Il 6 giugno del 1939 due giovani donne partono da Ginevra, su di una Ford V8, piena di masserizie, macchine fotografiche, cineprese, sacchi a pelo, una tenda, due macchine da scrivere, intenzionate a raggiungere Kabul e, più oltre, l’India. Una autovettura privata consente una libertà che altri mezzi di trasporto non possono garantire e, sebbene in parte inconsapevoli delle difficoltà che avrebbero dovuto affrontare, le due viaggiatrici soggiacciono al fascino, che oggi ben conosciamo, di una avventura senza costrizioni.
Il progetto non parte sotto buoni auspici: l’Europa è sull’orlo di una guerra terribile, i cui prodromi, sebbene negati, sono già evidenti; la partenza di due donne sole, per quanto esperte viaggiatrici, che hanno in animo di attraversare in macchina territori desertici privi di strade percorribili, impensierisce amici/che e conoscenti; le due si conoscono da qualche tempo ma sono diverse per carattere e temperamento ed entrambe custodiscono incertezze e fragilità. Eppure, dopo sei mesi di un viaggio faticoso e bellissimo, che metterà a dura prova l’indistruttibile Ford, le esporrà a pericoli e malanni, rischierà di minarne per sempre il rapporto amicale, arriveranno a Kabul.
Ella Maillart e Annamarie Schwarzenbach sono due donne piuttosto speciali. La prima ha già al suo attivo imprese epocali, come raggiungere il Kashmir da Pechino, viaggiando da sola con mezzi di fortuna, attraversare il Turkestan, o allenare una squadra olimpionica di sci: è una donna profonda ed equilibrata, coraggiosa e consapevole.

Annemarie Schwarzenbach, più giovane di cinque anni, nasce a Zurigo nel 1908, da una ricca famiglia di industriali tessili, è bellissima, diafana e androgina, ha il fisico asciutto di un’adolescente e i capelli corti, i tratti, regolari e delicati, sembrano quelli di un ragazzo, di un “angelo caduto”, piuttosto che quelli di una donna, è un essere inquieto, minato dalla sofferenza che nasce dalla continua ricerca di un senso profondo del proprio esistere. Ha un fascino magnetico che attrae, ma il suo bisogno di pienezza, di totalità, la rende imprendibile, capace di grandi amori e di fughe precipitose, la sua omosessualità ne amplifica la fragilità, la espone a sentimenti eccessivi e dolorosi. Coltiva rapporti complessi e contraddittori, come quello con Erika, amatissima e sfuggente, e Klaus Mann, figli del grande Thomas, che la iniziano all’uso della morfina da cui a più riprese tenterà di liberarsi, oppure quello con Claude, giovane diplomatico di stanza in Iran, che sposa non tanto per amore quanto per liberarsi della pervasiva influenza materna e nella speranza di trovare una serenità che le sfuggirà sempre.
Anche Annemarie ha una certa notorietà, grazie a reportage di viaggi e fotografie, ha pubblicato qualche libro, ha già viaggiato moltissimo da sola in Siria e in Iran, ha alle spalle una vita affannosa, complicata, eccessiva. In seguito soggiornerà a lungo negli Stati Uniti dove incontrerà la giovane scrittrice Carson McCuller che di lei si innamora e che le dedicherà uno dei suoi romanzi, Rilessi in un occhio d’oro.

Dopo la morte di Annemarie, avvenuta a soli 34 anni, per gli esiti di una caduta dalla bicicletta, quasi un triste scherzo del destino, la madre, per proteggerne la memoria e soprattutto per difendere il buon nome della famiglia altolocata, brucerà parte delle sue carte, condannandola a un parziale oblio da cui tuttavia la sua memoria risorgerà grazie all’interesse di un editore e soprattutto di uno studioso ginevrino, Roger Perret, che nel 1987 ne riscopre l’opera e la prosa, lirica e penetrante. Da allora, intorno alla figura di questa intellettuale, così dolorosamente rappresentativa di una società e di un momento storico, ma anche di una individualità capace di cercare l’assoluto fino alla sofferenza, è nato un movimento fatto di pubblicazioni, convegni, mostre fotografiche, moltissime biografie; mi limiterò a ricordare il bel libro di Melania Mazzucco Lei così amata che ne ripercorre, romanzandola, la vita.
Quando Ella, detta Kini, e Annemarie decidono di partire sono entrambe alla ricerca di qualcosa: il fascino dell’imprevisto, della sfida ma soprattutto di un mondo che ci si augura estraneo alla follia europea della guerra e del fanatismo. Ma per Annemarie la partenza è anche fuga dai propri fantasmi, dalla dipendenza dalla morfina, dagli amori irrisolti ed è, come sempre, desiderio di un altrove in cui trovare pace e il proprio posto nel mondo.
La storia di questo viaggio è anche la storia dell’amicizia tra due donne che imparano a conoscersi e a stimarsi ma che finiranno con l’allontanarsi. Ella è consapevole della dipendenza di Annemarie e, nonostante le venga consigliato di rinunciare a una tale compagnia, è fiduciosa di poter aiutare l’amica a liberarsi, si scontrerà con le bugie, i sotterfugi, l’abiezione e le richieste di perdono di Annemarie, continuamente dilaniata tra la necessità di evadere dal proprio dolore attraverso la droga e il desiderio di essere leale e di vivere pienamente l’esperienza del viaggio.
Entrambe le donne sono fotografe e scrittrici, hanno ottenuto sovvenzioni in cambio della promessa di inviare reportage e da questa avventura nasceranno due libri in qualche modo speculari: Ella Maillart pubblicherà La via crudele nel 1947, quando Annemarie, indicata nel libro come Christina per proteggerne il buon nome, sarà già morta, mentre la sua compagna ha scritto circa ottanta tra articoli e reportage giornalistici pubblicati in riviste e solo in seguito raccolti in un volume, corredato da fotografie.
Seguire il percorso che dalla Svizzera si snoda attraverso la Turchia, l’Iran, il Turkestan, fino all’Afghanistan sulle pagine delle due viaggiatrici è come guardare un paesaggio da due prospettive contemporaneamente, gli stessi eventi vengono narrati con stile e sensibilità diversi, con una diversa attenzione ai dettagli. Mentre Ella indulge nella descrizione dei paesaggi e degli eventi con puntuale chiarezza, costruendo un diario di viaggio ricco di indicazioni geografiche e notazioni etnografiche, Annemarie affida alle sue pagine gli esiti dello scavo interiore che nasce dagli orizzonti inesplorati, dall’esperienza dell’altrove alla quale si è esposta.
Superata Trieste la Ford si dirige, attraverso la Iugoslavia, verso Sofia e Istambul, dove macchina e guidatrici vengono imbarcate sul battello Ankara per giungere a Trebisonda, l’antica Trapezunte. Ella Maillart sente il fascino della storia e delle leggende: immagina di ripercorre le tappe dei Diecimila mercenari greci in cammino verso il Mediterraneo, raccontati da Senofonte, richiama alla mente il viaggio dei Polo che a Trebisonda trovarono accoglienza e le infinite carovane che hanno attraversato la Via della Seta.
Ancora avanti attraverso l’altopiano anatolico fino all’Armenia e oltre, finalmente in Persia, attraverso strade impossibili o semplici piste mal segnate, dormendo in tenda ma più spesso in alloggi di fortuna e piccole locande. Gli incontri sono imprevedibili e non sempre piacevoli: la Turchia e l’Iran sono paesi militarizzati dove non si può girare liberamente e non si possono scattare fotografie, due donne (o forse una donna e un ragazzo – visto che Annemarie viene spesso scambiata per un adolescente) munite di macchine fotografiche e cineprese fanno nascere sospetti che vanno diradati in lunghe attese alle stazioni di polizia. Il processo di modernizzazione della Turchia avanza, si costruiscono tra enormi difficoltà strade e ferrovie per collegare l’Iran all’Europa, nella pioggia e nel fango maestranze apolidi – ingegneri tedeschi e russi, operai armeni – lavorano avanzando lentamente e lasciando dietro di sé, sparse nella pianura ventosa, le vestigia del progresso. Camion enormi attraversano i Paesi alimentati dalla linfa vitale, dal petrolio che la compagnia britannica di estrazione pompa dai pozzi iraniani, pagando parcelle milionarie allo scià.
E ancora avanti, oltre la depressione nel Mar Caspio nella steppa dei turkmeni, attraverso gli infiniti deserti che attraversano l’Asia Centrale e arrivano fino all’Oriente. Annemarie sente il fascino dei popoli nomadi che vivono in queste lande desolate con le loro greggi, riparandosi nelle iurte, liberi e ospitali e osserva tristemente che si muovono dall’Iran modernizzato verso le frontiere con le repubbliche sovietiche, senza sapere cosa li aspetti, poiché il loro mondo sta lasciando il posto a fabbriche, essiccatoi di tabacco, canali.
E finalmente l’Afghanistan, Herat e Kabul. A Herat le viaggiatrici indugiano a visitare la tomba di Giawhar Shad, principessa timuride che alla metà del xv secolo animò una rinascita culturale e ordinò la costruzione di una magnifica moschea a Mashhad; ma quale distanza tra il mondo della potente sovrana e questo paese in cui non vi sono donne: gli uomini afgani si muovono, svelti ed eleganti sotto il loro turbante, nei bazar, sulle strade, dignitosi e allegri, mentre le donne sono invisibili e raramente appaiono per le vie come sagome avvolte da manti, quasi impossibilitate a orientarsi nello spazio, impedite come sono da una reticella che ne nasconde anche gli occhi.
Accolte nelle case afgane Ella ed Annemarie non osano neppure chiedere notizie delle mogli e delle figlie dei loro ospiti, solo una volta vengono ammesse nel giardino, circondato da un alto muro, riservato alle mogli, dove incontrano la madre con le figlie, le nuore, le nipoti e i bambini: le ragazze appaiono belle, vivaci e intelligenti ma condannate a una reclusione senza alternative. Annemarie non può evitare di paragonare quelle vite alla sua, totalmente libera, insofferente a ogni regola e costrizione ma anche così disperata: «Per noi una vita del genere è inimmaginabile. Ma queste donne sono davvero infelici? Si può desiderare solo ciò che si conosce» (Annemarie Schwarzenbach, Tutte le strade sono aperte, Il Saggiatore pag.64).
Andando in visita alla capoinfermiera svizzera dell’ospedale maschile di Kabul, per la quale Ella ha parole di ammirazione stupita davanti a tanta determinazione, le due viaggiatrici incontrano una francese cresciuta in Normandia e andata sposa a un afgano. Davanti alla triste figura coperta dal chador, Annemarie si domanda quali aspettative, quale fascinazione abbia spinto una occidentale a rinunciare a ciò che le è familiare per chiudersi in un mondo di ozio, noia e disprezzo e la scrittrice ritrova la forza di «scrollarsi di dosso come un brutto sogno il proprio sconforto e dare nuovamente ascolto alla voce della ragione che ci incita a credere ai semplici propositi di un’esistenza degna e umana, e a difenderli» (Annemarie Schwarzenbach Tutte le strade sono aperte, Il Saggiatore, pag.70).
Eppure, incredibilmente un paese senza donne può essere accogliente per due donne sole. Davanti allo stupore del diplomatico inglese e del giovane ingegnere polacco, convinti dell’impossibilità di muoversi in sicurezza e con un minimo di confort nelle aride e selvagge lande afgane, le viaggiatrici rivendicano la propria esperienza: in nessun luogo si sono sentite offese o in pericolo, nessuno ha chiesto loro documenti o sottratto denaro e anzi sono state più volte aiutate senza neppure la richiesta di una mancia, sono state accolte e sfamate dalle tribù nomadi, servizievoli e ospitali, e negli alberghi statali costruiti nelle città, dai governatori e dall’hakim alla cui tavola hanno mangiato pilaf, verdure, uva e meloni.
Dopo un periodo di attesa a Kabul, Ella e Annemarie si separarono, dopo mesi di vita in comune e dopo aver constatato l’una il fallimento di ogni tentativo di liberazione dalla schiavitù della morfina, l’altra l’inutilità di qualunque sforzo per portare verso la luce un’anima così attratta dal dolore. Entrambe continuarono in solitudine il proprio percorso: Ella Maillart raggiunse l’India dove rimase fino alla fine della Seconda guerra mondiale, l’altra, imbarcata la fedele Ford a Bombay, tornerà in Svizzera per ricominciare una vita di peregrinazioni negli stati Uniti e in Africa.
Per entrambe il viaggio alla volta dell’Afghanistan ha rappresentato un sentiero faticoso alla scoperta della propria interiorità, unite dalla coscienza che «tutte e due avevamo scelto di rimanere libere per adempiere a un obbligo supremo verso noi stesse, per superare quella prova necessaria la cui natura ci era ancora sconosciuta» (Ella Maillart, La via crudele, EDT, pag 122). Ma forse il muoversi vorticoso a cui si era condannata spinse Annemarie all’ulteriore consapevolezza che il viaggio, considerato da molti avventura, liberazione dal quotidiano, è un modo per fare i conti con la casualità del nostro esistere, con il succedere inesausto di momenti che si perdono nella memoria, è incontri e addii, dei quali si dimentica anche il dolore.
«Certo, tutte le strade sono aperte ma non portano da nessuna parte, da nessuna parte» (Annemarie Schwarzenbach, Tutte le strade sono aperte, Il Saggiatore, pag.120).
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Articolo di Tiziana Concina

Ho insegnato per molti anni italiano e storia negli istituti tecnici e italiano e latino nei licei, mi interesso di letteratura femminile italiana e straniera, in particolare mi sono occupata di Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Attualmente rivesto la carica di vicesindaca e di assessora alla cultura in un comune in provincia di Rieti.

davvero interessante. Profondo e comunque brioso. Grazie Tiziana
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