Il tiro con l’arco è una delle discipline più antiche che ancora oggi vengono praticate. Possiamo trovarla nei miti greci della dea Artemide e del popolo di donne guerriere chiamate Amazzoni. Perfino nel tardo Medioevo si dice che alcuni reali in Europa si esercitassero con l’arco, ad esempio Anna Bolena, la seconda moglie del re Enrico VIII d’Inghilterra, era un’abile tiratrice ed era stata allieva di Roger Ascham. Egli fu l’autore del primo trattato sul tiro con l’arco, dal titolo Toxophilu, in cui sono descritti tutti i fenomeni scientifici che regolano il funzionamento dell’attrezzo e il volo della freccia. Tuttavia, la prima civiltà a farne certamente uso per la caccia e la guerra è stata quella egiziana circa 5000 anni fa.
Questa pratica si era diffusa anche in Giappone intorno al VI secolo, dove subì l’influenza delle religioni e tradizioni locali che diedero origine a quella che oggi è conosciuta come Kyudo, letteralmente: la via dell’arco. Quest’arte era inizialmente ricca di stili, i quali si ridussero a poche tecniche principali, diverse a seconda della regione di provenienza e da un particolare orientamento filosofico-religioso. Nel Giappone feudale veniva esercitata nella casa centrale del clan militare più importante; invece oggi viene praticata in specifici dojo. Praticarla non è come recarsi semplicemente in un campo di tiro, ma viene considerata come una ricerca di verità, bontà e bellezza. L’ambiente è più spirituale e l’attenzione viene posta sulla riflessione e concentrazione incanalate a ogni scoccata. Il tiro è costituito da nove momenti diversi: camminata, postura, preparazione dell’arco, sollevamento dell’arco, trazione, ancoraggio, rilascio, mantenimento della posizione e abbassamento dell’arco. Ogni gesto ha un significato ed è pervaso di meditazione: il corpo è in sintonia con la mente fino ad arrivare allo zanshin, cioè “rimanere del corpo” e “rimanere dello spirito”, che spiega il momento dopo il rilascio della freccia. Il Kyudo perciò porta a creare un’intima connessionetra l’arciere e la sua mente.

All’inizio dell’Ottocento il tiro con l’arco nacque come disciplina sportiva negli Stati Uniti, dove un gruppo di appassionati, partendo dalla tradizione arcieristica militare inglese, costruirono i primi archi sportivi e regolamentarono l’attività agonistica. Dal Seicento invece le gare erano già entrate a far parte delle usanze e delle feste popolari inglesi e poco dopo le nazioni dell’Europa settentrionale e centrale svilupparono una propria tradizione arcieristica. La più antica compagnia di arcieri si era formata nel 1381 a Bruxelles con il nome di Saint Sébastien.
Tuttavia, le prime vere competizioni sportive si svolsero negli Stati Uniti nel 1829: si tirava a poco più di 73 m, con serie di tre frecce. Nel 1878 i club arcieristici negli Usa erano già numerosi e diedero vita nel 1879 alla NationalArchery Association, con relativo campionato nazionale a partire dallo stesso anno. Il campionato nazionale inglese, invece, era in atto dal 1844.

Nel periodo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’arciera che più si distinse è stata Alice Legh, nominata “la più grande arciera britannica di tutti i tempi”. Durante la sua carriera vinse ventitré volte il Campionato nazionale femminile, ma nel 1908 rifiutò di partecipare alle Olimpiadi di Londra per difendere il proprio titolo nazionale e per competere nel campionato britannico, ritenuto più prestigioso rispetto ai Giochi. Quindi venne sostituita dall’atleta Charlotte “Lottie” Dod, citata dal Guinness dei primati come la sportiva più versatile di sempre. Oltre al tiro con l’arco si dedicò infatti all’hockey su prato, al golf e al tennis (vincendo ben cinque volte il Wimbledon). In quella gara fu battuta dalla sua avversaria di 53 anni Sybill Newall, che divenne la vincitrice di una medaglia d’oro olimpica più anziana dell’era moderna.
Nel mondo sportivo è stata una delle prime attività agonistiche che hanno permesso alle donne di gareggiare nelle Olimpiadi: la categoria femminile individuale ha debuttato per la prima volta nel 1904 a St. Louis negli Usa, con l’atleta americana Matilde Howell che vinse la medaglia d’oro. Mentre, la categoria femminile a squadre è stata introdotta a partire dalle Olimpiadi di Seoul del 1988. Durante i Giochi olimpici di Atene 2004 l’Italia ha raggiunto il miglior risultato della sua storia: la medaglia d’oro nella prova individuale con Marco Galiazzo; mentre alle Olimpiadi di Tokyo di tre anni fa, la squadra nazionale maschile non riuscì a qualificarsi, ma rimase in gara a rappresentarci solo quella femminile, che si posizionò al secondo posto nel ranking mondiale, grazie alle giovani Tatiana Andreoli, Lucilla Boari e Chiara Rebagliati.

In Italia questa disciplina iniziò a diffondersi sotto il regime fascista negli anni Trenta ed era riservata alle “Giovani Italiane”. Infatti, veniva insegnata nelle Accademie per formare le insegnanti di educazione fisica e fu organizzato anche un campionato femminile proposto dall’Accademia di educazione fisica di Orvieto. Ciò nonostante, solamente nel 1961 prese vita la Federazione italiana di tiro con l’arco grazie alla fusione delle sei Compagnie già esistenti e nello stesso anno entrò a far parte della World Archery, la prima federazione mondiale ad aver avuto una donna come presidente: la tiratrice britannica Inger Frith, che grazie ai suoi servizi nel tiro con l’arco è stata nominata Ufficiale dell’ordine dell’Impero britannico.
La nazione che primeggia in questo sport, da quando è diventata disciplina olimpica, è la Corea del sud: 43 medaglie vinte, 27 delle quali sono d’oro.
In particolare, nelle competizioni a squadre le coreane hanno sempre conquistato il primo posto, nessuna è ancora riuscita a batterle.
Quindi, è lecito chiedersi: cosa c’è dietro a tutti i loro successi?
La tradizione ricopre un ruolo importante e comincia dall’arco coreano, chiamato Gakgung, che si presenta riflesso (o composito) invece che curvo. Quando è a riposo la sua curvatura forma una C, distinguendosi dagli altri archi, donando una breve distanza tra i tip dei due flettenti. Questo consente di poter effettuare tiri più potenti e lunghi. Un altro motivo è che in Corea il tiro con l’arco viene praticato fin dalle elementari per due ore al giorno, identificando così chi continuerà a farlo anche durante gli anni delle medie e delle superiori.
Infine, le/gli arciere/i coreani si allenano più di chiunque altro, con una media di dieci ore al giorno. Oltre all’esercizio, parte della loro preparazione è dedicata al mental training, a cui si affiancano delle sessioni di allenamento in uno stadio, per abituarsi all’ambiente e alle sensazioni che si potrebbero provare durante la gara.

Nonostante il tiro con l’arco, almeno da noi, sia uno sport poco praticato e conosciuto nasconde in realtà un lato davvero affascinante. Non solo per l’influenza che ha avuto nella storia dell’umanità e nell’immaginario attraverso miti, leggende e racconti; ma anche per la precisione, la concentrazione, l’equilibrio psicofisico, la consapevolezza e il buon controllo del corpo che sono indispensabili dietro l’apparenza di un semplice tiro della freccia verso il bersaglio.
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Articolo di Rebecca Albanese

Studentessa di CIM, presso l’Università di Pavia. Amo l’astrologia, leggere romanzi e viaggiare. Fin da piccola trasformo le mie emozioni e i miei desideri in storie inventate e uno dei miei sogni più profondi è quello di scrivere libri che sappiano colpire le menti ed entrare nel cuore di chi legge.

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