Parole che fanno la differenza

A Lodi, in piazza del Broletto, l’evento Parole che fanno la differenza. Non solo questione di vocali del ciclo di incontri di Donne di parola. Il racconto di donne alla ricerca di un mondo senza barriere, promosso da Soroptimist Lodi in collaborazione con Toponomastica femminile, SNOQ Lodi e patrocinato dal comune di Lodi, ha affrontato un tema basilare per le pari opportunità tra i generi e uno di quelli più osteggiati nel senso comune. 

A prendere la parola per presentare l’argomento di discussione è Claudia Ferrari, presidente del Soroptimist International di Lodi, che pone al pubblico queste domande: fare attenzione al genere nei discorsi è importante? È giusto che il nostro modo di esprimerci cambi? Un aspetto del linguaggio, infatti, che forse non è sempre chiaro, è quanto esso evolva nel tempo: così come cambia il mondo cambia anche la lingua che è, e deve essere, specchio della realtà. Ma la lingua che parliamo tutti i giorni rispecchia la realtà? Quali sono gli accorgimenti che potremmo adottare per utilizzare un linguaggio più inclusivo e come imparare a utilizzarli? 

Ecco che Danila Baldo, vicepresidente di Toponomastica femminile e componente di SNOQ Lodi, inizia il suo intervento raccontandoci di come la sua tesi di laurea abbia dimostrato che il neutro, come esisteva nella lingua latina e tutt’oggi nella lingua tedesca, che dovrebbe rappresentare tutti e due i generi, maschile o femminile, porti in realtà a non considerare il femminile. Il suo lavoro di tesi, infatti, trattava di come Sigmund Freud, nei suoi studi psicoanalitici sull’infanzia, usasse il termine kinder, in tedesco di significato neutro, e di come si fosse accorto solo nei suoi ultimi anni di aver analizzato unicamente lo sviluppo sessuale maschile, mentre la sessualità femminile era ancora tutta da scoprire. Così, nella lingua italiana, utilizzare il maschile non marcato come neutro è improprio, con la conseguenza di non nominare e cancellare la presenza femminile. 
La formatrice prosegue poi indirizzando il discorso verso un argomento molto importante e discusso nelle problematiche del linguaggio di genere, proprio per la stretta relazione tra linguaggio e realtà: il femminile nelle professioni. Perché lo stesso titolo professionale spesso ha significati diversi se declinato al maschile o al femminile? Ad esempio: il governante e la governante, che mostra in maniera evidente come il ruolo maschile sia legato alla sfera politica mentre quello femminile alla sfera domestica. Inoltre, per i ruoli professionali socialmente importanti, una donna, quasi per poter essere legittimata a svolgere la professione, viene nominata con il sostantivo maschile: l’avvocato, il medico, l’ingegnere…: la donna deve essere vista come “uomo” per essere credibile. Questo, però, non è un linguaggio che descrive la realtà, e non è solo una questione di dover mettere la -a finale, perché abbiamo anche termini che finiscono in -a (sentinella, spia, guardia giurata) che ci fanno pensare subito a un uomo; è una questione mentale: per cambiare il linguaggio occorre cambiare la mentalità e valorizzare la presenza femminile anche in autorevoli incarichi, di ricchezza e di potere, nella società. Suggerisce la lettura di molti articoli in proposito, presenti sulla rivista online di Toponomastica femminile, vitaminevaganti.com, soprattutto quelli della docente di sociologia Graziella Priulla. 

Prende poi la parola Martina Rosola, dottora di ricerca in filosofia del linguaggio all’Università di Brescia, che esordisce raccontando la prima volta in cui si è sentita toccata dal problema del linguaggio di genere: al liceo era in una classe a maggioranza femminile e quando un professore entrando disse “ciao ragazze” invece di usare il maschile inclusivo “ciao ragazzi”, ecco che uno dei soli tre maschi presenti si lamentò di sentirsi escluso. Noi donne però, anche se siamo in venti con un uomo e viene usato il maschile inclusivo per riferirsi a noi, non diciamo ogni volta: “ci siamo anche noi!”, eppure ci siamo, e spesso anche in maggioranza. Il problema del maschile inclusivo è che è una convenzione che rende invisibili le donne, nasconde sia la nostra presenza sia la nostra assenza (per approfondimenti: Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini). Danila e Martina ci portano poi degli esempi di indovinelli e giochi fatti con bambini e bambine che fanno emergere quanto l’imparzialità linguistica possa essere sradicata a scuola fin dall’infanzia. Danila racconta di come in una scuola elementare (dividendo la classe in tre gruppi) avesse chiesto alle bambine e ai bambini del primo gruppo di dare un nome a un chirurgo, la cui immagine era presentata senza volto: e immancabilmente erano stati indicati solo nomi maschili; uscito il primo gruppo e chiedendo al secondo di dare un nome a quella persona che lavora in chirurgia, ecco che qualche nome femminile è affiorato; ma è servito chiedere esplicitamente, al terzo gruppo, di dare un nome a quella chirurga per far sì che venisse con sicurezza dato il nome di una donna. 

Martina, invece, propone un indovinello: un padre e suo figlio sono in macchina insieme, fanno un incidente, il padre muore mentre il figlio viene portato all’ospedale, dove il medico dice: non posso operarlo, perché è mio figlio. Come è possibile? Trovandoci in un incontro sul linguaggio di genere la risposta corretta non ha tardato ad arrivare: “è la madre!”, ma in un contesto diverso probabilmente non sarebbe stato così evidente; io stessa, appena rientrata in aula in settimana dalle mie alunne e dai miei alunni, ho proposto questo indovinello e le prime risposte sono state: “è Dio” oppure “è gay!”. 

Ritornando alla questione delle professioni, Danila espone la storia di Paola Di Nicola, narrata nel suo libro La giudice. Una donna in magistratura, dove racconta di come le sia servito, per acquisire maggiore consapevolezza di sé e anche autorevolezza, smettere di nascondere il suo essere donna, iniziando così farsi chiamare “la giudice” invece che “il giudice” al maschile, e di come abbia capito che camuffarsi dietro un modo di essere e un sostantivo inadeguato alla sua realtà facesse apparire l’originale come migliore: il punto non è essere brava “come un uomo”, ma essere brava e basta!  

Per rispondere alla domanda: che fare? Danila Baldo sottolinea l’importanza di iniziare a utilizzare in ogni contesto un linguaggio che non nasconda ma nomini il femminile, e lo faccia in modo rispettoso e non svilente, parlarne a scuola, sollecitare la stampa su questo tema, nella direzione già intrapresa dall’associazione GiULiA giornaliste. 

Martina Rosola propone delle soluzioni, o meglio, degli accorgimenti che possiamo attuare come singole persone. Il primo accorgimento, il più importante, è l’impegno, perché la mentalità si può e si deve cambiare. Gli stereotipi per esistere, devono essere riprodotti, e siccome tutto passa attraverso il linguaggio, allora significa che è uno strumento potente sia per mantenerli sia per distruggerli. Bisogna, poi, agire sulle proprie rappresentazioni, evitare l’automatismo, lo stereotipo e impegnarsi sempre ad andare oltre con il pensiero. Cosa fare nell’effettiva vita quotidiana? Un consiglio è quello di usare il femminile laddove si può, anche se il suono può sembrarci inusuale (come medica invece di medico) e di far uso di perifrasi, ad esempio “benvenute a tutte le persone presenti” invece di “benvenuti” e basta. Tra l’altro questa perifrasi permette di includere anche le persone non binarie, altro tema di cui si è discusso per l’attualissima questione se usare lo schwa o l’asterisco o altri simboli, per non escludere nessuna minoranza. 

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Articolo di Asia Roberta Cogliati

Appassionata di letteratura, cinema e attualità. Laureata nel 2022 in lettere moderne con una tesi sulla drammaturgia e l’inconscio tra Henrik Ibsen e Luigi Pirandello, attualmente frequenta la magistrale in Filologia Moderna presso l’Università degli Studi di Pavia. Al di fuori del percorso accademico ha praticato nuoto agonistico per dieci anni, qualificandosi ai campionati europei Juniores del 2015.

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