Chiunque insegni si è sentito porre, almeno una volta, questa domanda: «Ma le donne non hanno mai fatto niente? Non ci sono donne scrittrici, filosofe o altro?»
Queste domande rivolte con ingenuità da bambine e bambini danno la misura della cancellazione che si è operata sulle tracce lasciate dalle donne nei secoli. Le opere che sono state realizzate, nonostante tutto, da autrici, pittrici, musiciste, sono state cancellate e sottratte al processo di memorizzazione, ma ancor prima è stata negata alla gran parte delle donne la possibilità stessa di accede ai contesti e alle condizioni indispensabili alla realizzazione di un prodotto che potesse aspirare a un riconoscimento duraturo.
Il canone letterario che viene tramandato riflette queste due modalità di esclusione. I testi che consideriamo letteratura sono il prodotto di una selezione che nei secoli ha indicato modelli e maestri abbandonando all’irrilevanza e alla dimenticanza moltissimi prodotti, alcuni dei quali sono anche stati recuperati con il variare del canone. I manuali di letteratura in uso nelle scuole hanno ulteriormente irrigidito e sclerotizzato l’elenco degli autori considerati classici, riducendo spesso interi secoli a “trittici” di grandi maestri. Questo processo ha costantemente penalizzato la scrittura delle donne, minoritaria e spesso considerata di maniera.
Effettivamente la produzione letteraria femminile che è giunta fino a noi risponde, per gran parte, al modello imposto dal canone del tempo. Ciò non impedisce allo sguardo femminile di emergere dalle regole di scuola e di offrire testimonianza di una sensibilità diversa da quella maschile. Anche quando le autrici sono allieve ed emule di grandi maestri, quasi sempre uomini che, al contrario delle loro mogli, figlie e sorelle, hanno avuto a disposizione tutti gli strumenti necessari a far fiorire la loro genialità, anche in questo caso l’universo di esperienze e di sentimenti di cui le donne sono portatrici gode di una propria originalità, non può essere ridotto alla pura imitazione.
Invece la dimensione univoca che la produzione letteraria ha assunto nei secoli, e che non ha escluso solo le donne, ha costruito gerarchie sociali ed etniche ed ha imposto un orizzonte ben saldo al pensiero e all’immaginazione, tracciando i contorni entro i quali andava ordinata la realtà e andavano interpretati i reciproci ruoli. È per questo che il canone assume una funzione di riduzione della complessità del mondo e delle istanze dei tanti soggetti che nel mondo operano, imponendo una lettura che, a poco a poco, si dà non solo come primaria, ma come unica, esclusiva, tale da impedire anche la possibilità di una alternativa credibile.
Riflettere sul canone è stato ed è necessario, prima di tutto per svelare l’inganno di fondo che definisce naturale, e quindi al di fuori di ogni possibilità di critica e di cambiamento, ciò che invece è solo prodotto di una scelta culturale e di una gestione del potere. È facile comprendere quale immagine del mondo e dei rapporti tra le persone e tra i generi comunica, soprattutto ai/alle giovani, una educazione letteraria che per secoli ha tramandato un solo modello di interpretazione della realtà, riconoscendo come esclusivi depositari di quel sapere gli uomini, per legge naturale, e ponendo ai margini, condannate all’oblio o a essere considerate semplici dilettanti, le poche donne che in modo fortuito, contro ogni buona regola sociale, avevano avuto accesso alla cultura.
Il canone maschile ha imposto le proprie leggi anche in tempi più vicini a noi, quando ormai la maggiore richiesta di autonomia da parte delle donne, la loro progressiva alfabetizzazione, la possibilità a esse riconosciuta di accedere alle professioni, l’ampliamento del pubblico interessato alla letteratura ha visto il fiorire di una produzione femminile di grande qualità e l’imporsi di personalità di primissimo piano: ne è testimonianza il feroce dibattito scatenato nel 1974 dall’uscita del romanzo di Elsa Morante La Storia. Nei mesi successivi alla pubblicazione del romanzo morantiano si scatenò una vera e propria gazzarra tra i sostenitori del valore letterario dell’opera, che viene accostata ai capolavori di Tolstoj, Dostoevskij e Pasternak, e i suoi detrattori che accusano Morante di essere patetica, rinunciataria, di avere una visione semplicistica e un linguaggio esorbitante e poco controllato. Gran parte di coloro che si scagliano contro Morante provano fastidio proprio per quei tratti che oggi, in un contesto storico e critico diverso, sono stati rivalutati e che fanno di questa autrice una delle voci più significative del Novecento italiano: la capacità di narrare che mescola generi e stili diversi, ignorando i diktat della critica letteraria d’avanguardia; il linguaggio facile con coloriture dialettali; il desiderio di rappresentare il dolore, i sentimenti, senza paura di commuovere, coinvolgendo chi legge, confrontandosi con il dramma; il coraggio di scrivere un romanzo popolare di qualità. Il romanzo vuole denunciare l’orrore della storia, di uno “scandalo che dura da 10.000 anni”, (uno scandalo, cioè qualcosa che dovrebbe turbare profondamente la coscienza) e lo fa raccontando le vicende di una donna e di un bambino che si muovono nella Roma travolta dalla miseria, dai bombardamenti e dai rastrellamenti del secondo conflitto mondiale, e che sono vittime, come milioni di altri e altre, della logica inumana del potere.
Questa denuncia sincera e accorata che, libera da facili ideologie progressiste, mette in guardia da una ingenua fiducia nel “sol dell’avvenire”, e riporta al senso primo dell’esistenza e al rispetto della vita, venne letta da molti come una semplificazione, una visione naive, priva di dialettica. Pochissimi si avvidero che il romanzo era il prodotto anche della appassionata frequentazione morantiana dell’opera di Simone Weil, pensatrice difficile, provocatoria, e che intendeva superare di un balzo le polemiche ideologiche degli anni ‘70 e porre domande essenziali su di un potere che distrugge vite impunemente.
Leggere oggi molti degli interventi che si sono succeduti sulle più importanti testate italiane a firma di intellettuali di sicuro valore è un’esperienza rivelatrice: con il senno di poi certe prese di posizione denunciano la loro matrice ideologica, l’incapacità di superare steccati e pregiudizi, la certezza di avere la verità in mano, l’atteggiamento elitario. Ed è singolare che le accuse a Morante richiamino spesso i “difetti delle donne”: la lacrima facile, il patetismo, i diminutivi e i vezzeggiativi, la presenza di cani, bambini e uccellini, una affabulazione eccessiva, priva di senso della misura. Alcuni critici a tal punto sono sordi nei confronti del coraggioso tentativo morantiano di superare gli steccati, parlando una lingua unica, originale, che accusano l’autrice di imitare Pasolini, Moravia e di riproporre un neorealismo ormai superato; accuse queste che al lettore di oggi paiono veramente poco fondate. Evidentemente è sempre difficile liberarsi degli schemi e dei paradigmi conosciuti.
Nel pieno della polemica venne tirata in ballo l’esistenza privata della scrittrice, il matrimonio con Moravia, il carattere duro, i silenzi, il suo isolamento; anche in questo caso si può forse intravedere una inconsapevole misoginia. L’esempio della Storia fa ben capire che la svalutazione (perfino di un romanzo che vende 100.000 copie) nasce spesso dai pregiudizi e dall’ossequio al pensiero dominante, fondamentalmente dalla incapacità di allontanarsi dalle proprie certezze per accogliere uno sguardo nuovo.
Fortunatamente però da quando la riflessione sul canone ha preso piede, sono stati illuminati spazi precedentemente ignorati attraverso un lavoro di scavo che ha ormai più di vent’anni e che ha consentito, anche a volersi concentrare solo sul nostro paese, di portare alla luce molti nomi e molte opere. Basterà citare autrici come Goliarda Sapienza, Paola Masino, o personalità ormai riconosciute dalla critica come Anna Banti, Natalia Ginsburg, Anna Maria Ortese o, appunto, Elsa Morante. Questi risultati sono stati ottenuti con un impegno collettivo di vasta portata di cui ricorderò solo pochi contributi, primi tra i quali il lavoro della Società italiana delle storiche (Sis) e della Società italiana delle letterate (Sil).
Dall’uscita del volume Oltrecanone curato nel 2003 da Anna Maria Crispino e ripubblicato da Iacobelli nel 2014, vi è stato un progressivo approfondirsi di ricerche e di scoperte, che hanno ampliato lo spazio letterario occupato dalle voci femminili, grazie anche a giovani scrittrici come Nadia Terranova e Giulia Caminito, di cui ricordiamo l’e-book Donne esemplari. Voci dal 900 letterario, o ancora grazie alle animatrici del festival InQuiete, impegnate a scoprire o rileggere opere passate sotto silenzio e a creare occasioni di dialogo.
È stato dato alle stampe nel ‘22 per i tipi di Einaudi, un prezioso volumetto di Daniela Brogi, Lo spazio delle donne, che con chiarezza ed equilibrio fa il punto sulle ingiustizie del passato ma anche sulle contraddizioni del presente.
Un bel numero di Leggendaria (febbraio-marzo 2022) dedicato proprio al superamento del canone maschile, ricorda l’importante lavoro operato dalla Società italiana delle letterate per costruire una “cartografia femminista”, il proliferare di piccole case editrici dedicate alla scrittura delle donne, come Elliot, Cliquot, Iacobelli o la collana Le mosche d’oro per l’editore Giulio Perrone, o ancora la presenza di archivi interessati alla raccolta e conservazione di testi di scritture femminili di vario genere, in grado dunque di aiutare nella ricostruzione di voci e saperi esclusi dalla memoria ufficiale.
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Articolo di Tiziana Concina

Ho insegnato per molti anni italiano e storia negli istituti tecnici e italiano e latino nei licei, mi interesso di letteratura femminile italiana e straniera, in particolare mi sono occupata di Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Attualmente rivesto la carica di vicesindaca e di assessora alla cultura in un comune in provincia di Rieti.
