Ogni donna che da bambina o ragazza ha deciso di varcare la porta di una palestra ha quasi sicuramente una storia da raccontare. Storie di soggetti imprevisti, di persone che non erano pensate per certi luoghi ma che li hanno coraggiosamente attraversati portandoci qualcosa di nuovo: un nuovo immaginario, una nuova postura, nuove possibilità spesso non solo per sé stesse ma per tutte le atlete. Varcare quella porta non è facile per nessuna bambina soprattutto se la palestra è pensata per sport maschili come calcio, rugby, pugilato o basket. Ma la faccenda si complica ancora di più se quella ragazza indossa o vorrebbe indossare un velo sulla testa come ci racconta Giorgia Bernardini nel suo libro Velata (Alessandria, Capovolte, 2022). Inserire la variabile della religione nel discorso sulle donne, lo sport e i loro corpi rende questo scritto importante e unico, almeno per quanto riguarda la produzione in lingua italiana. Il saggio, infatti, è un interessante viaggio nelle vite e nelle esperienze di quattro atlete «musulmane appartenenti a diverse tradizioni culturali e a diverse scuole di interpretazione religiosa afferenti a contesti diversi». Bernardini ci conduce alla scoperta delle vite e delle esperienze di Ramla Ali e Hasnaa Boyij, pugili, Khalida Popal, calciatrice, e Asma Elbadawi, cestista. La ricerca ci permette di scoprire le sfide che le atlete affrontano in contesti sportivi diversi, in cui ancora persiste una «body culture» che richiede corpi muscolosi, definiti, ma soprattutto li esige esposti, in bella mostra e in cui l’uso dell’hijab è vietato dalla maggior parte delle federazioni.
La decisione dichiarata dell’autrice – spinta ad approfondire questo tema da un’esperienza personale di frequentazione con una persona musulmana che ha suscitato in lei numerosi quesiti – è quella di riconoscere la sua condizione di esterna. A muoverla, infatti, è un desiderio di conoscenza che sappia intavolare un dibattito e aprire il campo a numerose domande inesplorate piuttosto che a soluzioni. «Mi è stato insegnato che un buon testo fa scaturire più domande di quante risposte è in grado di mettere a disposizione» dichiara Bernardini nelle ultime righe dell’introduzione. Il riconoscimento della propria posizione di «donna bianca cresciuta in un paese cristiano» è un aspetto peculiare del libro in cui risuona un concetto caro all’epistemologia femminista ovvero quello dello sguardo situato. In quest’ottica, il posizionamento soggettivo diventa un punto di partenza analitico che rifiuta l’idea del sapere come il prodotto dello sguardo di un soggetto universale oggettivo e neutrale. La scrittrice, con la sua scelta, sembra ricordarci che è importante riconoscere chi siamo e da che punto del mondo osserviamo le dinamiche di cui si sta parlando.
Ma che cosa ci mostra, attraverso il suo sguardo su queste atlete? In primo luogo, la pluralità dei vissuti delle atlete musulmane che emerge dalla ricerca ci aiuta a scardinare un concetto che informa troppo spesso la discussione sull’hijab in Occidente, ovvero l’idea che indossarlo sia sempre un’imposizione, un segno di sottomissione come ci spiega molto bene Bernardini in queste righe: «allontanarsi da una visione colonialista significa invece mettere in discussione che il punto di vista occidentale è il centro del focus e necessita di un passo avanti di tipo cognitivo non sempre facile da compiere: abbandonare il punto di vista secondo cui indossare l’hijab sia un’imposizione e imparare a ragionare sul fatto che possa essere una scelta compiuta attivamente per una serie di motivi. E magari è necessario per una volta riflettere che per una donna musulmana che vive in Inghilterra, in Germania, in Danimarca o in Belgio indossare l’hijab è una scelta femminista nel senso che, in un contesto in cui si può scegliere di non farlo, decidere di farlo è una forma molto chiara di affermazione della propria identità». Ciò che emerge dall’approccio delle atlete all’hijab è quindi «un polimero di scelte che non dà mai un risultato uguale di donna in donna, di atleta in atleta». C’è chi piuttosto che rinunciarvi smette di praticare sport, chi invece decide di toglierlo e chi per ora non lo porta ma dichiara «alla fine vorrei un giorno mettermi il velo, quello sì! È una cosa a cui tengo». Ciò che capiamo in maniera inequivocabile è che le esperienze di vita delle atlete in generale ma anche rispetto all’utilizzo o meno dell’hijab non sono mai solo il frutto di scelte religiose o il metro di misura della loro fede bensì – come ci spiega Sumaya Abdel Qader nella prefazione – l’intreccio di tantissimi fattori «anche in contraddizione tra loro» come «le dinamiche di potere – economico e politico – le tradizioni culturali e sociali più conservatrici o più progressiste, contesti di pace o di guerra e interpretazione della religione influenzate da modelli culturali più o meno patriarcali preesistenti». Nessuna delle scelte descritte nel libro si verifica in un vuoto culturale, guardare al contesto in cui queste avvengono, quindi, aiuta a capirne le complessità e allo stesso tempo a lottare contro ciò che spesso le impone come il razzismo e l’islamofobia.
Un altro aspetto che ci mostra molto bene Bernardini è il tema dell’accesso allo sport delle donne musulmane, le quali si trovano di solito schiacciate tra federazioni che, in netto contrasto con l’articolo 8 della Carta Olimpica, negano il diritto di portare il velo durante le competizioni, una mancanza di modelli a cui ambire e una cultura che spesso le considera rispettabili solo se in grado di seguire i criteri di modestia sia nei comportamenti che nell’abbigliamento. Ciò che si fa sempre più chiaro, quindi, è che la lotta femminista nello sport se vuole essere davvero intersezionale passa anche dalla lotta per l’accesso allo sport delle donne che portano il velo. In un passaggio interessante del libro, Bernardini parla di Ibitihaj Muhammad, la prima schermitrice musulmana ad aver partecipato alle Olimpiadi. Lei racconta che aveva scelto proprio la scherma come sport perché lì nessuno poteva vedere che portava il velo.
Quante ragazze e bambine musulmane sono ancora limitate nel loro avvicinamento a una pratica sportiva? Cosa possono fare le federazioni per migliorare la situazione? Secondo l’autrice, infatti, «consentire l’uso dell’hijab è molto di più che consentire il solo uso dell’hijab. Dietro a questa possibilità si nascondono altri fattori: accesso, possibilità, presenza, role modeling».
La lettura di Velata si rende più che mai necessaria per tutte le persone che vogliono scardinare stereotipi e convinzioni errate rispetto alla religione musulmana e alle pratiche di autodeterminazione che non seguano i percorsi già tracciati da modelli bianchi, occidentali e laici.

Giorgia Bernardini
Velata. Hijab, sport e autodeterminazione
Capovolte, Alessandria, 2022
pp. 143
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Articolo di Camilla Valerio

Di Bolzano, ma vivo a Salerno. Gioco a basket. La mia tesi è ora un libro: The Normalization of Far-right Populism. Narratives on Migration by the Italian Minister of the Interior between 2017 and 2018. Collaboro con diverse testate e mi interesso di femminismo e sport. Combatto il patriarcato con il collettivo Lisistrata e frequento il Master in Studi e politiche di genere all’Università di Roma Tre.
