Continuiamo la scoperta delle viaggiatrici che hanno rivoluzionato la fotografia con i loro reportage e punti di vista unici.
Hélène Julienne Delacour (1894-1990) è una scrittrice prolifica e poliedrica, pioniera della fotografia di viaggio. Viaggia, insieme al marito – l’ambasciatore Henri Hoppenot – in Brasile, Iran, Cile, Germania, Libano, Siria, Svizzera e Cina, documentando tutto quello che vede e le sensazioni che le suscitano, in una serie di diari che saranno poi stampati, rivelando una mente lucida e in grado di intuire i grandi mutamenti diplomatici dell’epoca, dalla Seconda guerra mondiale all’ascesa del generale de Gaulle. Acuta osservatrice, impara a fotografare da autodidatta, una passione che trova piena realizzazione nel suo soggiorno cinese, dove si stabilisce nel 1933, e dove immortala ciò che la circonda, dalle strade trafficate ai paesaggi mozzafiato, mostrando sempre molto rispetto e ammirazione per la cultura locale; foto che oggi sono considerate una preziosa testimonianza di un’epoca di veloce cambiamento per la Cina. Il suo lavoro sarà poi pubblicato in sei libri fotografici: Chine, Extreme-Orient, Rom, Tuniesie, Mexique e Guatemala.

Denise Loeb, meglio conosciuta col nome d’arte Denise Colomb (1902-2004), si avvicina alle avanguardie artistiche grazie ai suoi fratelli Pierre e Edouard, famosi galleristi. È il marito Gilbert, fratello della fotografa Thérèse Le Prat, a regalarle la sua prima macchina fotografica durante un viaggio in Egitto. La passione, però, divampa quando la coppia si trasferisce in Indocina: nei suoi viaggi tra Vietnam, Cambogia e Cina Loeb ritrae la vita quotidiana delle persone locali e i paesaggi della regione. Tornata in Francia adotta lo pseudonimo Colomb per sfuggire all’antisemitismo sempre più violento sotto l’occupazione tedesca. Dopo la guerra inaugura la sua prima mostra alla libreria Le Minotaure, per poi dedicarsi a ritrarre gli artisti e le artiste frequentate dai fratelli. Nel frattempo continua a viaggiare: nel 1948 va nelle Antille francesi dove partecipa al lavoro etnografico di Michel Leiris per il centenario dell’abolizione della schiavitù. Qui torna dieci anni dopo su commissione della Compagnie Générale Transatlantique in qualità di fotografa pubblicitaria, proseguendo però il suo impegno di documentarista della situazione delle classi meno abbienti e del paesaggio tropicale, usando stavolta i colori per mettere in risalto la vitalità di quei luoghi. Per conto di altre riviste visita poi l’India, la Palestina, l’Italia, il Portogallo e la Norvegia, realizzando reportage dove emerge il suo punto di vista umanista, sempre attenta a ritrarre la condizione della gente nella sua quotidianità. Sperimenta anche con la fotografia, come quando decide di conservare delle stampe danneggiate durante lo sviluppo che presentano delle incrinature sulla superficie dell’immagine, ma che conferiscono ai soggetti una patina velata, o con la solarizzazione. Nel 1991 dona tutto il suo lavoro allo stato francese: più di 50000 negativi, più di 2000 tra stampe e documenti, tutto conservato nella Médiathèque de l’architecture et du patrimoine di Charenton-le-Pont.

Vivian Maier (1926-200) nasce a New York da padre austriaco e madre francese. Quando i genitori si separano viene affidata alla madre che si trasferisce nel Bronx ospite di un’amica, Jeanne Bertrand, che è una fotografa professionista e che ben presto trasmette la sua passione alla piccola Vivian. Le due si trasferiscono in Francia dal 1932 al 1938, dove la vita di Maier viene documentata dalla madre, anche lei appassionata di fotografia. Tornerà qui dopo la guerra, viaggiando per la regione dello Champsaur e fotografando luoghi e persone. Con il ricavato della vendita di alcune sue proprietà in Francia si compra una camera fotografica di ultima generazione, una Rolleiflex professionale, con la quale documenta il viaggio per il Nord America. Nel 1956 si stabilisce a Chicago, dove diventa governante della famiglia Gensburg e continua a coltivare la sua passione, sperimentando con le pellicole e con i colori. Antesignana della street photography, tra il 1959 e il 1960 viaggia nelle Filippine, in Thailandia, in India, nello Yemen, in Egitto e in Italia, prima di tornare un’ultima volta in Francia. I suoi autoritratti con la macchina fotografica riflessa su uno specchio diventano il suo marchio di fabbrica. Negli anni Novanta gravi difficoltà finanziare la portano a dover sistemare il suo archivio in alcuni depositi; uno di questi viene venduto all’asta nel 2007 a John Maloof, che riscopre così i negativi delle sue opere, pubblicate poi su Flickr generando un forte entusiasmo e seguito. Purtroppo, Maier non può godersi il successo: muore a seguito di un incidente sul ghiaccio nel 2009, prima che Maloof riesca a rintracciarla. Questi sarà poi autore di un documentario su di lei e si dedicherà a ricostruirne la vita.

Janine Niépce (1921-2007) nasce a Meudon, in Francia, ed è una parente alla lontana del pioniere della fotografia Nicéphore Niépce. Durante la guerra prende parte alla Resistenza francese mentre studia storia dell’arte alla Sorbona. Diventa una delle prime a esercitare la professione di reporter, documentando l’avanzata degli Alleati in Bretagna dopo lo sbarco in Normandia. Percorre poi il Paese per documentare le disparità sociali tra le città e le campagne, è quindi una delle prime fotogiornaliste del Paese. A partire dal 1963 inizia a viaggiare in tutta l’Europa e poi nel mondo, arrivando in Giappone, in Indocina, negli Stati Uniti e in Canada; immortala gli eventi del Sessantotto, soprattutto il Movimento di Liberazione della donna, allineandosi al movimento femminista e diventando un’attivista di prima linea.

Sabine Weiss (1921-2021) è una delle maggiori rappresentanti della fotografia umanista francese, corrente fotografica che pone l’attenzione sulla persona nei vari contesti sociali. Prende in mano la macchina sin da piccola mostrando una tale passione da convincere la famiglia a sostenere il suo sogno e a mandarla a fare l’apprendistato presso Frédéric Boissonnas, fotografo con lo studio a Ginevra. Nel 1946 si trasferisce in Francia dove diventa assistente di Willy Maywald e viene introdotta nella scena artistica dell’epoca. Nel 1949 va in Italia per documentare la società post-Liberazione, e qui conosce il pittore americano Hugh Weiss, che sposa l’anno dopo e con cui crea un fruttuoso sodalizio artistico. Nel 1952 entra a far parte dell’agenzia Rapho, la principale agenzia di stampa francese, che le offre un posto dopo l’incontro col direttore di Vogue; è l’unica donna oltre a Janine Niépce, ed entrambe dovranno sgomitare per farsi strada in un mondo prettamente maschile. Mentre lavora per riviste come Vogue e Holiday, Weiss continua a dedicarsi alla fotografia di strada, ritraendo la quotidianità attorno alla sua casa parigina. Le sue foto vengono esposte al Museum of Modern Art di New York e all’Art Institute of Chicago dove si reca per pubblicizzare il suo lavoro e intraprendere un vero e proprio tour per gli Stati Uniti. Negli anni Ottanta riceve diversi incarichi da parte del Ministero della cultura francese, e viaggia in Egitto per documentare la comunità copta, nella regione del Marna e nell’isola di Réunion, nell’Oceano Indiano. Nel 2017 dona il suo intero archivio, contenente oltre 20000 negativi, al museo de l’Élysée, a Losanna.

Marilyn Silverstone (1929-1999) è la figlia maggiore di Murray, delegato amministrativo della United Artists e della 20th Century fox, e Dorothy. Cresce a New York, si laurea al Wellesley College e collabora alle riviste d’arte e design Art News, Industrial design e Interiors, recandosi spesso in Italia per creare documentari. Diventa fotogiornalista nel 1955, viaggiando in Europa, Africa e Medioriente. Nel 1956, in India, incontra il caporedattore della testata Indian Express Frank Moraes, che diventerà l’amore di una vita, e con lui vive a New Delhi fino al 1973, incontrando e mantenendo i contatti con l’élite intellettuale e diplomatica. Silverstone rimane profondamente affascinata dalla cultura e dalla storia indiana. La sua foto che ritrae l’arrivo del Dalai Lama nel Paese dopo l’esilio dal Tibet viene pubblicata sulla rivista Life, facendo la storia. Nel 1964 entra a far parte dell’agenzia Magnum Photos, che distribuisce il suo lavoro nel mondo e contribuisce ad aumentarne la fama a livello internazionale. Per loro Silverstone viaggia per tutta l’Asia, concentrandosi soprattutto in India – da dove dovrà andare via dopo che le sue foto fanno alterare la prima ministra Indira Gandhi – e in Nepal. Ocean of Life, pubblicato nel 1985, raccoglie tutte le sue foto realizzate nel subcontinente indiano. Collabora poi con Lauree Miller per creare libri per l’infanzia che possano far conoscere l’India e l’Himalaya a un pubblico giovane. A seguito della morte di Moraes si converte definitivamente al Buddhismo, cambiando nome in Bhikshuni Ngawang Chödrön e ponendo fine alla sua carriera di giornalista, ritirandosi in Nepal.

Gertrude Lörtscher (1901-1993) nasce nel cantone di Berna, in Svizzera. Si unisce al Partito socialista mentre studia a Zurigo, interessandosi alla politica e al giornalismo. Abbandonati gli studi, inizia a viaggiare per l’Europa per conto del partito; nel 1925 sposa Kurt Düby, da cui si separa dopo un paio di anni a seguito del suo trasferimento in Germania per documentare l’ascesa del Nazismo. Il suo impegno antifascista la porta poi a Parigi, dove si unisce al movimento internazionale contro Hitler; nel 1939 viene arrestata e deportata in Svizzera. Da qui parte per il Messico, dove poco dopo viene incaricata dal governo di documentare la vita delle donne locali. È in questa occasione che acquista la sua prima macchina fotografica. Nel 1943, ispirata dall’antropologo francese Jacques Soustelle, si unisce alla spedizione nella regione del Chiapas per fotografare la comunità Lacandon Maya, guadagnandosi la fiducia del popolo del luogo. Nella seconda spedizione incontra Frans Blom, archeologo e cartografo danese che diventerà compagno di vita e di esplorazioni – sarà da qui in poi conosciuta col cognome del marito, con cui convola a nozze nel 1951. La coppia si trasferisce da Città del Messico a San Cristobal de las Casas, a Chiapas, di modo da poter stare più vicino ai Lacandon e avere una base per le loro fruttuose spedizioni. Blom documenta la foresta pluviale, le genti locali, e il veloce cambiamento che sta attraversando il Messico in quegli anni, compreso la devastante deforestazione che la porta a diventare una delle prime attiviste per il clima e per i diritti delle popolazioni indigene. Nel 1975 avvia El Vivero, un progetto per piantare alberi per contrastare la deforestazione, e fonda l’associazione Na Bolom, per sostenere i Lacandon, mettendo a loro disposizione la sua attività di fotografa.


Inge Morath (1923-2002) nasce a Graz, in Austria, e fin da piccola viaggia per l’Europa accompagnando i suoi genitori, entrambi scienziati. Entra in contatto con i movimenti avanguardisti nel 1937, durante una mostra su “l’arte degenerata” organizzata dal Partito nazista: invece che rimanerne disgustata Morath è estasiata, soprattutto da Cavallo blu di Franz Marc, ma deve tenere per sé i suoi reali pensieri. All’università studia lingue, diventando fluente in francese, inglese, romeno e poi spagnolo, russo e cinese. La guerra la segna al punto che si rifiuterà di fotografare conflitti negli anni a venire, preferendo mostrare le conseguenze della guerra e le storie delle singole persone. Nel 1948 viene assunta dalla rivista Heute, collaborando con il fotografo Ernst Haas. Nel 1949 i due vengono assunti come redattori da Robert Capa per la cooperativa Magnum Photos. È qui che scatta l’amore per la fotografia, l’unico linguaggio che le permette di esprimersi al meglio, che si consolida con un viaggio a Venezia. Nel 1953 Capa, dopo aver visto i suoi lavori, le propone un incarico come fotografa per Magnum Photos, per poi farla diventare un membro effettivo dopo un periodo di apprendistato presso Henri Cartier-Bresson: per conto loro Morath viaggia in Europa, Sud America, Medioriente e Nord Africa. Nel 1955 pubblica Guerre à la Tristesse, fotografie della Spagna, e nel 1958 De la Perse à l’Iran, fotografie dall’Iran. Inizia a lavorare sui set cinematografici, dove incontra il futuro marito Arthur Miller sul set del film Gli spostati. Dopo il matrimonio si trasferisce negli Stati Uniti, ma non rinuncia al viaggio: la coppia pubblica diversi lavori sulla Russia, la Cina e il Connecticut, dove vivono. Morath incontra diversi artisti e artiste, tra cui Saul Steinberg, per il quale cura una serie di foto sulle sue maschere. Fotografa le case di Pasternak, Pushkin, Čechov e Mao Zedong; prima di viaggiare si immerge nella cultura del Paese che intende visitare, assicurandosi di sapere sempre almeno qualche frase della lingua parlata e riportando nei suoi diari tutto quello che le accade e vede. L’ultimo viaggio della vita lo compie nella sua terra natia, il suo più grande desiderio esaudito.
Catherine Leroy (1944-2006) nasce a Parigi e fin da giovane mostra un animo intraprendente e testardo, imponendosi in un mondo prettamente maschile come quello dei reporter di guerra. Impressionata dalle foto di conflitti della rivista Paris Match, nel 1966 compra un biglietto di sola andata per il Laos, armata di una Leica M2 e di pochi dollari, con l’obiettivo di restituire un volto umano alla guerra. Si mette al servizio della Associated Press e il 23 febbraio 1967 documenta l’operazione Junction City, fotografando i combattimenti da vicino e partecipando ai lanci dei paracadutisti. Il 30 aprile documenta la battaglia di Hill 881, dove scatta tre foto di un marine morente che le valgono la copertina della rivista Life. Il 19 maggio viene ferita da un colpo di mortaio, ma torna al lavoro dopo un mese. Nel 1968 viene rapita dall’esercito del Vietnam del Nord, ma riesce a scappare; durante la prigionia scatta alcune foto dell’esercito vietnamita, le prime che lo ritraggono dietro le loro linee difensive. Poco dopo diventa la prima donna a vincere il George Polk Award dell’Oversea Press Club, per poi tornare un’ultima volta in Vietnam prima del rientro a Parigi. Nel 1975 documenta la guerra in Libano, alternando viaggi in Medioriente e in Indocina, in tempo per vedere la caduta di Saigon e documentare l’entrata delle truppe comuniste in città. Dal 1977 immortala altri conflitti nell’Irlanda del Nord, a Cipro, in Somalia, Afghanistan, Iraq, Iran e Libia per conto del Time, e l’assedio di Beirut Ovest da parte delle forze armate israeliane nel 1982. Nel 2002, ormai ritiratasi, realizza un sito web che raccoglie il lavoro dei corrispondenti di guerra in Vietnam, che confluirà in un libro pubblicato nel 2005, Under fire: Great Photographers and Writers in Vietnam.

Dorothea Israelit (1924-2023) nasce a Königsberg, nell’allora Prussia orientale da una famiglia d’origine ebreo-lituana. Vive in Lituania fino al 1939, quando a causa del Nazismo viene mandata in Inghilterra dal fratello a Manchester, dove incontra il futuro marito Louis Bohm. Studia fotografia al Manchester Municipal College of Technology e ottiene un certificato presso la City and Guilds, per poi lavorare sotto la direzione del fotografo Samuel Cooper. Nel 1946 si mette in proprio, chiamando il proprio laboratorio Studio Alexander. A causa del lavoro di Louis, che è impiegato nell’industria petrolifera, Bohm inizia a viaggiare prima in giro per l’Europa, poi negli Stati Uniti a New York e San Francisco, poi in Messico. Negli anni Cinquanta inizia a dedicarsi alla street photography; nel 1961 e il 1987 soggiorna in Unione Sovietica, Sudafrica, Singapore, Hong Kong, Taiwan, Giappone ed Egitto, e i soggetti delle sue foto sono tra i più svariati, prediligendo sempre uno sguardo umanista ed empatico, volendo immortalare attimi che andrebbero inevitabilmente perduti.
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Articolo di Maria Chiara Pulcini

Ha vissuto la maggior parte dei suoi primi anni fuori dall’Italia, entrando in contatto con culture diverse. Consegue la laurea triennale in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale e la laurea magistrale in Storia e società, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Si è specializzata in Relazioni internazionali e studi di genere. Attualmente frequenta il Master in Comunicazione storica.
