Travel designer: professionista che, partendo da un’idea di viaggio esperienziale, sviluppa la costruzione del viaggio stesso, unendo le competenze della programmatrice turistica con quelle specifiche dell’agente di viaggio. Questo l’affascinante mestiere svolto dalla nuova ospite del podcast di Rai Radio 3 Lovely Planet, Giulia Raciti. La viaggiatrice e blogger condurrà il pubblico alla volta della Tanzania, costruendo un itinerario di circa tre settimane all’insegna di un’intensa esplorazione. Si inizia con l’atterraggio all’aeroporto Kilimangiaro, dal quale, dopo un’ora di macchina, ci si ritroverà ad Arusha. L’appellativo di “capitale del safari” ha reso la città molto turistica, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che ciò comporta. Tuttavia, vale sicuramente la pena dedicare una sosta al Museo di Storia Naturale, particolarmente rilevante per i reperti riguardanti la storia evolutiva. A seconda del tempo a disposizione e degli interessi naturalistici, si sceglierà da qui un percorso di cinque, sette o dieci giorni di safari. Da Arusha si snodano il circuito Sud e il circuito Nord, quest’ultimo il migliore per l’osservazione di un maggior numero di specie animali, nonché il prediletto dalla nostra guida. Ci troviamo in un Paese che ospita sedici Parchi Nazionali, e di conseguenza uno sconfinato repertorio di biodiversità vegetale e animale, elementi che rendono la Tanzania molto appetibile per i cosiddetti safari, ma quanto si sa davvero su questo tipo di viaggio? Giulia Raciti mette subito in chiaro il significato della parola safari, voce swahili derivata dall’arabo safara (“viaggiare”). Scopriamo pure il significato di game drive, ovvero il viaggio su jeep o comunque su mezzo meccanico.
Dopo aver preparato viaggiatrici e viaggiatori, la travel designer dà ufficialmente inizio all’avventura attraverso il circuito Nord. Ci si trova presto all’interno del cosiddetto Parco dei Giganti, ovvero il Parco Nazionale del Tarangire.

Attorno a noi elefanti, baobab, gnu, zebre e antilopi in 2.600 km2 di savana. Qui si possono osservare i flussi migratori delle specie, in particolare nei mesi tra giugno e ottobre, quando la scarsità d’acqua data dalla stagione secca diventa il motore di migliaia di animali diversi. La bellezza inimmaginabile dei baobab, che possono vivere fino a 2000 anni, risiede anche nelle numerose leggende che li riguardano: una di queste narra che l’albero si fosse montato la testa avanzando pretese eccessive al Creatore, e che questi, allora, lo avrebbe piantato a testa in giù, con le radici in alto. Si tratta davvero di giganti, infatti per abbracciarne uno serve una decina di persone! E se per noi rappresentano esclusivamente una meraviglia per gli occhi, per la popolazione animale e umana che ci convive ha una funzione fondamentale. Il baobab accumula infatti migliaia di litri d’acqua nel fusto, in modo che gli elefanti si possano dissetare; i fiori fanno da nutrimento per altre specie, e dai frutti si ricava una bevanda ricca di vitamina C. Dal punto di vista spirituale, questi alberi sono visti come la dimora degli spiriti benigni appartenuti ad antenate e antenati.
È il momento di proseguire il viaggio, questa volta verso un’Area di Conservazione nella quale vive il popolo Maasai; ci troviamo all’interno della caldera più grande al mondo: il cratere del Ngorongoro. L’area è stata dichiarata Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’Unesco nel 1978, ed è un luogo significativo per la protezione della fauna africana, preservata a partire dagli anni Cinquanta dalle aggressioni dei cacciatori bianchi. Il cratere, casa di moltissimi mammiferi e uccelli, ha circa 2,5 milioni di anni e 19 km di diametro. Al centro si trova il lago Magadi, quasi prosciugato durante la stagione secca, e uno dei pochissimi posti in cui è possibile avvistare il rinoceronte nero, esemplare rarissimo. La presenza umana insediativa non è permessa, ad eccezione del popolo Maasai 1 (o Masai), un gruppo nilotico che vive tra Kenya e Tanzania.
Per dare un piccolo assaggio della vita di questa popolazione, che incontreremo nuovamente in un’altra tappa del viaggio, ci affidiamo alle parole della nostra guida, che ha passato molto tempo nei villaggi e ne ha sempre scritto sul suo blog (https://www.viaggiare-low-cost.it/ ): «Nonostante le attuali sfide con cui hanno a che fare, dal cambiamento climatico all’arrivo delle tecnologie, i Maasai, che pare siano circa 2 milioni, continuano ad abbracciare e ad incarnare lo stile di vita semi-nomade che si tramanda da generazioni. Hanno la reputazione di feroci guerrieri ma in verità la loro vita ruota attorno al bestiame. Una delle loro credenze spirituali infatti racconta che il loro dio, Enkai, abbia creato il bestiame per i Maasai e che quindi tutto il bestiame sulla terra appartenga a loro. Questo legame molto stretto con i propri animali, li ha condotti a uno stile di vita nomade che, ancora oggi, segue le stagioni della pioggia, così si muovono costantemente alla ricerca di erba fresca per le proprie bestie che hanno la priorità e richiedono cura ed attenzione».
Passiamo ora al Parco del Serengeti, attraverso cui ogni anno milioni di gnu, zebre e gazzelle percorrono un circuito migratorio in cerca di acqua ed erba fresca. La grande migrazione avviene sotto forma di corsa, perché ad approfittare del viaggio ci saranno i predatori.

Per apprezzare un altro tipo di fauna –i fenicotteri – ci spingiamo verso il lago Natron, uno specchio d’acqua dal colore rosso causato dall’accumulo di sodio. Siamo in una zona semi-desertica e molto alcalina, perciò priva di predatori e vivibile per le colonie dei grandi uccelli. È ora il turno del lago Manyara, famoso per i leoni che si arrampicano sugli alberi che compongono la folta foresta pluviale del piccolo parco attorno al lago.

Una volta conclusi i giorni di safari, la guida consiglia di spostarsi nella regione di Tanga per conoscere la cultura maasai oltre gli stereotipi e la romanticizzazione della vita dei villaggi. La proposta di Giulia Raciti è quella di incontrare la coppia ideatrice di un progetto di turismo sostenibile e responsabile: Cristina e William, un’italiana e un maasai. La loro appassionante storia personale, che inizia nella savana e vi fa ritorno passando per il Trentino, affascina chiunque si avvicini al loro mondo. Avvertono fin da subito la necessità di creare un progetto turistico che tuteli la popolazione e sostenga l’economia locale, nasce così la prima casetta vicino alle capanne. Si susseguono ospiti su ospiti, e il successo di questa esperienza è testimoniato dalle innumerevoli recensioni positive lasciate sul loro sito: https://maasai-travel.com/dicono-di-noi/. A malincuore salutiamo Tina e Willy (questi i soprannomi dati dalla loro famiglia maasai) per proseguire il nostro viaggio, già ricco di ricordi intensi.
Dopo aver respirato l’aridità della savana e l’umidità della foresta pluviale, dopo aver osservato animali di ogni specie e dimensione, a terra e in cielo, ci concediamo un momento di riposo nelle meravigliose isole. La più attrezzata ed economica – ma molto turistica – è la celebre Zanzibar 2(Unguja), al nord della quale si trova un’altra isola altrettanto affascinante di nome Pemba. L’appellativo Zanzibar viene comunemente utilizzato per indicare Unguja, che costituisce però l’arcipelago di Zanzibar insieme a Pemba. Quest’ultima appare più autentica, meno snaturata perché meno assalita dal turismo di massa. Imperdibile tuttavia, una volta sull’isola maggiore, la visita a Stone Town, con annesso percorso delle vie centrali e acquisto di spezie, così come la scoperta delle colonie di tartarughe. Il centro storico, ricco di preziose strutture architettoniche, è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità e testimonia la ricchezza della cultura swahili, con tutte le sue differenze e articolazioni interne. È questa l’ultima tappa del percorso suggerito, è qui che la nostra travel designer ci congeda.

Un viaggio che ne contiene tanti altri, un’esplosione di colori che finisce simbolicamente nelle spiagge dell’Oceano Indiano e nelle sue acque piene di vita da spiare. Il saluto di Giulia è: «Karibu Tanzania!», che vuol dire «Benvenute in Tanzania!». Allora forse il viaggio comincia adesso.

Per ascoltare la puntata integrale: https://www.raiplaysound.it/audio/2021/12/Lovely-Planet-del-27122021-2d590011-0cf2-4368-8f76-3bea2d90bf9e.html
- I Masai
I Masai (o Maasai) sono un popolo nilotico che vive sugli altopiani intorno al confine fra Kenya e Tanzania. Considerati spesso nomadi o semi-nomadi, sono in realtà tradizionalmente allevatori transumanti e oggi spesso addirittura stanziali (soprattutto in Kenya). La transizione a uno stile di vita stanziale si accompagna a quella dall’allevamento all’agricoltura come fonte primaria di sostentamento; questa trasformazione è evidente nei clan masai kenioti. I masai parlano il “maa”, da cui il nome dell’etnia che è da loro pronunciato maasai. La lingua appartiene al gruppo delle lingue nilo-sahariane ed è dello stesso ramo delle lingue di popoli nilotici quali i pokot, i dinka e i nuer.
I masai raccontano che la loro origine ebbe luogo quando il progenitore di tutti i masai, Mamasinta, risalì il grande burrone. Il riferimento geografico calza bene con la serie di ripide scarpate che separano la valle del lago Turkana, nel nord del Kenya, dagli altopiani centrali del paese. Combinando la tradizione orale con gli indizi linguistici e archeologici, si sa che i masai hanno iniziato la loro migrazione verso sud dalla valle del Nilo verso il XVI secolo. Si trattò di una grande migrazione di popoli nilotici che daranno vita a tutti coloro che ora vivono nel sud del Sudan, in Uganda, in Kenya e in Tanzania.
I masai dividevano il territorio in aree sotto il loro stretto controllo – ogni clan conosceva l’estensione di sua proprietà ed ogni famiglia del clan conosceva perfettamente i terreni loro appartenenti. C’erano anche aree di passaggio e di pascolo libero, usate solitamente in caso di carestia o particolare siccità, e aree condivise con altri gruppi etnici. Con l’arrivo dei colonizzatori inglesi i masai videro il loro territorio drasticamente ridotto in Kenya, mentre in Tanzania, essi persero tutti i terreni più fertili dal Kilimanjaro al monte Meru.
I masai sono monoteisti e credono in Enkai, dio che si rivela con colori diversi a seconda dell’umore. Spesso le donne hanno un ruolo sacrale. In molte famiglie, la donna è la prima ad alzarsi e benedice il recinto della casa ai quattro punti cardinali con acqua posta in una zucchetta e sparsa con un rametto di oseki, un albero sacro. Nonostante ciò, i masai hanno una struttura patriarcale e gli anziani hanno potere decisivo quasi assoluto per quanto riguarda gli affari comunitari. ↩︎ - Zanzibar
Zanzibar è una regione semi-autonoma della Tanzania, geograficamente corrispondente all’arcipelago omonimo, composto da due isole principali, Unguja e Pemba, e numerose isole minori. Zanzibar e la parte continentale della Tanzania (allora chiamata Tanganica) si unirono solo nel 1964, poco tempo dopo la rivoluzione di Zanzibar. In precedenza, Zanzibar era un soggetto politico distinto: prima un sultanato, poi un protettorato britannico e infine, brevemente, una monarchia costituzionale. Il nome Zanzibar (زنگبار) deriva molto probabilmente dal persiano zanj, con cui i persiani indicavano gli africani: zang-i bar significherebbe “terra dei neri”.
Zanzibar, a causa dell’influenza congiunta araba, persiana e bantu, e dell’attività commerciale che lo ha legato al mondo islamico e persino all’India e alla Cina, è uno dei luoghi più rappresentativi della cultura swahili, la cui lingua fu a lungo predominante negli scambi commerciali fra Asia e Africa, e che tuttora svolge il ruolo di lingua franca in gran parte dell’Africa orientale. Il centro storico della capitale di Zanzibar, Stone Town, ricco di testimonianze architettoniche e storiche, è stato dichiarato patrimonio dell’umanità UNESCO. Zanzibar fu anche il mercato principale del commercio di schiavi dell’Africa orientale, nonché di quello delle spezie e ancora oggi una parte significativa della sua economia si basa sulla produzione di chiodi di garofano, noce moscata, cannella, pepe e zenzero.
La maggioranza degli abitanti di Zanzibar è di origine bantu, e il secondo gruppo etnico più rappresentato è quello di origine persiana noto come shirazi. La restante parte della popolazione è principalmente di origine araba o indiana. Questi gruppi etnici non sono comunque distinti in modo netto, poiché i matrimoni interetnici sono tradizionalmente abbastanza comuni. ↩︎
***
Articolo di Emilia Guarneri

Dopo il Liceo classico, si laurea in Lettere presso l’Università degli Studi di Torino. In seguito si trasferisce a Roma per seguire il corso magistrale in Gestione e valorizzazione del territorio presso La Sapienza. Collabora con alcune associazioni tra le quali Libera e Treno della Memoria, appassionandosi ai temi della cittadinanza attiva, del femminismo e dell’educazione alla parità nelle scuole.
