Il penultimo incontro del corso Genere e diversità all’origine di violenze e discriminazioni del progetto La storia siamo noi della Sis si intitola Razzismo e discriminazione di genere in colonia ed è presentato dal professor Gianluca Gabrielli e dalla professoressa Barbara Sorgoni.
Gianluca Gabrielli è insegnante alla scuola primaria e si occupa di storia dell’educazione, di razzismo e di colonialismo italiano, ed è redattore di novecento.org, sito dedicato alla didattica della storia. Gabrielli introduce la lezione con un excursus della storia coloniale italiana, un’esperienza più breve rispetto a quella di altri paesi europei ma non per questo meno grave e significativa. La nostra “avventura” coloniale inizia subito dopo l’unificazione e coincide con la costruzione dell’immagine dell’italianità, in un periodo in cui le altre grandi potenze si erano già spartite il continente africano dopo la Conferenza di Berlino del 1884. Tra i pochi lembi di terra rimasti intoccati c’è il Corno d’Africa ed è qui che l’Italia arriva nel 1885, sulle coste dell’Eritrea. Il tentativo di penetrare nell’entroterra ha termine con la disfatta di Dogali del 1887, un disastro che ebbe una forte influenza sul dibattito pubblico nella penisola che si divide tra anticolonialisti e pro-colonialisti. Nel 1896 ad Adua gli italiani sono sconfitti duramente una seconda volta, una battaglia che i popoli africani considerano la prima vera vittoria contro gli europei. Nel nuovo secolo l’Italia è presente in Cina durante la rivolta dei boxer, e dal 1911 attracca sulle coste della Libia a seguito della vittoria contro l’Impero Ottomano. Qualunque campagna per la conquista dell’entroterra si arresta con la Grande guerra; negli anni Venti i conflitti con le popolazioni nomadi libiche vengono risolti con deportazioni di massa in campi di concentramento. Questa è l’eredità che coglie il fascismo dopo il suo avvento, che tuttavia non si avventurerà in ulteriori espansioni fino alla guerra d’Etiopia tra il 1935 e il 1936. Una conquista che rimane sostanzialmente incompiuta ma che coinvolge un gran numero di soldati e una grande campagna propagandistica. Avviene qui un cambiamento nel razzismo verso i popoli africani: oltre a quello intrinseco del colonialismo, viene imposta una forte separazione non solo tra le comunità locali e i colonizzatori ma anche tra i generei e le classi. A tal proposito sono emanate in rapida successione tre leggi significative: nel 1937 sono vietate le unioni miste, nel 1939 entrano in vigore le leggi razziali e nel 1940 ne sono promulgate contro i “meticci”, i figli e le figlie nate da unioni miste considerate dal regime un vero e proprio atto di tradimento nei confronti della razza. Qualunque altro piano viene interrotto dalla Seconda guerra mondale, al seguito della quale l’Italia perde tutte le sue colonie a eccezione di un protettorato sulla Somalia, che dura fino al 1960.

Prosegue poi Barbara Sorgoni, antropologa culturale e docente presso l’Università di Torino e si occupa di relazioni sessuali interrazziali in Eritrea e del fenomeno delle migrazioni forzate. I dati che abbiamo sulla popolazione in Eritrea durante questo periodo mostrano che per lungo tempo ci fu un grosso sbilanciamento tra uomini e donne italiane giunte nelle colonie, un rapporto di 5:1 che rese qualunque progetto di popolamento demografico un fiasco. Questa sproporzione porta molti italiani a rivolgere la loro attenzione alle donne locali. Che considerazione avessero di loro è ben espressa dal generale Baratieri, autore della disfatta di Dogali, che nel suo diario le descrive come dotate di una sensualità innata, accostandole ad animali come serpenti, gatti e gazzelle. L’esploratore Gustavo Bianchi racconta nelle sue memorie un episodio di poco antecedente gli eventi di Dogali, che lo vede protagonista: fingendosi un medico stupra una giovane sposa eritrea, evento da lui raccontato come una mera vicenda erotica. Questo far passare le violenze sessuali come atti eroici, parte di mirabolanti avventure, non è raro: il pubblico legge avidamente questi resoconti di esploratori in Africa specie quando le donne sono coinvolte, alimentando stereotipi e razzismo. Più l’Italia si afferma nelle sue colonie più da questi luoghi provengono pseudo informazioni e storie costruite a tavolino il cui intento non è l’accuratezza, ma aiutare la propaganda a nascondere i fallimenti di un esercito impreparato.

Andare in Africa diventa una questione di prestigio presso le altre potenze essendo l’Italia l’ultima arrivata, Paese appena nato che non ha ancora una sua identità nazionale: l’idea di Africa – “icona Africa” – diventa parte integrante del processo di costruzione del senso di italianità contrapposto a un Altro che deve rimanere estraneo al corpo della nazione. Tuttavia, in Eritrea vivono popolazioni con caratteristiche comuni ai colonizzatori, come l’essere cristiani. Il processo di razzializzazione della differenza incontra quindi un paradosso: questo Altro che deve fare da contrapposizione all’italianità ha delle incredibili somiglianze con la stessa. Questo porta alla decisione di non attuare alcuna politica di assimilazione: i colonizzatori sono cittadini italiani, i popoli d’Eritrea sono sudditi a cui si riconosce un certo livello di civilizzazione e verso cui è inevitabile sentire una certa affinità. Come sappiamo la specie umana non è abbastanza geneticamente diversificata per poter giustificare una divisione in razze della nostra specie; tuttavia, i diversi gruppi umani possono esser razzializzati, cioè si può costruire tra loro una differenza che diventa razziale a prescindere dalle somiglianze. È questo meccanismo che porta i legislatori a mantenere il più separati possibile colonizzatori-cittadini e colonizzati-sudditi.

Dal punto di vista delle relazioni sessuali, la letteratura e la propaganda fino all’aggressione dell’Etiopia descrivono le donne africane come attraenti e disponibili. Le donne bianche sono a lungo escluse dal processo di invasione; complice il paradosso della somiglianza precedentemente descritto, ciò rende le relazioni tra i colonizzatori e le donne locali molto complesse: oltre allo stupro, fenomeno tristemente assai diffuso e condonato soprattutto durante i periodi di guerra, sono molto in voga i legami di “indole coniugale” o madamato, ossia una relazione legalizzata che nelle intenzioni dei colonizzatori dovrebbe replicare il demoz, una forma di unione diffusa tra le popolazioni tigrine, che vincola temporaneamente uomini e donne, e prevede delle specifiche tutele sia per la donna che per la prole che sarebbe nata da quel legame. Ovviamente, il madamato non ha nulla di tutto questo, è più semplicemente una forma di concubinaggio che spesso lascia le locali in miseria una volta terminato il rapporto. Non è affatto raro che i coloni italiani abbiano una moglie in patria e una concubina in Africa, sono spesso fieri di queste relazioni e le mostrano con orgoglio tramite foto che fanno recapitare alle loro famiglie. Da notare che il matrimonio misto non è vietato: è una conscia decisione di questi uomini quella di prendere le donne locali come amanti e fare con loro anche dei figli o delle figlie senza garantire loro alcuna tutela.

In questi casi i tre assi della classe, della razza e del genere si intersecano: la legge vede come una possibilità che un maschio italiano si unisca a una donna locale, è anzi un fenomeno incoraggiato perché afferma la superiorità del suo sesso e della sua razza; il caso opposto, quello di un uomo locale e di una donna italiana, divide l’opinione giuridica: per alcuni è semplicemente inammissibile che una donna bianca si unisca a un suddito, sarebbe da considerare un tradimento verso la propria razza; per altri, se il suddito si è particolarmente distinto e la donna non appartiene alle classi altolocate, sta al re valutare caso per caso se concedere la licenza per il matrimonio. Se ciò accade, la donna bianca sposata assume una autorità coniugale pari a quella di un uomo nella relazione. Le leggi razziali cambiano tutto: con le leggi del 1937 e del 1938 non è più possibile ammettere alcuna relazione tra cittadine/i e suddite/i, pena punizioni severe. L’obiettivo è impedire la nascita di ulteriori “meticci”, figli e figlie di coppie miste che possono potenzialmente accedere alla cittadinanza italiana quando riconosciuti dal padre e far così crollare le basi della distinzione razziale su cui si fonda il colonialismo fascista.

Riprende la parola il professor Gabrielli. Come si possono insegnare queste tematiche a scuola? Specie oggi, che c’è un clima ostile al loro insegnamento?
Un buon punto di partenza è l’analisi delle immagini che circolano all’epoca, e oggi reperibili sia su internet, sia negli archivi dei giornali, sia acquistabili su siti come Ebay. Da esse emerge una fortissima oggettificazione e sessualizzazione delle donne africane, mostrate ai soldati come premio per il loro coinvolgimento nello sforzo coloniale; una tendenza che culmina con la canzone Faccetta nera, che narra di come il “prode” soldato italiano stia andando a “salvare” la bella abissina e a “civilizzarla”. Durante la guerra d’Etiopia queste caricature razziste raggiungono il loro picco di diffusione: il corpo della donna africana diventa simbolo del continente stesso, un corpo da sottomettere con la violenza. Certo, lo studio di queste immagini pone non pochi problemi di natura etica: spesso sono foto di donne denudate e messe in pose sessuali di cui non si conosce nulla. È quindi necessaria una lunga e accurata lezione introduttiva prima di potersi approcciare alla loro analisi.

Un’altra fonte utilizzabile durante le lezioni sono le sentenze: il fascismo vede le relazioni miste e nel madamato un problema da risolvere con urgenza. Ecco perché la legge punisce l’uomo italiano con la reclusione da 1 a 5 anni per aver tradito la propria razza mischiandosi con una suddita. L’aspetto forse più raccapricciante è che queste sentenze non vanno a colpire gli stupratori, ma solo coloro per cui era possibile comprovare provassero “affetto sincero” verso la donna: quello che si punisce è quindi qualunque forma di umanizzazione, mentre violenze come lo stupro sono perfino incoraggiate, un atto rivendicato dall’uomo fascista come prova della sua superiorità. Lavorare sulle fonti giuridiche è per questo sicuramente un’esperienza straniante: e tuttavia necessaria, per permettere ai ragazzi e alle ragazze di avere una idea chiara di quello che è stato il colonialismo, lasciandole poi libere di esprimere le loro idee e le loro impressioni.
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
