Quando la strada è memoria viva

La scorsa estate, particolarmente calda, mi ha spinta a unire la ricerca di un po’ di aria fresca con la curiosità di scoprire, dal vivo, i luoghi che da sempre ho sentito cantare negli stornelli, nelle ninne nanne e in genere nelle canzoni tipiche della musica popolare toscana, in particolare quella tramandata nelle valli della montagna pistoiese.
Ed ecco che, per una scelta assolutamente casuale, mi trovo a soggiornare a Pian degli Ontani, un piccolo borgo della Val Sestaione, nel comune di Abetone-Cutigliano. Un luogo bellissimo nella sua semplicità: poche case, un albergo, un bar, un fiume, boschi, silenzio ma nello stesso tempo un’acustica perfetta, di quelle che permettono di parlarsi “da monte a monte”, attraverso la valle, e che mi ha portato indietro nel tempo, quando a parlarsi da monte a monte erano le pastore e i pastori, spesso bambine e bambini, che cercavano di superare l’isolamento e la noia del lavoro parlandosi o cantando le rime ascoltate dalle/dagli anziani e lasciando trasportare dal vento le parole.

Appena arrivata nel paese mi rendo conto che tutto rimanda a una certa “Beatrice poeta pastora” e subito qualcosa si muove nella mia memoria. Il nome non mi è nuovo, ma dove lo avevo letto? Perché mi suona familiare? Ed ecco che quello che doveva essere semplicemente un tempo di riposo diventa un cammino di ricerca, animato dalla curiosità di saperne di più su questa donna di cui ancora si respira, tra le strade del paese, la presenza, la vitalità, l’attualità. E non soltanto perché le è stata intitolata la strada principale, c’è un’epigrafe funeraria, è stato fondato un centro culturale in suo nome, è stata creata una passeggiata poetica e un parco culturale dove, su appositi massi levigati, sono stati incisi i suoi versi, ma soprattutto perché Beatrice, la sua storia, le sue improvvisazioni, la sua essenza è ancora estremamente “viva” nella memoria della gente del posto.

Mi sono infatti trovata seduta nel bar, mentre davanti a un caffè cercavo su Internet le informazioni che mi avrebbero permesso di capire perché il nome di Beatrice Bugelli mi suonasse familiare, quando ho sentito un gruppo di “locali”, seduti al tavolo vicino, che parlavano proprio di Beatrice, ne ricordavano le vicende, la casa natale, le traversie, come fosse una parente scomparsa da poco, una del paese, una di loro. E allora ho spento il telefono e ho chiesto loro se potevano raccontarmi la storia.

Ritratto di Beatrice Bugelli in età avanzata

Maria Beatrice Bugelli nacque nel 1802 al Conio, frazione del Melo nel comune di Cutigliano. Figlia di uno scalpellino, rimasta orfana di madre quand’era ancora molto piccola, diventò l’assistente del babbo, tanto da seguirlo anche nelle fatiche invernali in Maremma, dove la gente della montagna si spostava a lavorare e da dove, spesso, tornava ammalata o defunta. Beatrice, come la maggior parte della gente della montagna, non aveva nessuna istruzione, non conosceva nemmeno l’alfabeto ma possedeva una memoria prodigiosa e, mentre era sola sui monti, passava le ore cantando e scambiando con altri coetanei, oltre la valle, storie in versi imparate a memoria sin da bambina.

A vent’anni si sposò con Matteo Bernardi, molto più anziano di lei, proprietario di un podere a Pian di Novello, che faceva parte della Pieve di Pian degli Ontani. Il giorno delle nozze, secondo una vecchia abitudine locale, un paio di poeti vennero invitati per improvvisare canti adatti all’occasione, praticamente una sorta di tradizionale tenzone poetica, ma non appena Beatrice li ebbe ascoltati, iniziò a improvvisare lei stessa, partecipando alla disputa e continuando a cantare per un bel po’, stupendo familiari e invitate/i.
La sua capacità di cantare e improvvisare rime e ottave venne talmente apprezzata che da allora fu lei la poeta, di tutta quella parte della montagna, a essere invitata per cantare e recitare ai matrimoni e nelle altre feste.

La vita sulla montagna, però, come ricordano i miei narratori, non è mai stata semplice. Beatrice continuò a pascolare le pecore anche dopo il matrimonio e addirittura due dei suoi otto figli nacquero mentre lei “era alla macchia”. In più lo straripamento dei fiumi Lima e Sestaione, nel 1863, provocò gravissimi danni nella valle, tra cui la distruzione della casa di Beatrice, tanto che la famiglia si salvò a stento. Ma com’è tipico della gente della montagna, Beatrice trovò la forza per risollevarsi; continuò anche a cantare e improvvisare rime e ottave tanto che la sua fama si espanse oltre i crinali appenninici e venne spesso invitata a esibirsi anche nei salotti fiorentini, pistoiesi, addirittura bolognesi fino alla morte, giunta il 25 maggio 1885.

Monumento funebre presso il Cimitero di Pian degli Ontani

Quando alla fine del racconto ho chiesto loro: «Quindi chi è per voi Beatrice?» mi sono sentita rispondere: «Beatrice l’è stata una gran donna, pastora, poeta, improvvisatrice di ottave, montanara forte e pratica, abituata a lottare ma sempre allegra. Noi si cantano ancora le sue rime».
Ecco svelato l’arcano, ecco cosa si era mosso nella mia memoria. Beatrice di Pian degli Ontani era stata una delle più conosciute figure della musica popolare toscana che da sempre ha fatto parte del mio bagaglio ma della quale, proprio per la specificità della cultura tramandata oralmente, non si hanno memoria degli autori e delle autrici. Ma allora com’è stato possibile che il suo nome a differenza di moltissimi altri, sia arrivato così potente fino a noi?
Se i canti di Beatrice non sono scomparsi con lei il merito è principalmente di Niccolo Tommaseo e di altri letterati come lui (lo studioso di “poesia popolare” e poeta Giuseppe Tigri, i letterati Massimo d’Azeglio e Giuseppe Giusti, il linguista Giambattista Giuliani), tutti interessati a raccogliere testimonianze della lingua parlata sulle montagne pistoiesi.

Siamo in pieno Risorgimento, anche se sui crinali appenninici gli echi delle battaglie che portano all’Unità d’Italia spesso neanche arrivano. Giungono però i letterati di cui sopra, alla ricerca della lingua parlata da Dante, lingua che fosse in grado di unire i popoli e, nello stesso tempo, di dar voce all’Italia nuova, con un linguaggio finalmente libero dal peso delle tradizioni esclusivamente accademiche. E il dialetto parlato su queste montagne era ritenuto quanto di più vicino al volgo dantesco. Naturalmente ogni letterato che saliva per svolgere la sua ricerca, prima o dopo, si imbatteva in Bugelli; tutti rimanevano stupiti della sua capacità di ricordare canti antichi come di improvvisarne di nuovi, e ammiravano il suo estro creativo in grado di infiammarsi, in particolare nel contrasto con altri improvvisatori della zona.
Grandi letterati, insigni studiosi che hanno dato voce alla voce di Beatrice, seppur con toni che mi sento di definire quasi paternalistici, entusiasti della scoperta in un mondo che stava iniziando a capire il valore del passato, quasi una sorta di scavo archeologico come quelli che stavano fiorendo in Egitto o a Troia, rimangono uomini che, in fondo, sentono il bisogno di sottolineare non solo le capacità di Beatrice ma anche, ad esempio, il fatto che “non fosse bella”.

Monumento commemorativo posto nella piazza principale di Pian degli Ontani

Ma la mia ricerca si è poi spinta oltre, nel momento in cui ho scoperto che tra i letterati e gli artisti che hanno conosciuto la poeta pastora c’è stata anche una donna, anzi una grande donna, purtroppo poco conosciuta rispetto ai colleghi: Francesca Alexander (Boston 1837-Firenze 1917), autrice del libro Canti lungo le strade di Toscana (Roadside Songs of Tuscany-1885). Alexander apparteneva a una famiglia americana agiata che, come era di moda all’epoca, si trasferì a Firenze, considerata la culla della cultura e, sempre come voleva la moda, ogni estate prese l’abitudine di andare in villeggiatura all’Abetone. Qui scoprì che tutte le persone cantavano: contadine, pastore, carbonaie e fece la conoscenza delle/dei montanari del posto e della stessa Beatrice.
Era di casa all’Abetone e con Beatrice nacque una vera e solida amicizia, nonostante la differenza di età (la prima quasi sessantenne, l’altra poco più che ventenne). Nel suo libro, infatti, l’autrice parla non solo della poeta Beatrice ma anche e soprattutto della donna Beatrice, dei suoi familiari, delle sue vicende, dell’ambiente naturale e sociale della gente di questi monti e arriva a definire l’amica «una delle donne più meravigliose che ho conosciuto».

Ritratto di Beatrice Bugelli eseguito da Francesca Alexander

Anche Francesca Alexander, come il Tommaseo, si dedicò a raccogliere le testimonianze dei canti tipici della montagna pistoiese ma il suo approccio fu totalmente diverso, oserei dire più “femminile”. Intanto non si limitò a scrivere ma, essendo anche un’abile pittrice, nel suo libro ha lasciato moltissime testimonianze pittoriche, tra cui l’unico ritratto della poeta pastora. Inoltre, le sue ricerche la portarono non solo a indagare e ascoltare, ma soprattutto a osservare e vedere la vita delle contadine e dei contadini, delle pastore e dei pastori, delle carbonaie e dei carbonai, delle donne e degli uomini della montagna. Le loro vite e difficoltà quotidiane, da cui in fondo scaturivano le rime e le canzoni, non erano per lei soltanto materiale di studio o di approccio anti-accademico, come avveniva per i colleghi, ma vere e proprie esperienze che la toccavano e la coinvolgevano. Per le genti della montagna divenne una sorta di “Primula Rossa:” assisteva i contadini ammalati, mandava i loro figli al mare per curarli, acquistava materassi, vestiti, scarpe e in caso di bisogno era lei che pagava le pigioni arretrate e riscattava gli attrezzi agricoli.

Una donna che per me è stata davvero una inaspettata scoperta. Beatrice e Francesca, due figure femminili straordinarie, tanto lontane per origine ed estrazione sociale, ma al tempo stesso così vicine e affini: senso artistico unito all’amore per la montagna e per il prossimo. Beatrice, poeta pastora, a cui la sua gente ha dedicato e continua a dedicare l’impegno del ricordo e Francesca, autrice, ricercatrice e pittrice, a cui nessuna strada è dedicata ma che ha fatto molto per queste terre bellissime ma difficili da vivere e che è stata in grado di lasciarci la memoria di un’eredità culturale antica e unica, raccontata e illustrata senza la necessità di adottare i toni tipici degli intellettuali della sua epoca.

Uno dei massi situati lungo Viale Beatrice a Pian degli Ontani con incise
le rime di Beatrice Bugelli

La storia, come la luna, ha sempre il suo lato nascosto.
E forse avrebbe senso, in questi luoghi impregnati della storia e delle parole della cantora, una strada intitolata anche a Francesca Alexander, “Primula Rossa del popolo dell’Abetone”.

Alcune rime:

Rima dedicata al novello sposo il giorno del matrimonio
Io ho camminato più di cento miglia / sempre davanti alla spera del sole
non ho trovato chi vi rassomiglia / un giovin come voi al paragone.
Di voi il paragon non ho trovato / siete più bello del cielo stellato.
Di voi non ho trovato il paragone / siete più bello di quel bello Adone.

Risposta in rima data a Cecco, Francesco Chierroni, un noto cantore dell’epoca, durante una disputa poetica
Degno saresti di andare in Maremma, / In delle macchie dove fan li cerri:
dove li porci fanno la rassegna, / andar con quelli che si chiaman verri.
Ti manca calamaro carta e penna, / Sento che nel cantar molto spess’erri;
ben io ti piglio per un cigno stanco / Porti le orecchie lunghe e ‘l petto bianco.

Versi improvvisati e dedicati a due deputati presenti durante un incontro in un salotto fiorentino
Deh, se a questa razzaccia maledetta / che così malgoverna il bel podere,
Sant’Andrea gli mandasse la disdetta, / con un sonoro calcio nel sedere;
e mettesse a’ lor posto de’ mezzadri / meno ingordi e rapaci e meno ladri!

Rime varie
Palazzo che non sia ben fondato / presto ne fa vedere la sua rovina;
così l’inferno del male aggravato / che prendere non può la medicina.
Orto che non sia ben coltivato / erba buona non fa per la cucina;
questo dice il proverbio universale/ che il bene vien dal bene e il mal dal male.
Non vi meravigliate, o giovinetti / se non sapessi troppo ben cantare:
in casa mia non c’è stato maestri / e manco a scuola son ita a imparare.
Se voi volete intender la mia scuola: /su questi poggi all’acqua e alla gragnola.
Volete inter voi lo mio imparare? / Andar per legna o starmene a zappare.
Uccellino che canti per il fresco, / per il caldo ‘un ti sento mai cantare
se ti potessi avere nel mio archetto, / i tuoi bei canti li vorrei imparare:
i tuoi bei canti e le tue belle rime / vada la voce mia ‘n cima a le cime!
I tuoi bei canti e le tue rime belle… / Vada la voce mia ‘n cime alle stelle!

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Articolo di Marta Razzi

Educatrice professionale, lavoro da oltre 30 anni in un servizio pubblico di Salute mentale adulti. L’impegno per la tutela dei diritti e la lotta allo stigma legati alla malattia psichica si associa da sempre all’interesse per la Piccola storia e per la cultura popolare, in particolare dal punto di vista femminile.

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