell’Urss e i cambiamenti intervenuti; questa volta è un testo dolentissimo (Incantati dalla morte, e/o 2005) in cui riferisce delle esistenze travagliate di coloro che si sono suicidati, o hanno cercato la morte, per la delusione politica, per il vuoto ideologico.
Preghiera per Černobyl’ (e/o 2002) mette in luce un aspetto spesso ignorato in Occidente, ovvero il tremendo danno arrecato da quella tragedia alla popolazione e al suolo della Bielorussia che, a distanza di anni, paga ancora gravi conseguenze in termini di malattie, invalidità, contaminazioni. Dal libro la stessa autrice ha tratto un lavoro teatrale che dovrebbe essere un monito all’umanità, mentre la natura ha ripreso il sopravvento in quei luoghi abbandonati. Ma la vicenda più recente di Fukushima, puntualizza Aleksievič, segna l’ennesima sconfitta perché «l’uomo di oggi non vuole ammettere di non essere onnipotente».

Nel 2014 in Italia è stato tradotto Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo (Bompiani); la scrittrice in quel periodo ebbe a dichiarare di aver chiuso con «il tema dell’impero rosso e dell’homo sovieticus» e di voler privilegiare altri progetti: uno sui rapporti fra donne e uomini e un altro «sulla vecchiaia, sul tramonto, sugli ultimi passi prima del buio».
Nel 2016 è comparso Il male ha nuovi volti. L’eredità di Černobyl’ mentre nel 2019 è stata la volta del libro-intervista Solo l’amore salva dall’ira. Ultimo uscito, nel 2021, Perché sono discesa all’inferno?
Dopo le elezioni truccate del dittatore Lukashenko e le vaste proteste popolari scoppiate in Bielorussia dal 9 agosto 2020, con la violenta repressione condotta dal regime contro coloro che lottano per la democrazia, sta scrivendo un nuovo libro per raccontare le storie di compatriote e compatrioti che hanno subito arresti e torture nelle famigerate carceri e di chi (come lei) viene costretta ad abbandonare il Paese per vivere in libertà (si parla di 500.000 persone, una catastrofe umanitaria). Ha dichiarato in una recentissima intervista (a cura di Anna Zafesova su Tuttolibri, 8.1.22) «la Bielorussia mi ha cancellato dai libri di storia ma io non mi arrendo alla tirannia».

In Italia la scrittrice ha ricevuto il premio Sandro Onofri per il reportage narrativo nel 2002, mentre nel 2013 ha ottenuto il prestigioso Peace Prize of the German Book Trade; nel 2014, ancora in Italia, ebbe il premio internazionale Masi Grosso d’Oro Veneziano. La consacrazione avvenne con il premio Nobel nel 2015. Molto interessante il contributo di Roberto Saviano uscito in quella circostanza: nel bell’articolo Così il Nobel della realtà rivoluziona la letteratura (www.repubblica.it/cultura/2015/10/12/) evidenziò i pregi della scrittura di Aleksievič, che sentiva a sé assai vicina; parlò di un vero terremoto nell’ambito del premio perché per la prima volta si riconosceva che la “non fiction” può essere vera e grande letteratura.
Nel 2021 le è stata conferita la Gran Croce dell’ordine al merito della Repubblica Federale Tedesca.
Qui le traduzioni in francese, inglese, spagnolo e ucraino.
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Articolo di Laura Candiani

Ex insegnante di Materie letterarie, dal 2012 collabora con Toponomastica femminile di cui è referente per la provincia di Pistoia. Scrive articoli e biografie, cura mostre e pubblicazioni, interviene in convegni. È fra le autrici del volume Le Mille. I primati delle donne. Ha scritto due guide al femminile dedicate al suo territorio: una sul capoluogo, l’altra intitolata La Valdinievole. Tracce, storie e percorsi di donne.
