L’ultimo incontro del corso Genere e diversità all’origine di violenze e discriminazioni del progetto La storia siamo noi della Sis è la seconda parte della lezione Dissenso e diversità religiose, presentata dalla professoressa Sara Borrillo, ed è dedicata alla questione dei diritti delle donne all’interno dell’Islam. Borrillo è docente di Storia dei Paesi islamici a Tor Vergata e si occupa di movimenti femministi in Medioriente, soprattutto in Marocco e Tunisia, nonché nei territori palestinesi.
Quale è la storia dell’attivismo femminile nei Paesi a maggioranza islamica? In Occidente la risposta a questa domanda è spesso pregna di pregiudizi e preconcetti: tendiamo a vedere i diritti della donna e la religione islamica come due concetti ossimorici, fondamentalmente incompatibili in quanto si crede che nell’Islam i valori dei diritti umani e della democrazia non possano trovare posto. Da qui l’idea che le donne musulmane debbano essere in qualche modo “salvate” dal/dalla “prode” occidentale, e questo “salvataggio” ha storicamente preso la forma del colonialismo: la difesa delle donne è infatti stata usata dal discorso colonialista per poter giustificare occupazione e conquista – e ciò mentre in patria si combatteva con ogni mezzo per impedire l’accesso al voto alle cittadine. L’emancipazione femminile è stata, quindi, un argomento usato per promuovere il “fardello dell’uomo bianco”, la missione “civilizzatrice” che gli uomini e le donne europee si sono autoimposte di portare a termine e che nascondeva – ma neanche troppo – intenti tutt’altro che nobili.
Molti dei nostri pregiudizi sul mondo islamico hanno radici nell’Orientalismo, un atteggiamento paternalistico che tende a ridurre le/gli abitanti del Medioriente e del Nord Africa a mero oggetto esotico, visti come un Altro la cui funzione principale è quella di mostrare l’Occidente come un luogo civilizzato e progredito al contrario dei “barbari” di quelle regioni.

Ciò ha alimentato – e alimenta tuttora perché gli stereotipi fanno fatica a morire – atteggiamenti xenofobi e di intolleranza; il caso più esaustivo che lo dimostra è tutto il dibattito attorno al velo islamico e al diritto della donna musulmana di non mostrare il proprio corpo: la storica Paola Caridi nota che nei libri dedicati all’Islam le copertine hanno spesso la foto di una donna dal volto interamente coperto tranne per gli occhi, una scelta estetica che simboleggia non solo un atteggiamento pregno di Orientalismo, ma anche il rendere la donna musulmana un oggetto sconosciuto la cui essenza è nascosta dalla sua religione. Come ben si sa, dopo l’11 settembre la situazione per il mondo islamico precipita velocemente: la “lotta al terrorismo” mette in subbuglio una regione già profondamente ferita dall’era coloniale e post-coloniale. Ancora una volta l’emancipazione femminile si dimostra un’arma di propaganda eccezionale: lo stato dei diritti delle donne fu infatti utilizzato per giudicare il livello di “civilizzazione” di una regione e da qui decidere se invadere o meno per “liberarle”. Il velo come indicatore di libertà: il corpo della donna è ancora una volta campo di battaglia.
Questa lunga introduzione serve per farci comprendere quanto il pregiudizio, costruito su decenni di propaganda, influenzi la nostra opinione attuale sull’Islam e sulle regioni a maggioranza islamica: la prima è una religione come tutte le altre che ha diverse interpretazioni, alcune più conservatrici altre più progressiste, esattamente come accade per il Cristianesimo e l’Ebraismo; il Nord Africa e il Medioriente, ma anche il Sud-est asiatico e la diaspora, non sono un monolite nel loro pensiero: anche in questo caso ci sono diversi gradi di conservatorismo e progressismo, tendenze influenzate dalla storia geopolitica della propria regione di provenienza. È fondamentale, per comprendere i movimenti femminili all’interno del mondo islamico, tenere conto della diversità di pensiero e sforzarci di riconoscere i nostri pregiudizi come tali.
Del resto, il femminismo delle donne bianche ha spesso fatto da stampella alla “missione civilizzatrice” dell’uomo bianco, per poter “liberare” le donne del Terzo mondo – che include anche le musulmane – dalle briglie del patriarcato, associando loro analfabetismo, domesticità, eccessivo zelo religioso, passività e assenza di una qualunque forma di azione; ignorando volutamente come queste donne siano sempre state al centro della mobilitazione, protagoniste di attivismo come quando incoraggiavano ad andare a votare e istruivano su come farlo, o promuovendo il lavoro extra domestico. È grazie a loro, e non al femminismo bianco, se oggi molte nordafricane e mediorientali fanno mestieri come la poliziotta o la tassista, o sono attive in politica. Certo, non bisogna idealizzare: la discriminazione è un problema ancora molto forte, a livello sociale c’è tanta pressione per scoraggiare le donne ad ambire a un’istruzione superiore, i matrimoni forzati e/o con minori sono tuttora accettati, ed è comune imporre una limitazione alla libertà di movimento – fino a qualche anno fa le donne saudite vivevano nel paradosso di poter votare ma non poter andare ai seggi perché era loro vietato guidare o muoversi senza un accompagnatore maschile con loro imparentato. Il “mondo islamico” conta più di due miliardi di persone, si estende per Paesi diversissimi l’uno dall’altro e tra etnie differenti, e al suo interno esistono diverse correnti a volte in contrasto tra di loro; l’unica cosa che hanno in comune sono il Corano, il testo sacro, e la lingua in cui è stato scritto, l’arabo. È assurdo pensarlo come un monolite dove tutti e tutte la pensano allo stesso modo.
Quali sono, quindi, le rivendicazioni delle donne musulmane? Quale battaglia si sta combattendo a loro discapito? La fonte delle discriminazioni che oggi subiscono è spesso legata ai codici di famiglia, la legge che regolamenta i rapporti familiari e che si basa essenzialmente su interpretazioni del Corano e della Sunna, i comportamenti e i detti del profeta Muhammad; ciò non solo ha reso i codici di famiglia diversi in ogni Paese, ma è secondo molte intellettuali musulmane dove risiede il potere del patriarcato, ed è per la loro modifica che le donne combattono. È importante qui riconoscere loro la capacità di decidere per sé in campo politico e sociale, anche quando i loro modi possono urtare la nostra sensibilità occidentale: oltre che all’opposizione netta da parte delle più progressiste, anche le più conservatrici cercano di accedere allo spazio pubblico negoziando continuamente con il sistema, alla ricerca di compromessi tra le istanze emancipatorie e il ruolo tradizionale della donna.

Fatima Mernissi (1940-2015) è uno dei nomi più noti tra le intellettuali islamiche: filosofa marocchina scomparsa da pochi anni e tra le più tradotte al mondo, in Sexe, idéologie et Islam, riprendendo in parte il concetto di continuità tra sfera privata e pubblica di Simone de Beauvoir, afferma che una democratizzazione della società e del sistema politico non può avvenire se prima non si democratizzano le relazioni familiari: la famiglia è la prima cellula della società. La giurista Ziba Mir Husseini ribadisce poi che la particolarità delle società islamiche è che in esse il teologico è inevitabilmente politico, e le regole sulla famiglia sono legate all’esegesi dei testi sacri: non esistono relazioni sessuali al di fuori del matrimonio, sia uomo che donna sono pensati come cittadini solo all’interno di un nuovo nucleo familiare che rende sia lui che lei riproduttori del sistema. È in questo continuum tra pubblico e privato che si innestano le richieste di emancipazione femminile.
Il dibattito sul ruolo della donna nel mondo arabo-islamico ha il suo inizio ufficiale con la pubblicazione di due volumi: La liberazione della donna del 1899 e La donna nuova del 1901 di Qasim Amin, avvocato egiziano – considerato il padre del femminismo arabo, non senza polemiche. Amin si inserisce nel movimento del Riformismo islamico, nato in Egitto e diffusosi poi in tutto il Medioriente durante la seconda metà dell’Ottocento a seguito dell’incontro-scontro con l’Occidente; chi aderisce al movimento sostiene la necessità di una modernizzazione che abbia i principi dell’Islam alla base. Da qui si sviluppano diverse correnti di pensiero che prendono a modello l’Età dell’oro islamica – quella succeduta immediatamente alla morte del Profeta – e cercano di riprodurla in chiave moderna. Queste diverse correnti hanno tutte però in comune un atteggiamento paternalistico nei confronti del tema dell’emancipazione femminile: in linea con la cultura del tempo la donna è vista come madre di nazioni in cerca di indipendenza dal colonialismo e nulla di più. Al contrario di quanto questi intellettuali avrebbero voluto, però, le donne si muovono autonomamente: sono attiviste, giornaliste, rivendicano il diritto all’istruzione e al lavoro, al divorzio femminile e all’abolizione della poligamia e del matrimonio minorile, e soprattutto sono in prima linea nei movimenti di indipendenza. In Egitto Huda Sharawi, fondatrice dell’Unione femminile egiziana, rientrando dal Congresso per il suffragio femminile tenutosi a Roma nel 1923, compie il sufur, il gesto dello svelamento, un atto che ebbe una enorme eco nel mondo arabo e fu causa di forti dibattiti.
Negli anni Cinquanta e Sessanta si entra in una seconda fase, caratterizzata dall’ambizione alla partecipazione politica attiva a seguito dell’ottenimento dell’indipendenza. Le donne siedono in parlamento, fondano sezioni femminili di partiti e sindacati, ma i loro diritti continuano a essere una questione minore. Una scossa arriva con la Rivoluzione iraniana del 1979 che introduce leggi molto restrittive nei confronti delle donne e dà nuove energie al movimento femminile islamista – già attivo precedentemente grazie all’azione di Zinab al Ghazali e delle sue Sorelle musulmane. Tra gli anni Settanta e Ottanta c’è una polarizzazione tra movimenti femminili islamisti e movimenti femminili laici, nati da partiti e sindacati di sinistra e che oggi hanno preso la forma di ong in lotta per i diritti delle donne. Il 1979 è anche l’anno in cui viene accolta la Convenzione per l’abolizione di tutte le forme di discriminazioni contro le donne (Cedaw) da parte dell’Onu, che i Paesi del Medioriente e del Nord Africa ratificano con molte riserve vista l’influenza che poteva avere sui codici di famiglia. Queste riserve diventano il bersaglio principale dei movimenti femminili, che spingono per una totale adesione alla Cedaw. In Iran, come contro discorso alla Rivoluzione, nasce una terza via, una alternativa: il femminismo islamico, nato grazie alla riflessione di intellettuali che cercano in una nuova interpretazione dell’Islam le basi dell’emancipazione femminile, sintesi tra femminismo laico di stampo occidentale che vuole che la religione rimanga un fatto privato e attivismo islamista che vuole complementarietà tra il ruolo tradizionale femminile e quello maschile.

Il femminismo islamico produce una nuova generazione di teologhe critiche, come Fatima Mernissi e Asma Lambrabet, e cerca di diventare anche un movimento sociale. Il suo obiettivo è riappropriarsi dell’autorità religiosa necessaria per approcciarsi all’esegesi dei testi sacri e prendervi parte, di modo da influenzare la creazione dei nuovi codici di legge, offrendo letture alternative che mirano a migliorare la condizione femminile. Molte sue partecipanti non si definiscono femministe, in quanto vedono nel femminismo una eredità coloniale, preferendo la definizione di “critica islamica di genere”, una critica sia verso il femminismo bianco che il patriarcato di matrice islamica; esse si considerano parte del gender jihad, la difesa delle loro comunità tramite lo sforzo (traduzione letterale di jihad) intellettuale sulle fonti del diritto per produrre nuove norme, una sovversione che possa portare alla depatriarcalizzazione dell’Islam. Ciò è per loro possibile perché il Tafsir, l’esegesi coranica, è human made, fatta dall’uomo, e pertanto fallibile; non bisogna poi confondere la dimensione etica con quella giuridica: la prima è immutabile, la seconda è l’adattarsi alle esigenze storiche. Questa nuova visione ha portato la teologa afroamericana Amina Wadud a diventare la prima donna a condurre la preghiera del venerdì, ricoprendo il ruolo di imam, la figura di riferimento della comunità islamica. Questa prospettiva di pensiero include donne provenienti dalle più diverse realtà, unite da una rete transnazionale che si ritrovano grazie a internet e assieme offrono interpretazioni alternative a versetti tradizionalmente letti in chiave discriminatoria, facendo così pressione sui governi per un cambiamento dei codici di famiglia.
***
Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
