Editoriale. Le guerre sono sempre una sconfitta 

Carissime lettrici e carissimi lettori,
la morte si vive intorno: come di questi tempi. Quando la conta non finisce mai e si rimane sempre indietro, dimenticando qualcuno o qualcuna, forse non sapendone neppure il nome.
La morte si celebra, come in questi giorni di inizio novembre con le notti di nuovo più buie che portano più ore di sonno, non certo quello eterno, profondo, shakespeariano del dialogo famoso del Principe di Danimarca zeppo di dubbi.
Così il 31 ottobre si ricorda la morte, segnata sul calendario per due giorni successivi alla fine del mese e si festeggia Halloween, il nome che rimanda alla lingua delle terre d’Irlanda: Hallow E’en, dalla forma contratta di All Hallows’ Eve, dove Hallow è la parola arcaica inglese che significa Santo. E infatti è alla vigilia della festa di tutti i Santi, Ognissanti. In inglese: All Hallows’ Day.
Halloween è una festa che appartiene al mondo anglofono e, partita dall’Europa, come nel tragitto fatto dalla lingua, è ritornata a noi, dalla terra al di là dell’Oceano dove era stata portata, attraverso gli Stati Uniti. Ma è stata una visitazione che già conoscevamo, propria della nostra cultura e conosciuta in maniera diversa e molto legata, appunto, alla ricorrenza del giorno dedicato a chi ci ha lasciato per sempre nel nostro viaggio terreno. Troviamo dolci e tradizioni antiche (in effetti risalirebbero all’antica Roma) da tante parti nostrane, dalla Sicilia alla Puglia come in Sardegna. La mia discendenza partenopea e i racconti di mia madre, nata e cresciuta a Napoli, mi fanno proporre il racconto dell’Halloween di questa città, culla dell’Illuminismo. «Halloween a Napoli è sempre esistito». Scriveva così, la giornalista e scrittrice Matilde Serao nel 1904 su Il Giorno e continuava: «Domani mattina, a Dio piacendo, saremo svegliati da un’orchestrina originale di strumenti non molto melodiosi, ma per compenso sufficientemente assordanti. Centomila scatolette di cartone, debitamente segnate col teschio tradizionale e le immancabili ossa incrociate, faranno risuonare per tutte le vie di Napoli, per tutti i vicoli, per tutti i cortili, per i pianerottoli delle nostre scale, i soldini che vi sono piovuti dentro, attraverso la sottile fenditura, ed il rullo di questo strano tamburino ci accompagnerà da per tutto, e, dovunque, un bambino, due bambini, dieci bambini ci affronteranno, ci stringeranno in mezzo, ci sgusceranno tra i piedi, agitando lacascettella” e strillando in tutti i toni: Signurì, ‘e muorte

Scrive Giorgia Verna in Storie di Napoli: «Da sempre il culto dei morti è uno dei più sentiti e praticati. Il 31 ottobre, infatti, era usanza che i giovani scugnizzi, nel nome dei morti, chiedessero, agitando le loro cascetelle, un’offerta di confetti e soldini per accendere le candele delle anime pezzentelle. Dolcetto o scherzetto? No, «Cicci muorti!». Per le strade la gente si aggirava con “o tavutiello”, cassetta di cartone a forma di bara, pronunciando questa invocazione: «Fate bene ai Santi morti» e cantando una filastrocca che recita così: «Famme bene, pe’ li muorte: dint’a ‘sta péttula che ‘ce puórte? Passe e ficusecche ‘nce puórte e famme bene, pe’ li muorte» (traduzione: Fammi del bene per i morti: in questo grembiule che ci porti? Uva passa e fichi secchi porti e fammi del bene, per i morti). Delle cascettelle parla anche Eduardo De Flippo in Filumena Marturano: «…ambo due e con tre figli da crescere, andai ad abitare al vicolo San Liborio, basso numero 80, e mi misi a vendere sciosciamosche, cascettelle p’’e muorte e cappielle ‘e Piererotta». Se si pensa, inoltre, che l’usanza di chiedere i dolci il giorno di Halloween sia una contaminazione anglosassone, si sbaglia di grosso. Da sempre a Napoli durante la celebrazione della festa dei morti ci si scambiano dolci, per simboleggiare i doni che i defunti portano dal cielo e contemporaneamente l’offerta di ristoro dei vivi per il loro viaggio. Un modo per esorcizzare la paura dell’ignoto e della morte, insomma. In particolare, a Napoli si consuma il torrone e non uno qualsiasi: in origine il Murticiello o Morticino era un bianco, a base di cioccolato e trapezoidale a forma di bara. Il dolce, inoltre, era molto soffice affinché il morto, ormai senza denti, potesse mangiarlo in tranquillità. Così i napoletani cercavano di addolcire il viaggio del morto verso l’aldilà. Per scaramanzia, come sempre a Napoli, i pasticceri decisero di cambiare la forma del torrone passando da quella trapezoidale a una semisferica. Secondo l’usanza, inoltre, la sera prima della festa di Ognissanti, si allestivano tavole imbandite per dare ristoro ai defunti che andavano in visita per le case. Nelle antiche tradizioni popolari europee — continua Verna — la zucca è considerata un contenitore soprannaturale delle anime dei defunti. Di questa antica credenza, com’è noto, Halloween è la massima espressione. Zucche da mille forme e colori vengono intagliate da grandi e piccini in smorfie paurose e di terrore. Anche questa tradizione, però, ha una vecchia antenata nell’Italia contadina. Tagliare zucche e riempirle con le luci era largamente diffuso anche a Somma Vesuviana, dove infatti si organizzava la Festa delle Lucerne in cui i morti si manifestavano sotto forma di teste di zucca che brillavano nelle tenebre. Zucche intagliate e illuminate, dolcetti e bambini che bussano alle porte delle case: ecco a voi la ricetta perfetta dell’Halloween partenopeo». (Giorgia Verna, Storie di Napoli). Storie di morti, di memorie, di pianto. Storie di guerra, di troppe guerre inutili e sempre perse, comunque vada, proprio come ha detto al mondo Papa Francesco.

Un’amica, Sara Marsico, mi ha inviato in questi giorni di non-pace le parole scritte dall’ex parlamentare europeo e senatore della Repubblica Emilio Molinari, oggi ottantatreenne. Il suo discorso ha risuonato in me, ha dato luce ai miei pensieri, ha confermato i miei collegamenti fatti con il terrorismo in generale (mai unica strada) e il comportamento tenuto dagli invasori/coloni (perché tali erano) verso gli indiani d’America, gli uomini con le penne e le donne dai nomi meravigliosi legati alla natura che rispettavano sempre, confinati nelle riserve, un termine che parla da solo all’immaginario. Stessa cosa ripetuta in America Latina o nella Germania nazista: «Sono stanco di giurare la mia condanna sui crimini di Hamas, prima di parlare di Gaza — scrive Molinari — Li condanno, sono inorridito! Fanno male prima di tutto alla causa palestinese. Non voglio più discutere di chi è l’aggredito e chi è l’aggressore soprattutto in Palestina. Non voglio parlare di geopolitica, ho perso le parole e le sedi dove parlarne ed essere ascoltato. Continuo a chiedermi: dove è finita la ragione umana: se il ministro di un paese democratico come Israele per combattere Hamas ci dice: «A Gaza assedio totale! Niente più cibo, acqua, medicinali, energia gas…Sono animali», mentre i suoi carri armati si ammassano per entrare e i suoi aerei la bombardano da giorni e nessuno si indigna? Se la quasi totalità dei giornalisti, dei conduttori TV, dei personaggi intervistati, dei politici, ripete questo concetto senza un commento, senza un moto di sconcerto sui loro volti, io non so più con quali parole poter discutere. E ne ho ancora meno quando sento che si vuole armare i “coloni” israeliani…per difendersi o dare la caccia al palestinese? Sono vecchio, la mia memoria è lucidamente vecchia e vecchio è il mio modo di ascoltare e di reagire a ciò che ascolto.
Mi indigno solitariamente, quando chi dispone dei mezzi di informazione dimentica lo Statuto della Corte Penale Internazionale che recita: «Per sterminio si intende… sottoporre intenzionalmente le persone a condizioni di vita dirette a cagionare la distruzione di parte della popolazione, quali impedire l’accesso a vitto e alle medicine». Allibisco quando sostituiscono i diritti umani con la “ragione della vendetta”, facendo di questo concetto la nuova cultura del diritto internazionale. Trovo impossibile che non vengano i brividi a chi ripete tranquillamente in Tv, il concetto: …sono animali.
Animali? Lo stesso concetto usato dai “coloni” americani mentre sterminavano i nativi di un continente, lo stesso usato in America latina o dagli stati schiavisti verso gli africani, lo stesso usato dai nazisti per sterminare 6 milioni di ebrei….Sono animali. Sono vecchio e stanco, vedo il mondo sgretolarsi e ho perso i termini politici per rispondere a questa indifferenza epocale. Devo ricorrere a parole che non mi sono usuali, che stanno nella sfera dei sentimenti umani: La Pietà. Si! Chiedo la pietà per 3 milioni di palestinesi di Gaza, di cui 900 mila bambini. Pietà per evitare e fermare il massacro annunciato. Perché questo è il problema, rimosso da tutti, il solo grande e immediato problema: Lo sterminio di Gaza. E la pietà? É’ il solo sentimento di cui forse disponiamo ancora…la solidarietà, la diplomazia, la ragione…ormai temo le abbiamo perdute».
Emilio Molinari perde la speranza, quella che il poeta diceva essere ultima ad abbandonare i sepolcri, sui quali questa settimana siamo andati a pregare nella lingua di ogni credo! La Speranza c’è dove esiste la pietà, la pietas dei latini, la compassione, «dal latino tardo compassioonis, derivato di compăti «compatire», per calco del gr. Συμπάϑεια. Sentimento di pietà verso chi è infelice, verso i suoi dolori, le sue disgrazie, i suoi difetti; partecipazione alle sofferenze altrui».

Come riuscire a trattenere, praticare la Speranza quando si viene a sapere che una ragazzina, perché tale si è a sedici anni, muore in un letto di ospedale in Iran, dopo essere stata in coma per un lungo mese, colpita a morte dalla polizia per noi “immorale” di quel paese che invece guarda alla guerra degli altri mentre compie eccidi interni? Come possiamo avere e riuscire a vedere la speranza quando sappiamo che da oltre tre decenni continuano gli scontri tra gruppi armati nel Congo orientale ed in questa situazione di grande instabilità e violenza, «le donne rifugiate sono vulnerabili alla violenza di uomini armati» cosa che risulta una costante in tutti i conflitti. Secondo l’Associated Press circa 1.500 donne in tre campi profughi sono state curate a seguito di violenza sessuale. Come sottolineato anche dall’Onu, la violenza di genere non è un effetto collaterale nell’ambito dei conflitti armati, ma una vera e propria strategia di guerra, che peraltro non colpisce solo le donne, ma anche gli uomini» (Labodif).
La sofferenza delle donne in ogni parte del mondo è palpabile. Dopo la morte di Mahsa Amini del settembre scorso, con tutto il sangue versato per la rivolta di tutti e tutte per questa violenza, dopo la morte della giovanissima Armita Garawand fino a negare l’ospedalizzazione, e quindi a una facile condanna a morte, dell’attivista Narges Mohammadi, ora in carcere, ma designata per il 2023 Premio Nobel per la Pace.

La pace è sofferta dalle donne. È nato un appello in proposito con riferimento alla Risoluzione Onu 1325/2000 “Donne, Pace e Sicurezza”. L’obiettivo è quello di «creare una massa critica in Italia e in tutti i paesi affinché le persone, i partiti, le associazioni che lo condividono possano farne un’iniziativa che rompa il silenzio attorno alle donne palestinesi e israeliane, percepite solo come vittime di guerra, che invece hanno dimostrato di poter essere protagoniste di un percorso di pace e di vita contro la sopraffazione, la distruzione e la morte: «Sgomente per la guerra in Palestina e Israele non possiamo non sottolineare come ancora una volta si tratta di una guerra degli uomini, voluta e portata avanti dagli uomini – è scritto — Le donne, sia israeliane che palestinesi, dalle Donne in nero alle marce di Women Wage Peace ( WWP) e Women of the Sun (WOS), che da decenni chiedono di partecipare alle decisioni per i due popoli, non vengono prese in considerazione. Mentre le donne elaboravano strategie ed obiettivi per dare uguale dignità, libertà e democrazia ai due popoli, il popolo palestinese ha continuato ad essere emarginato, derubato di case e terre, costretto ad occuparsi giornalmente della sopravvivenza. Il pensiero, le elaborazioni, le strategie ed il percorso verso la pace sono stati ignorati, malgrado fossero chiesti a gran voce da un gran numero di associazioni israeliane e palestinesi di donne, queste peraltro non hanno ricevuto né aiuto né grande eco dalla Sinistra europea e internazionale…E’ indispensabile la presenza delle donne fra coloro che decidono, per raggiungere una immediata interruzione della guerra e per pensare ed attuare soluzioni giuste per i due popoli perché possano vivere finalmente in pace e sviluppare cultura e vita secondo i propri desideri».

Parliamo ancora di donne, di donne che hanno sofferto e che soffrono, a cui la poesia porta, ci porta consolazione.
Ho incontrato, attraverso un’amica, ancora una volta, una poeta importante dai cui versi si coglie l’essenza di chi, guardando, sente la sofferenza del mondo. Si chiamava Alfonsina Storni Martignoni ed era nata il 29 maggio 1892 a Sala Capriasca in Svizzera, nel Canton Ticino. Ma visse in Argentina, in tutte le difficoltà economiche dei genitori lì emigrati. Il mare e la morte sembrano per lei un presagio. Poco prima di suicidarsi, in mare, il 25 ottobre del 1938, ottantacinque anni fa, la grande poetessa spedì un’ultima poesia al giornale argentino La Nación. La poesia s’intitola Vado a dormire:

Denti di fiori, cuffia di rugiada,
mani di erba, tu, dolce balia,
tienimi pronte le lenzuola terrose
e la coperta di muschio cardato.
Vado a dormire, mia nutrice, mettimi giù.
Mettimi una luce al capo del letto
una costellazione; quella che ti piace;
tutte van bene; abbassala un pochino.
Lasciami sola: ascolta erompere i germogli…
un piede celeste ti culla dall’alto
e un passero ti traccia un percorso
perché dimentichi… Grazie.
Ah, un incarico
se lui chiama di nuovo per telefono
digli che non insista, che sono uscita…

«Dovremmo definirci le fuori-posto. Stiamo come fuori dal centro. Non ci inseriamo come si deve in nessun ambiente. Alcuni ci stanno stretti, altri larghi».
(Alfonsina Storni)

Buona lettura a tutte e a tutti.
Ci sono tante donne, in quest’epoca di guerre e vendette senza fine su popolazioni inermi, che chiedono pace. Lo fanno insieme a tanti israeliani e israeliane che «in Israele si contrappongono alla politica folle del loro governo e alle sue ideologie suprematiste», a tanti ebrei ed ebree «che ovunque nel mondo manifestano in nome di una pace giusta», a tante persone, ovunque, nel mondo, che hanno creduto alle parole delle loro Costituzioni e delle Dichiarazioni e Convenzioni internazionali sui diritti umani. Ce lo ricorda l’autrice di Mai più? con cui apriamo la rassegna degli articoli di questo numero. Questa settimana sono tante le figure femminili da scoprire: le due protagoniste della serie Calendaria 2023, Frances Hamilton Arnold. Nobel per la Chimica e Donna Theo Strickland, Nobel per la fisica, entrambe premiate nel 2018. Per “Credito alle donne” leggeremo di Ngozi Okonjo-Iweala, una storia di impegno e determinazione e del suo affascinante percorso politico che l’ha portata a capo della Wto (World Trade Organisation). Passando dal campo della politica e dell’economia a quello dell’arte incontreremo le Pittrici finlandesi in Italia tra ‘800 e ‘900, un gruppo di artiste emancipate, anche grazie al fatto che, a conferma di quanto i diritti siano importanti, «la Finlandia fin dal 1864 aveva riconosciuto alle donne nubili superiori ai ventuno anni la facoltà di gestire il proprio patrimonio e l’autonomia giuridica a chi aveva superato i venticinque». Spaziando dall’arte alla teologia potremo apprezzare la bella intervista a Isabella Guanzini, filosofa e teologa, Dio è (anche) donna, madre nutrice, in cui potremo anche avvicinarci ai due suoi ultimi libri, che indagano sui mali del nostro tempo e suggeriscono «le pratiche della tenerezza come una forma politica di protesta nei confronti della pietrificazione delle relazioni» e invitano «non solo a fare, a produrre, ma a darsi tempo per dare senso, per riflettere».
Una figura tutta da scoprire è poi quella descritta nell’approfondimento su La correttrice. L’editor segreta di Alessandro Manzoni, che recensisce il libro di Emanuela Fontana dedicato a Emilia Luti, la giovane consulente grazie alla quale l’autore dei Promessi Sposi riuscì a «risciacquare i panni in Arno».
L’altra bella recensione di questo numero è i Vendette, misteri, passioni nella Barbagia di Niffoi che ci introduce nelle vicende intricate del libro Nate sotto una cattiva luna.
Come sa chi ci legge, la nostra rivista è da sempre attenta al tema del linguaggio. Questa volta lo affrontiamo da un angolo visuale particolare, con Riflessioni sul bilinguismo infantile, un articolo ricco di interessanti spunti di riflessione.
La puntata del podcast di RadioTre Lonely planet, Myanmar swing con Carla Vitantonio è dedicata al Paese che un tempo chiamavamo Birmania, il Paese di Aung San Suu Kyi, oggi purtroppo governato da un regime militare liberticida, amico della Corea del Nord.
Continuano le relazioni del Corso “Genere, diversità, violenza”, organizzato dalla Società Italiana delle Storiche con l’articolo che questa settimana si occupa di Corpi e sessualità nella storia.

Passiamo al tema dell’alimentazione, cui questo numero dedica due articoli: Salame di cioccolato vegano: una delizia per spirito e palato e Il Salone della Responsabilità Sociale d’Impresa contro lo spreco alimentare, il racconto in prima persona della blogger che da sempre si occupa di questa questione e che ha partecipato per noi al Salone dell’innovazione e della Csr.

Chiudiamo con L’Ottobre di Toponomastica femminile, che riporta fedelmente tutte le iniziative della nostra associazione, accompagnandole con la poesia preziosa di Wisława Szymborska.
SM

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Articolo di Giusi Sammartino

Laureata in Lingua e letteratura russa, ha insegnato nei licei romani. Collabora con Synergasia onlus, per interpretariato e mediazione linguistica. Come giornalista ha scritto su La Repubblica e su Il Messaggero. Ha scritto L’interpretazione del dolore. Storie di rifugiati e di interpretiSiamo qui. Storie e successi di donne migranti e curato il numero monografico di “Affari Sociali Internazionali” su I nuovi scenari socio-linguistici in Italia.

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