«Si muovono in perfetta sincronia: si inchinano, si inginocchiano, si rialzano in piedi con uno scatto di arrogante potenza, appena smussato da una pennellata di umiltà. Uno strato di colore davvero superficiale, come traspare dal duplice sorriso che si allarga nello stagno della chiesa mentre le due si voltano e danno le spalle all’assemblea. Sulle vesti rosse della domenica risalta la bianchezza della cotta, che resta impressa sulla retina anche se si chiudono gli occhi. Ora salgono gli scalini sino all’altare come se non avessero mai fatto altro.
Bruno, coi suoi otto anni che lo rimpiccioliscono, segue ammaliato ogni gesto e passo delle due bambine, poco più grandi di lui. Una bruna e una bionda, tanto perché ogni cosa evidenzi una smaccata teatralità. Lui sta nel banco in mezzo al padre e alla madre, che lo custodiscono in una prospettiva rovesciata rispetto alla sacerdota e alle sue chierichette».
La lettura del racconto di fantascienza (fantascienza?) dell’amica Elisa Franco fa riaffiorare in me un ricordo sepolto dall’infanzia, che si ricompone come se ne fossi spettatrice, e non protagonista, ora che tanti anni sono passati (sessanta, o poco meno).
Sono seduta compunta, con il mio velo di tulle, rotondo, sulla testa (sempre originale, io), accanto a mia sorella maggiore (lei il velo lo ha di pizzo, triangolare), in uno dei primi banchi della navata delle femmine, forse il secondo. La navata dei maschi è posta di fronte a noi, la chiesa (realizzerò poi) ha pianta a croce greca. Papà è agnostico, mamma blandamente cattolica, ma a messa i nostri genitori ci mandano tutte le domeniche, nella chiesa parrocchiale. Guardo alla mia destra, incombe un’enorme tela con san Giovanni Bosco che incede su un tappeto di rose: i fiori contrastano con la sua tonaca nera, il volto sereno ma non sorridente. Allungo il collo, scomponendomi (mia sorella mi guarda malissimo) per sbirciare quale sia il soggetto del quadro che fa da pendant nella navata maschile: una giovane e graziosa santa Cecilia dallo sguardo ispirato e dalla veste azzurra.
E perché? Se la nostra è la navata delle femmine, perché a noi un brutto don Bosco e a loro una bella santa Cecilia? (Chiederò poi alle suore dell’oratorio femminile che le tele siano scambiate. Senza successo). E soprattutto, perché ai maschi è dato di fare i chierichetti e a noi no? Come se non si dessero già abbastanza arie… Al termine della funzione, esprimerò una vibrata protesta e mi offrirò volontaria come chierichetta. Senza successo. Forse anche le suore – penso allora – non hanno voce in capitolo, e non soltanto noi bambine. Chissà perché…
La citazione da Elisa Franco, Chierichette, in Efemera, 2 (luglio 2020), pp. 13-29.
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Articolo di Laura Coci

Fino a metà della vita è stata filologa e studiosa del romanzo del Seicento veneziano. Negli anni della lunga guerra balcanica, ha promosso azioni di sostegno alla società civile e di accoglienza di rifugiati e minori. Dopo aver insegnato letteratura italiana e storia nei licei, è ora presidente dell’Istituto lodigiano per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea.
