Se dovessi riassumere il mio percorso e la mia militanza nel femminismo in una frase, questa sarebbe sicuramente quella di Maya Angelou: «Ogni volta che una donna lotta per se stessa, lotta per tutte le donne». Queste parole mi hanno sempre emozionato e fatto sognare, evocando in me bellissimi sogni di un futuro di speranza, dove le cose cambieranno in meglio e il mondo femminista che sogno si realizzerà al grido di, parafrasando Marx: «Donne di tutto il mondo unitevi!»
È con questa capacità di farti sentire vicino alle sorelle e ai disertori del patriarcato di tutto il mondo che Rossella Marangoni ti affascina e ti conquista con i suoi libri e i suoi corsi sulle donne e sul femminismo in Giappone. Studiosa di cultura giapponese da circa trent’anni, autrice di tantissimi libri e pubblicazioni e membro dell’Aistugia, Associazione italiana per gli studi giapponesi, fondata da Fosco Maraini (per conoscerla meglio vi rimando alla sua biografia e al suo sito ufficiale), oltre a una grandissima cultura e professionalità sulla storia delle donne del Sol Levante, riesce a farci vivere dentro la frase di Maya Angelou, raccontandoci la storia delle donne giapponesi e facendoci sentire in unione ed empatia con le sorelle nipponiche e con le loro battaglie, in accordo con quella che Anarkikka definiva una parola bellissima: Sorellanza.
Il suo ultimo libro Onibaba- Il mostruoso femminile nell’immaginario giapponese ci trasporta dentro un mondo fatto di miti, fiabe, leggende, film e manga per analizzare, rintracciare e sradicare la misoginia introiettata che si nasconde dentro e che crea, poi, la società patriarcale.
Ciao Rossella. Raccontarci qualcosa di te.
Parlare di me, per me è sempre molto difficile, direi anzi fastidioso. Ho fatto la libraia per la maggior parte della vita, studiando nel frattempo e laureandomi in lingua e letteratura giapponese e, sempre lavorando l’intera giornata in libreria e continuando a studiare, ho iniziato a insegnare cultura giapponese nel tempo libero alle/agli adulti, scegliendo un percorso fuori dall’accademia che mi permettesse di condividere i miei studi e le mie ricerche con le persone comuni e non con studenti in qualche modo “obbligati/e” a seguire un corso in università. Una scelta al di fuori dei sentieri battuti che non ho mai rimpianto e che continua a darmi grandi gioie e a essere fonte di continuo arricchimento culturale e umano. Ho iniziato a insegnare cultura giapponese nelle biblioteche e presso le associazioni culturali nel 1998. Ora lo fanno in molti, ma credo proprio di essere stata la prima. Quando la nostra libreria ha chiuso, ho semplicemente continuato a fare quello che facevo prima: insegnare la cultura giapponese e cercare di diffonderla il più possibile a un pubblico più vasto, in maniera onesta e inappuntabile dal punto di vista scientifico, perché non amo la banalizzazione con cui troppo spesso si racconta il Giappone.
Come ti è venuta l’idea di scrivere Onibaba – Il mostruoso femminile e quali sono le tematiche che ti hanno appassionato di più?
Il libro è nato da un corso che ho tenuto nello scorso autunno e che era tutto dedicato al tema del mostruoso femminile nella tradizione culturale giapponese. Avevo articolato il corso in due moduli: il primo voleva illustrare il mostruoso femminile nella visione maschile così come si ricava dai miti, dalle fiabe, dai racconti folclorici e anche da alcune opere letterarie prodotte fra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Il secondo modulo mirava invece a raccontare, sempre utilizzando prodotti della cultura popolare, la visione femminile di resistenza ai modelli imposti, attraverso comportamenti trasgressivi e di sfida delle convenzioni. È la prima parte del corso che è confluita nel libro anche, e soprattutto, per motivi di spazio. Ma già mi sembra che le tematiche affrontate siano parecchie e tutte mi hanno appassionato, devo dire. In particolare, però, quello che trovo affascinante è la natura duplice di alcuni personaggi, capaci di spietatezza ma anche di benevolenza e di grandi gesti di generosità.
Quali sono gli interrogativi che ti poni in questo libro e che messaggio vorresti lasciasse alle tue lettrici e ai tuoi lettori? A me, personalmente, nei tuoi corsi e nei tuoi testi, hai fatto sentire la solidarietà, l’ammirazione e la vicinanza alle donne e alle sorelle giapponesi e alle loro battaglie e rivendicazioni.
L’interrogativo da cui sono partita è stato suscitato dall’osservazione, nell’immaginario folclorico e fiabesco giapponese, di una pluralità di creature mostruose di genere femminile che rispondono a una serie di modelli (la moglie ingannatrice che alla fine manifesta una natura altra – mostruosa o animale che sia, la vecchia megera malvagia e antropofaga, la bella dama che la gelosia, il risentimento, il desiderio di vendetta trasforma in un essere feroce e spietato, ecc.) e tutti questi modelli sono caratterizzati da cattiveria, inganno, duplicità. Mi sono chiesta quali siano le cause di questa ricchezza di figure e a che logica rispondessero. Con il libro ho tentato di indagare su questa cattiveria che, in ultima analisi, sembra caratterizzare la donna, un essere sfuggente da additare come un pericolo, una minaccia nei confronti del maschio e del suo potere. Se questo libro aiutasse a vedere le donne giapponesi non più come geisha da cartolina secondo la romantica visione orientalistica, troppo spesso ancor oggi ribadita e sottolineata, potrei dichiararmi già soddisfatta.
Che rapporti ci sono, secondo te, tra figure importantissime del femminismo e dell’attivismo per i diritti delle donne in Giappone con le figure mitiche dell’immaginario femminile? Penso a donne e movimenti come il gruppo radunatosi intorno alla rivista femminista Seitō (Calze Blu), oppure a Noe Ito (scrittrice e anarchica femminista giapponese), Shiori Ito (che con la sua ribellione ha dato il via al movimento #Metoo giapponese, o meglio #Wetoo), alla grandissima e coraggiosa politica Yuka Ogata cacciata dall’aula solo perché aveva con sé la sua neonata, Setouchi Jakuchō e Megumi Igarashi, figure che in poco tempo sono diventate per me dei veri e propri miti, punti di riferimento, ispirazione e “madri femministe” e a cui va tutta la mia ammirazione e il mio supporto.
Penso che il rapporto possa essere visto come una sorta di filiazione ideale: i mostri femminili del folclore rappresentano una minaccia potenziale per l’uomo ma, al tempo stesso, ribaltando la visione maschile, possono essere intesi come creature che resistono, che si oppongono a un ideale imposto di donna sottomessa, ridotta al silenzio, annichilita da una società patriarcale che le priva di diritti, di rappresentanza, di parola. Le generazioni di femministe si susseguono e continuano a doversi confrontare con la costruzione del mostruoso. Ricordo che le intellettuali che si radunavano attorno alla rivista Seito agli inizi del XX secolo erano oggetto di caricature sui quotidiani dell’epoca che le rappresentavano come vecchie arcigne, pelose, caratterizzate da occhiali spessi, chignon di chiome ingrigite, insomma, molto simili a certe rappresentazioni delle creature mostruose delle fiabe (e questo pur essendo tutte le scrittrici di Seito poco più che ventenni). Insomma, chi rifiutava di adeguarsi al modello femminile imposto della “buona moglie e madre saggia” prima e della “ragazza perbene di buona famiglia” poi, non assertiva ma rispettosa delle convenzioni, diventava e diventa un mostro, un essere ribelle che non si sottomette, un pericolo incombente per il patriarcato, una minaccia proprio come le onibaba, le yamanba, le donne serpentine di cui ho parlato nel mio libro.
Parlando ancora di “rappresentazioni” ho sempre avuto un dubbio in merito alle donne e al femminismo nel Sol Levante. Essendo appassionato di wrestling femminile ricordo che da ragazzino guardavo gli incontri femminili giapponesi mentre, in quelli americani, non c’era praticamente traccia di donne. Per fortuna, adesso, il wrestling femminile americano è bellissimo e molto seguito grazie a imprenditrici illuminate come Stephanie MacMahon e a tutte le bravissime lottatrici e alle pioniere che hanno combattuto e dimostrato la loro competenza dando il via alla rivoluzione femminile. Questo negli Stati Uniti, però, é tutto molto recente e ci sono volute tante battaglie per ottenerlo mentre in Giappone era presente fin dagli inizi con donne che combattono e si esibiscono da tempo. Perciò, secondo te Rossella, come mai la rappresentazione femminile nei media, nei cartoni, nello sport, nei film, nei manga o nei videogiochi è così avanzata rispetto alle reali condizioni delle donne nipponiche? Rappresentazione e realtà non vanno così di pari passo?
Direi proprio di no, un conto è la realtà, un conto è la narrazione, più o meno interessata, della realtà. Leggevo di recente un reportage (sulla rivista francese Tempura, autunno 2021) sulla costituzione della prima Lega professionale di calcio femminile del Giappone (WE League) e mi ha colpito la dichiarazione di Kobayashi Miyuki, una dei membri del consiglio di amministrazione della Lega: «L’idea è di cambiare la società intera attraverso il calcio. Se le nostre iniziative porteranno frutto, questo avrà tanto più impatto per il fatto che lo sport è l’ambiente in cui si registra il maggior ritardo in materia di eguaglianza uomini-donne». Dunque lo sport non è quell’ideale isola felice che si potrebbe credere. Certo, per quanto riguarda le arti marziali e quindi, per estensione quelle di lotta, si deve anche fare riferimento a una tradizione di addestramento femminile che risale alla fine del periodo Edo, con le donne guerriere impegnate a combattere negli assedi della guerra civile del 1868 o all’addestramento nelle scuole femminili all’autodifesa durante la Guerra del Pacifico. Ma chi imponeva cosa? E quali erano gli scopi dietro all’incoraggiamento (meglio, all’obbligo) di seguire quell’addestramento? Ma anche le arti marziali, come ha di recente dimostrato Kate Sylvester con il suo ben documentato studio Women and Martial Art in Japan (Routledge, 2023) sono un ambito in cui è pesante la gestione androcentrica e in cui le regole sono dettate dall’agenda del patriarcato.
Ma, al di là dello sport, chi rappresenta la donna nei prodotti della cultura pop e a che logica e a che interessi risponde? Il discorso è complesso così come la realtà, per questo nei miei corsi invito sempre a non attenersi alle spiegazioni più semplici e alle narrazioni più accattivanti. Dietro l’ombrellino della geisha c’è sfruttamento, violenza, prevaricazioni, torti, eppure continuiamo a voler vedere solo l’elegante silhouette della dama sotto i rami fioriti del ciliegio.
Come vedi attualmente il movimento femminista giapponese e, più in generale, la condizione femminile nel paese?
Direi che se un cauto ottimismo caratterizza oggi le dichiarazioni di figure di spicco del movimento come Ueno Chizuko, che non manca di ricordare i passi in avanti che sono stati fatti con l’ottenimento del congedo parentale, o la criminalizzazione delle violenze domestiche e delle aggressioni sui mezzi di trasporto, fino a poco tempo fa tollerate, ancora resta molto, moltissimo da fare in materia di eguaglianza salariale, di diritti, di rappresentanza politica, di parola. Mi sembra che la situazione della donna in Giappone sia ancora condizionata pesantemente da una misoginia sistemica e da una mentalità disparitaria che fa sì, ad esempio, che il Giappone, nel Glass Ceiling Index (sull’eguaglianza nel mondo del lavoro) di The Economist del marzo 2023 si collochi al 28° posto (un posto che occupa ininterrottamente dal 2016), ossia che sia al penultimo posto in una classifica che prende in esame le 29 economie più avanzate. E ricordiamo anche che nel Gender Gap Index del Forum Economico Mondiale il Giappone si colloca al 125° posto su 146 paesi considerati o che, per quanto riguarda la rappresentanza parlamentare, ossia per la presenza femminile nelle due Camere della Dieta, il Giappone si colloca al 164° posto su 185 paesi esaminati nel ranking del luglio 2023 (in pratica, oggi) dell’Unione inter-parlamentare di Ginevra (Ipu) sulla presenza delle donne nei parlamenti nazionali. Il percorso da compiere che hanno davanti le donne giapponesi mi sembra ancora lungo, arduo e ricco di ostacoli. Le giovani sono più determinate nell’esigere un cambio di rotta ma manca la rappresentanza politica che porti avanti le loro istanze: fare campagna elettorale è costoso e le donne, per l’esposizione in pubblico che la carriera politica richiede, sono ancora scoraggiate da mariti e famiglia. Ciò nonostante una nuova leva di personalità alza la propria voce, come la carismatica Wakako Fukuda, 27 anni, leader del movimento studentesco (Sealds) che si è battuto contro la rimilitarizzazione del Giappone di Abe e rappresentante di spicco della nuova generazione femminista. Indomita, combattiva, si dichiara femminista anche se sa che già fare questo rappresenta un’azione coraggiosa. Mi sono rimaste impresse le sue parole: «Sapere che sono una donna basta a loro per oggettivarmi: per loro non sono che un pezzo di carne». La strada mi sembra davvero lunga.
Grazie mille Rossella, il tuo libro e i tuoi corsi sono un grande contributo alla causa e ci permettono di smontare, un mattone alla volta, tutto ciò su cui si regge il patriarcato.
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Articolo di Gianmaria Di Silvestro

Diplomato all’istituto magistrale “Saffo” di Roseto Degli Abruzzi, si laurea in “Scienze della formazione primaria-Indirizzo scuola primaria” con specializzazione nel sostegno all’Università Degli studi Dell’Aquila. Inizia la sua carriera in cooperative sociali che si occupano di persone con disabilità e anziani. Lavora attualmente come maestro in ruolo di scuola primaria ed è membro della Commissione Pari Opportunità del comune di Giulianova.
